Video Games New York

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a cura di LoreSka

È fine febbraio e a New York splende il sole. Il termometro segna 23 gradi. Tiro fuori la calcolatrice e cerco di convertire la stramba unità di misura americana nei più riconoscibili gradi centigradi: Cristo santo, sono cinque sotto zero. Così, imbacuccato peggio di Totò e Peppino a Milano, esco sulla quarantacinquesima alla volta di una stazione della metropolitana. Destinazione: East Village, a poche miglia di distanza da Little Italy.
Trovarlo non è stato facile: il negozio ha un’insegna squallida, e le vetrine circostanti lasciano pensare ad uno di quei posti dove non vorresti metterci piede. Oggi siamo abituati ai Game Stop, alle grandi catene, a quei luoghi puliti e meticolosamente ordinati, dove trovi esposte le promozioni, dove ti offrono Bloodborne per nove euro più tre giochi seminuovi e un rene. Qui, invece, tra i palazzoni e i tombini fumanti, ecco comparire un negozio d’altri tempi. Quei posti che, effettivamente, frequentavamo anche in Italia una decina di anni fa, prima che i franchise invadessero le nostre strade e se li mangiassero. Quei posti che, se gli porti un gioco usato, ti mollano il contante senza battere ciglio.
Se l’aspetto di Video Games New York è vintage, l’interno è la glorificazione dei tempi che furono: un luogo ristretto, buio, disordinato. La tana di un nerd, insomma, quel genere di luogo descritto dai Weezer nel brano In The Garage. Sugli scaffali decine, centinaia di giochi che non sentivo nominare dalla mia prima comunione. Giochi per NES, SNES, giochi per le console Sega, per console portatili dimenticate e dimenticabili. E non solo: giochi americani, europei, giapponesi, giochi rarissimi, accessori famosi e sconosciuti, giochi in buono e cattivo stato, con la scatola originale, in mint condition. Il nerd che è in me, varcando la soglia di questo negozio, ha avuto un orgasmo.
Passo un quarto d’ora ad aggirarmi nei trenta o quaranta metri quadrati di questo posto. Come ho detto, il negozio è poco più di un antro in cui due ciccioni finirebbero per incastrarsi se decidessero di passare assieme nello stesso corridoio. Alcuni giochi sono esposti in scaffali, in ordine apparentemente sparso ma divisi fra provenienza e console. Trovo i vecchi giochi giapponesi per NES, scorgo quel Doki Doki Panic da cui fu tratto Super Mario Bros 2. Individuo il vero Super Mario 2, che divenne Super Mario The Lost Levels in Europa e che fu incluso in Super Mario All-Stars, gioco che mi fu regalato a un Natale di tanti anni fa. Questa non è solo parte della mia vita, è la storia dei videogiochi signore e signori. Ed è qui, a cinque centimetri dal mio naso e con un prezzo appiccicato sopra.
In una vetrinetta scorgo alcune stranezze che non avrei mai pensato di trovare in vendita in un negozio. Ho visto edizioni rare, anzi rarissime di ogni genere di console, e una quantità di prodotti di cui non avevo nemmeno sentito parlare. Ho trovato una sorta di accessorio pensato per i diabetici e collegabile al Nintendo DS, un lettore DVD con slot per Game Boy Advance, una specie di console portatile capace di leggere le cartucce per SNES. E poi, ancora, dance mat di ogni tipo e per ogni piattaforma, controller dalle forme e dai colori strani. In fondo al corridoio, poco sotto tre Super Nintendo provenienti dalle tre diverse regioni dove furono prodotti, vedo una collezione quasi completa di Coleco Mini Arcade. I miei ricordi fanno un salto indietro di vent’anni: possedevo uno di quei piccoli cabinati, e mio padre lo eliminò senza dirmi nulla quando me ne andai di casa per studiare in un’altra città. Ancora ci soffro, penso di ricompramelo, guardo il prezzo, cambio idea. Perché sì, la varietà di Video Games New York si fa pagare, e i prezzi sono almeno un 30-40% più alti che sui più popolari siti di aste online. Ma il prezzo, in molti casi, è giustificato: in quale altro luogo del mondo potete entrare, chiedere un Bart vs. Space Mutants originale in versione europea e uscirne poco dopo con l’acquisto in una busta di plastica?
Finisco il mio pellegrinaggio tornando verso il bancone, con la bocca aperta, il torcicollo per avere guardato cosa si nascondesse nelle parti più alte degli scaffali e l’espressione di un bambino che è appena entrato a Disneyland per la prima volta. Scorgo una console capace di riprodurre tutte le cartucce dell’era 8 e 16 bit, e di farlo con l’emulazione delle scanline: ancora una volta il prezzo (e il poco spazio in valigia) mi bloccano. Mi fermo a chiacchierare con i commessi, un ragazzo bianco e uno di colore, marcato accento newyorkese. È evidente che se lavorano lì, lo fanno per passione: conoscono bene i loro prodotti, conoscono la storia dei videogiochi e seguono con interesse fiere, conferenze ed eventi in streaming. Compro un GameBoy Color, mi raccontano del perché sia region free e mi consigliano qualche gioco. Gli spiego che sto per andare a San Francisco, mi parlano delle loro aspettative sulla fiera, parliamo di Valve e della realtà virtuale. Gli spiego che sono un giornalista, e che li ho raggiunti dopo un viaggio di 4000 miglia.
“Dall’Italia? E come diavolo ci hai trovati?” esclamano.
“Ho digitato best video game show in the world su Google e siete usciti voi”.
I due si guardano soddisfatti, un sorriso reciproco, un saluto. Torno al clima rigido di New York con la sensazione di essere appena stato in un luogo meraviglioso.