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Recensione

Layers of Fear

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Avatar di Domenico Musicò

a cura di Domenico Musicò

Editor

Pubblicato il 15/02/2016 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

7.5

“La vita morale dell’uomo è uno dei soggetti che l’artista può trattare, ma la moralità dell’arte consiste nell’uso perfetto di uno strumento imperfetto“
Oscar Wilde – Il Ritratto di Dorian Grey
Dare credibilità a un genere inflazionato come l’horror sta diventando davvero complicato. Tra emuli senza vergogna, titoli che non offrono nulla di realmente nuovo, trame scontate e scarejump da quattro soldi, uscirne fuori indenni è un’impresa più grande di quanto si possa immaginare. Layers of Fear, sebbene abbracci con decisione alcune soluzioni moderne ormai abusate, riesce a distinguersi dalla massa grazie a una storia che parte da ottimi presupposti, fondendo le ossessioni di un dramma familiare dai contorni torbidi e malsani con le terribili suggestioni allucinatorie di un pittore con irrecuperabili problemi mentali. 
Il passato non dimentica
Le origini dei profondi disturbi dell’artista risiedono, in parte, nella volontà di creare quel capolavoro indiscusso che diventerebbe la testimonianza di un talento inarrivabile, ma trovano appiglio anche nei suoi tormenti personali, nelle paure profondamente radicate e negli orrori grotteschi creati dalle false percezioni. Ossessionato dal proprio talento e dal timore di fallire in questa impresa, il protagonista zoppica lungo il suo maniero ottocentesco, dove dipinti inquietanti, ricordi terribili e osceni strumenti del mestiere raccontano una storia ben peggiore di quanto si possa intuire dalle fasi iniziali. Costretto a una scarsa mobilità da un handicap acuito dalla scadente protesi al ginocchio, il pittore si muove un’ambientazione che muta costantemente davanti ai suoi occhi, generando nuove stanze, corridoi, saloni e porte che conducono in luoghi surreali e onirici, capaci di dimostrare quanto sia disperato il progressivo distacco dalla realtà dell’artista. Le visioni, i file di testo e gli elementi dello scenario scavano a fondo nel passato del protagonista, consegnando all’utente una storia che fino a tre quarti dell’opera riesce a mantenere alta la curiosità, finendo per essere un po’ sbrigativa e inespressa nel finale, dove viene messa in scena una “condanna” di cui già se ne intravedeva la forma. A dispetto di tutto ciò, è ottimo il modo in cui viene rappresentata la schizofrenia del pittore, con momenti psichedelici che difficilmente dimenticherete, al contrario di un paio di scarejump gratuiti e già visti altrove. L’atmosfera è davvero ottima e ricrea il fascino delle “ghost story” tipiche della letteratura a cavallo tra ‘800 e ‘900, strizzando l’occhio alle architetture e ai dipinti dell’epoca, e usando il concetto della stratificazione dei colori per riutilizzarlo in una tecnica narrativa a scaglioni che funziona molto bene, nonostante le piccole sbavature. Gli eventi del passato vanno insomma ricostruiti spulciando tra la mobilia e subendo ciò che ha in serbo per voi ogni nuova stanza, in un percorso che è tutto sommato molto lineare anche per quanto riguarda il level design.
Una mano di rosso
Nonostante il protagonista sia zoppo, e dunque più vulnerabile di un qualunque altro personaggio nel pieno delle sue forze, gli sviluppatori non sono stati in grado di sfruttare questa interessante caratteristica. Sebbene Layers of Fear sia un gioco atmosferico, che in un’escalation di lucidi deliri crea ansia e tensione tramite l’imprevedibilità delle situazioni che presenta al giocatore, va detto che nessun pericolo tangibile è in grado di uccidere il protagonista. A livello narrativo tutto ciò ha un significato logico e ben preciso, ma si tratta a conti fatti di un limite che annienta all’istante il senso di pericolo che ogni buon horror dovrebbe avere. Quando si ritrova faccia a faccia con l’orrore, sorpreso e senza vie