Recensione

Oure, recensione di un'avventura onirica tra i cieli immacolati

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Arrivato in veste di instant release durante la conferenza Sony alla Paris Games Week, Oure ha ricordato sin dal filmato di lancio le atmosfere poetiche e rarefatte di titoli come Journey o Abzû. Spostandosi dalle sabbie del titolo di That Game Company e dalle acque e dell’opera di Giant Squid Studios, Oure ci porta nei cieli immacolati di un’ambientazione da sogno, dove siamo chiamati a risvegliare i relitti di un’antica civiltà, simboleggiata da immensi titani dominatori dell’aria.

Sogni di bimbo, realtà d’adulto

L’opera di Heavy Spectrum mira a offrire un’avventura unica, dove il senso di libertà e scoperta si fa portatore di messaggi e tematiche più profonde come la speranza, il distacco e la crescita, disegnando un “videogioco di formazione” che rappresenta in parte la vita di ognuno di noi.
Nel ruolo di una bambina (o bambino) sarete spinti a entrare da soli all’interno di un mondo silente, sospeso tra i nembi plumbei e ovattati di un cielo sconfinato e punteggiato qua e là da strane strutture. Una volta entrati in questo mondo, scoprirete la possibilità di tramutarvi in un dragone (diverso dalle rappresentazioni fantasy occidentali e più vicino a quelle cinesi), bestia che assorbe forza e resistenza proprio dalle nuvole. Mentre scoprirete l’origine di ciò che vi circonda, vi imbatterete in metafore che delineano spaccati di vita, momenti drammatici e temi che verranno compresi fino in fondo da chi ha la voglia di scavare a fondo nei messaggi più profondi che gli sviluppatori hanno lasciato nel mondo di gioco. Ma non aspettatevi niente che sia davvero in grado di lasciare il segno.
Come avrete capito, si tratta di un titolo molto contemplativo, dove gli elementi di gameplay sono ridotti all’osso, senza tuttavia presentare le esagerazioni minimaliste che potrebbero tener lontani chi da un gioco desidera comunque un minimo di sfida. Sfida che tra l’altro è piuttosto blanda ed è resa difficoltosa, nostro malgrado, da una telecamera bizzosa che si rivela particolarmente anarchica proprio nei momenti in cui invece dovrebbe essere solida e controllabile senza problemi. Stiamo parlando dei momenti clou, i migliori dell’intero gioco; quelli, in sostanza, dove dovrete “affrontare” i titani dei cieli: quando volando sottoforma di dragone dovrete vincere la forza del vento che vi spinge indietro, facendovi capitombolare e perdere contatto coi mini totem da disinnescare, la telecamera impazzisce, ruota senza preavviso e spesso vi sposta d’improvviso l’inquadratura che state tentando di sistemare per prepararvi alle violente folate. In alcuni momenti, tutto ciò diventa frustrante e potrebbe farvi perdere la pazienza, perché si tratta di fatto di una dinamica non dipendente dall’abilità del giocatore ma dalla negligenza degli sviluppatori.

Fly like a dragon

Gli scontri consistono nel disinnesco di alcuni strani meccanismi di luce mentre si vola da un punto all’altro, talvolta passando alla forma da bambino per poter raggiungere zone alle quali il drago non riesce sempre ad avvicinarsi. È un dualismo che funziona, che dà buoni frutti quando tenta di mescolare fasi action ad altre più da puzzle game, creando un connubio certamente riuscito, ma anche minato dall’eccessiva semplicità degli enigmi visivi che anche un infante riuscirebbe a risolvere senza batter ciglio.
Al di là di ciò, che come detto rappresenta il punto più alto dell’intera produzione, dovrete raccogliere settecentocinquanta globi luminosi blu mentre vi spostate tra le nuvole, lambendo delle monolitiche strutture nere in cui potrete finalmente spendere una piccola parte dei suddetti globi e tornare bambini, per attivare così il checkpoint che vi rimanda al torrione successivo da raggiungere. Raccogliere le oltre settecento sfere blu è un’operazione molto tediosa e tutto sommato insensata, poiché per terminare la storia ve ne bastano appena centocinquanta; non avrete dunque stimoli di alcun tipo e tutto ciò serve in definitiva a obbligarvi a diluire enormemente la durata di gioco, fino probabilmente a superare le 7-8 ore complessive. In realtà, se penserete al solo scopo principale e tirerete dritto senza farvi sedurre dalle sfide da “completisti”, potreste arrivare ai titoli di coda in circa tre ore in meno.
Sottoforma di drago potrete muovervi in lungo e in largo, accelerare e formare un cerchio che, come un sonar, vi mostra ciò che si trova a distanza per qualche secondo. Orientarsi non è affatto facile per via dell’uniformità cromatica dell’ambientazione – scarna e generica – che vi offre solo pochissimi punti di riferimento. Per recuperare la stamina perduta dovrete toccare le nuvole, ma trovando sfere di altro colore potrete sia aumentare questo parametro, sia aumentare la capacità di attrarre a voi i globi. Il gioco è davvero tutto qui e non avrete grandi motivi per esaltarvi o rimanere intrattenuti a lungo, perché gli sviluppatori non hanno fatto davvero nulla per darvi un vero motivo per portare a termine gli obiettivi secondari. Quando completerete Oure verrà sbloccato il new game plus e potrete ritornare nel mondo di gioco per raccogliere ciò che vi manca, sempre che abbiate la voglia di farlo.
Anche tecnicamente, Oure non fa gridare al miracolo: i colori sono impastati, le strutture sin troppo vaghe, anonime e modellate senza il benché minimo guizzo artistico; tutto sembra sin troppo povero e il confronto con gli altri giochi del genere è impari.

– Premessa interessante

– Titani concettualmente ben realizzati

– Telecamera problematica

– Noioso e in alcune fasi un po’ frustrante

– Design generico e confusionario

5.5

Nonostante un’interessante premessa che lasciava intravedere soluzioni narrative in grado collocare Oure tra i titoli “poetici”, la storia si perde nel nulla sin da subito, la noia prende il sopravvento e tutto ciò che vi rimane è un titolo che non riesce ad avere mordente, sprofondando ben presto nell’anonimato.

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5.5