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Recensione

Hyper Light Drifter

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Avatar di Gianluca Arena

a cura di Gianluca Arena

Editor

Pubblicato il 13/04/2016 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

8.5

L’equazione “Kickstarter più sviluppatori indie di talento uguale titoli di un certo spessore” ha già dato i suo frutti in numerose circostanze, aldilà di qualche scivolone e di raccolte fondi gestite in maniera poco cristallina.
Dovendo rendere conto solo ai finanziatori, e comunque in modi assai differenti da quanto non si faccia con un publisher, piccoli team (come gli americani di Heart Machine) hanno guadagnato le luci della ribalta con titoli brillanti, differenti dalla massa, che non avevano paura di osare.
Be’, Hyper Light Drifter rientra di diritto in questa categoria, e, dopo un’attesa mediamente lunga, è finalmente giunto su PC, con l’edizione console che seguirà a ruota, si spera entro l’anno.
Se non vi spaventa non essere presi per mano da un gioco e non ne avete ancora abbastanza del revival della pixel art, potreste aver trovato il gioco per voi.
Il male dentro
Hyper Light Drifter è silenzi intervallati da musiche celestiali, tra il chiptune e la discografia di Vangelis.
Hyper Light Drifter è un titolo in cui non viene pronunciato verbo e in cui non ci sono scritte, ma solo fumetti, versi gutturali, indicazioni vaghe.
Un po’ come nei Souls di Miyazaki, la narrativa è minimale, celata dietro il gameplay, timida ma anche molto affascinante, come un splendida diciottenne al ballo delle debuttanti: mettete in conto di non capire assolutamente nulla almeno per la prima oretta di gioco. Il personaggio controllato dal giocatore, in compenso, riesce a trasmettere empatia anche senza comunicare in maniera diretta: è forte, veloce e malato.
Per tutta la durata del gioco, le fasi di esplorazione saranno interrotte da violenti accessi di tosse, durante i quali il nostro eroe perderà sangue fino a svenire, solo per essere raccolto da uno degli NPC, che si prodiga ad aiutarlo durante tutta la sua missione ma non è esente, egli stesso, dalla malattia.
Ma non è solo il protagonista ad essere messo male, lo è tutto il mondo in cui si muove, nonostante la sua bellezza possa sembrare imperitura: in ognuno dei quattro angoli della mappa ci si imbatte in colossi inermi, reclamati dalla natura, rovine popolate di mostri e pozze d’acqua da cui affiorano cadaveri. I perché ed i come della vicenda si sveleranno lentamente, peraltro non del tutto, e che il cielo ci fulmini se vi sveleremo anche solo un altro particolare della trama che sottende al prodotto.
Per ora, vi basti sapere solo che Hyper Light Drifter richiama diversi titoli usciti nel corso dell’ultimo lustro, da Titan Souls ai già citati Souls di From Software, passando per gli episodi isometrici di Zelda, Diablo, Bastion, Transistor, finanche il recentissimo Moon Hunters, senza per questo perdere nulla della propria identità.
Ogni anfratto sembra avere una piccola storia da raccontare, dei murales, un cadavere cui sottrarre un’arma, un accampamento con dell’equipaggiamento lasciato alle intemperie: coloro i quali vorranno cercare, osservare, scoprire, impiegheranno molto più della decina scarsa di ore necessarie ad arrivare in fondo.
Il mondo creato da Alex Preston e compagnia merita tutto il tempo che potrete dedicargli: il fatto che la malattia del protagonista sia una diretta emanazione di quella del lead designer del titolo, che ha più volte dichiarato di ispirarsi al mondo visto in Nausicaa della Valle del Vento dello Studio Ghibli, rappresenta solo una ulteriore ragione per investire i venti euro scarsi richiesti.
Spada e riflessi
Pad alla mano (sì, anche su PC è vivamente consigliato affidarsi ad un buon pad, come quello di Xbox 360), siamo dinanzi ad un’avventura mista ad un action rpg, dove l’esplorazione e i combattimenti la fanno da padrone: Hyper Light Drifter reclama precisione certosina, colpo d’occhio e, più di tutto, iperattività cinetica.
Il modo più semplice di farsi ammazzare dai mob sparsi per le location è rimanere fermi, o pensare che una buona dose di button mashing sia sufficiente ad avere la meglio: l’ossatura del gameplay è basilare, eppure il combat system che ne scaturisce è a prova di bomba, impegnativo, soddisfacente, perfettamente bilanciato. I due tasti su cui poggia sono quello d’attacco e quello che consente di scattare per un breve periodo, ma la loro combinazione può dar vita a balletti letali.
Padroneggiare completamente le animazioni, i tempi di reazione, il secondo di vulnerabilità che scaturisce dal curarsi nel bel mezzo delle battaglie, risulta fondamentale per potersi destreggiare tra folle di nemici, che sopperiscono alla poca varietà nella tipologia (una delle poche falle del prodotto) con un numero spesso soverchiante e un’aggressività da far invidia a Miyazaki-san.
Se non si vogliono incassare colpi gratuiti, in virtù anche della limitata scorta di oggetti curativi che è possibile portare con sé, conviene memorizzare i pattern di attacco anche dei nemici comuni, il cui unico scopo, anche a costo della vita, sembra essere quello di far sanguinare il nostro eroe silente. Non c’è molto altro da fare, nel prodotto di Heart Machine, al di fuori del combattere e dell’esplorare i resti di un mondo ammorbato, ma, come tutti i prodotti che meritano di essere acquistati (e ricordati), quello che Hyper Light Drifter fa, lo fa benissimo: combattere è un piacere, e sebbene ci sarebbe piaciuto vedere il sistema di crescita del personaggio legato all’esperienza piuttosto che al ritrovamento di oggetti, abbiamo vissuto in prima persona alcuni dei combattimenti più densi e tirati del recente passato.