di fuga, il pittore perde i sensi e rinviene in luoghi ignoti della casa come da copione, rendendo così vano ogni possibile tentativo di liberarsene d’istinto. A ciò è legato un altro problema più di rilievo, che noterete già dopo le prime battute: Layers of Fear è gestito da una mole impressionante di script. Quasi ogni corridoio o stanza ne contiene uno: che sia uno spavento improvviso, un’apparizione fantasmatica, oggetti che volano via d’improvviso o il crollo inaspettato della masserizia, saprete sempre che qualcosa – a intervalli grossomodo regolari – accadrà di certo. Ci sono senz’altro degli ottimi spaventi, ma quando comincerete a intuire gli schemi usati per metterli in atto, vi muoverete con meno circospezione e un pizzico di spavalderia in più. Rimanendo in tema di script, la parte finale è quella dove si nota maggiormente un po’ di sofferenza nell’avanzamento. Giusto per fare un esempio, in una zona specifica bisognerà trovare degli oggetti molto piccoli in un grande salone che muta continuamente la sua struttura, ma se non vi avvicinerete abbastanza al punto esatto previsto dal gioco non si attiverà la transizione successiva. Si tratta inoltre della parte più debole del titolo, che si comporta fin lì abbastanza bene, soprattutto grazie ad alcune sezioni da psicosi allucinatoria che spiccano maggiormente delle altre. 
Il compromesso dell’arte
Giocare a Layers of Fear significa inoltrarsi pericolosamente nella mente contorta e malata di un’artista deviato, dove tutto è deformato, precario, pazzesco; è un’ossessione vissuta a passo d’uomo, come in un vero e proprio “walking simulator”, e l’effetto che fa è quello di trovarsi prigionieri in una casa degli orrori da cui è davvero impossibile uscire. L’angosciosa ricerca del capolavoro perfetto si mescola ai sensi di colpa che emergono nei rari momenti in cui la pazzia si ritira per lasciare spazio agli ultimi residui di lucidità, ma non vi ci vorrà molto a capire verso quale direzione il protagonista si sta davvero dirigendo. I rari puzzle che troverete lungo il cammino sono tutti piuttosto semplici e intuitivi, e si limitano nella maggior parte dei casi al reperimento di tre numeri da inserire nel tastierino numerico di turno.
Artisticamente Layers of Fear è molto bello, con un’ambientazione solenne – il maniero – che pare respirare affannosamente e scricchiolare sotto l’insostenibile peso della nequizia umana. Si espande, si contorce, si ribella al dramma consumato tra le sue mura, vive e soffre come un personaggio reale. I suoi interni sono arricchiti da dipinti inquietanti: un adulto in una posa fiera col viso inadeguato di un bambino, un primo piano di un uomo con la bocca slabbrata e il sorriso enorme, le rivisitazioni oscure di celebri capolavori. Lo stile e gli intenti sono dunque molto chiari, diretti e senza tentennamenti. Tecnicamente, invece, su console si nota un frame rate più instabile rispetto alla controparte PC, che si comportava meglio già in fase di accesso anticipato. Niente di troppo grave, sia chiaro, ma ci sono dei rari momenti in cui si scende attorno ai 20-15 FPS, con rallentamenti che divengono più evidenti quando si prova a ruotare di scatto la telecamera. Trattandosi comunque di un titolo al chiuso, dove la conduzione di gioco è sempre molto controllata, siamo di fronte a un problema tutto sommato marginale, che non mina la godibilità del gioco.

– Ottima idea di base

– Originale interpretazione della follia

– Buon lavoro a livello artistico

– Eccessivamente scriptato

– Molto lineare

– Alcune scelte di design vanno a discapito del gameplay

7.5

Quella di Bloober team è in definitiva un’opera di buon valore, unica nel suo genere. Nonostante al suo interno incorpori diversi elementi abusati dagli horror moderni, riesce a offrire una nuova e malata interpretazione della pazzia, ponendo al centro della vicenda le visioni più estreme dell’arte e il dramma personale e familiare di un pittore alla deriva.

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