Gli scontri con i boss, poi, sono una danza di morte, un minuetto di pretattica al suono di una colonna sonora che sembra alzarsi dal suo scranno e incitarci al combattimento: i pattern sono vari e letali, la difficoltà sempre molto sostenuta, e la frustrazione, soprattutto per i più giovani, un rischio concreto.
Ma, ad ogni morte, la creatura di Alex Preston insegna qualcosa ai giocatori, un frame di vulnerabilità del colosso da fronteggiare, un angolo da cui si ha una visuale privilegiata, una zona morta in cui gli attacchi nemici colpiscono meno duro: e allora si tenta e si ritenta, finché non si abbatte il nemico con immensa soddisfazione. A furia di colpire nemici, poi, si riempie il caricatore di una delle armi da fuoco presenti nel gioco, utili soprattutto come diversivo e per colpire dalla distanza bersagli molto temibili nel corpo a corpo: il cuore del sistema di combattimento, comunque, è rappresentato dagli scontri all’arma bianca.
A sottrarre la perfezione ad un prodotto di tale bellezza c’è solo un elemento, la cui cripticità detrae dall’esperienza di gioco anziché aggiungervi qualcosa: la mappa. Del tutto accessoria a causa della scarsa chiarezza, essa non segnala la presenza di porte né quella di interruttori fondamentali per l’avanzamento, limitandosi ad evidenziare, in maniera peraltro assai approssimativa, la posizione del boss dell’area e quella dei dungeon che portano alle quattro chiavi necessarie per affrontarlo.
Non c’era bisogno di un tale artificio per allungare il brodo e far girare in tondo il giocatore: chiunque ami i giochi sviluppati con competenza e passione non esiterà a perdersi nel mondo di Hyper Light Drifter, dilatando l’esperienza di gioco per gustarselo come si farebbe con l’ultimo boccone di una pietanza particolarmente gustosa.
Arte e pixel
Sebbene la pixel art potrebbe, agli occhi di molti, essersi diffusa come un virus tra la gran parte delle produzioni indipendenti, a noi (sarà l’età…) continua a non dispiacere: quella di cui fa uso Hyper Light Drifter è particolarmente vivace, con una tavolozza cromatica ricchissima, che spazia dai bianchi abbacinanti (provate a giocarlo al buio e capirete) ai rossi purpurei del sangue sputato dal nostro silenzioso eroe, senza mai dar tregua all’occhio del giocatore.
Poi, come spesso succede, sono le animazioni e la credibilità delle movenze a fare la differenza in questo ambito: i personaggi che popolano il mondo morente creato da Heart Machine si muovono esattamente come ci si immagina farebbero.
Se esistessero davvero, beninteso.
Rane ninja balzano qua e là per lo schermo, lupi verdi caricano a testa bassa e tentano di atterrare il nostro alter ego, mentre i boss sembrano non risentire delle titaniche proporzioni in quanto a destrezza e capacità di movimento.
Quando, dopo quaranta minuti di andirivieni su e giù lungo un dungeon, si sfocia in una radura, imbattendosi in uno scorcio di un tramonto lontano, intriso di colori irreali ma nondimeno assai vividi, si rimane senza fiato. Se fosse servita una ulteriore testimonianza di quanto una direzione artistica ispirata conti più delle mirabilie tecniche di un motore grafico (magari capace di muovere milioni di poligoni al secondo), Hyper Light Drifter rappresenta di certo quella testimonianza.
Concorre all’impareggiabile atmosfera anche la già citata colonna sonora, firmata da Richard Vreeland, (AKA Disasterpeace) talentuoso compositore statunitense che aveva già deliziato il pubblico ai tempi di Fez e Bit Trip Runner 2: il bello del suo lavoro, in questo specifico caso, sta nel fatto che i lunghi silenzi che si alternano alle tracce chiptune sono altrettanto significativi.
La durata complessiva varia dalle otto alle dieci – undici ore per la prima run, ma la presenza di una modalità New Game Plus e la qualità del titolo molto probabilmente vi porteranno a riprenderlo in mano quanto prima, anche solo per togliervi gli inevitabili dubbi che l’arco narrativo porta con sé.

– Combat system preciso, tanto semplice quanto profondo

– Livello di difficoltà sempre sostenuto…

– Esteticamente incantevole

– Ermetico e magico nello stesso tempo

– Gran colonna sonora

– La mappa è puramente accessoria

– …a volte ai limiti della frustrazione

8.5

Hyper Light Drifter è ipercinetico, perché i giocatori lenti e statici sono i bersagli più semplici.

Hyper Light Drifter è esigente, perché richiede tempismo, determinazione, studio dei pattern di attacco dei mob, anche quelli comuni.

Hyper Light Drifter è oscuro, a tratti imperscrutabile, e se questo ne rende la narrativa ancora più affascinante, questa sua natura mal si sposa con la mappa, confusionaria e poco intuitiva: non contate su di essa per arrivare in fondo all’avventura.

Insomma, se non vi spaventa essere abbandonati in un mondo privo di indicazioni, di dialoghi, di indizi utili su come proseguire, ma, nel contempo, evocativo, misterioso ed affascinante, potreste aver trovato il vostro goty dell’anno.

In ogni caso, a prescindere dai gusti personali, l’opera nata dal genio di Alex Preston rappresenta uno degli indie più belli delle recente storia videoludica.

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