C’è qualcosa di quasi profetico nel modo in cui Hideo Kojima continua, da decenni, a interrogarsi sulla condizione umana attraverso il videogioco. Nulla in lui è mai stato soltanto intrattenimento: ogni progetto, ogni dichiarazione, ogni scelta creativa è una riflessione sul nostro tempo.
Quando nel 2019 arrivò Death Stranding, il mondo non era ancora pronto per comprendere fino in fondo la sua idea di connessione. Poi venne la pandemia, e quelle corde invisibili che univano le persone attraverso gli schermi divennero improvvisamente il nostro unico modo di sopravvivere.
Ora, per la prima volta, Kojima è tornato a parlarne a Lucca Comics & Games 2025 nel corso di un'esclusiva intervista corale, accompagnato dal suo storico collaboratore Yoji Shinkawa e con la moderazione di Eva Carducci. Non una semplice apparizione promozionale, ma un incontro che ha lasciato il segno. Il creatore di Metal Gear Solid ha aperto un nuovo capitolo del suo pensiero, svelando riflessioni profonde su arte, tecnologia e responsabilità, mentre Shinkawa ha raccontato retroscena inediti sul loro metodo di lavoro, tra suggestioni poetiche e casualità geniali.
«Dovevamo connetterci?»
La prima domanda è stata la mia ovviamente a nome di SpazioGames, ossia cosa significa davvero “connettersi” in un’opera - Death Stranding 2 - che sembra costruita sulla distanza. Già dal sottotitolo del sequel, "Should We Have Connected?", ossia "Avremmo dovuto connetterci?", era chiaro che qualcosa stava cambiando. Kojima ha spiegato che non si tratta di una semplice trovata di marketing, ma di una vera e propria domanda filosofica: «Nel primo capitolo, il mondo era distrutto e l’obiettivo era riconnetterlo. Oggi invece mi chiedo: cosa comporta quella connessione? Qual è il prezzo della rete che abbiamo costruito?»
L’autore si è soffermato sul contrasto tra le promesse utopiche di Internet e la realtà distorta dei social media. «Negli anni Duemila la rete sembrava il simbolo della libertà. Oggi, con i social, è diventata un luogo dove chiunque può dire qualsiasi cosa, spesso in modo anonimo. La connessione è importante, ma comporta una responsabilità».
Kojima non parla da moralista, ma da osservatore. Sa che i suoi giochi sono metafore di un presente che spesso preferiamo ignorare. Nel primo Death Stranding aveva inserito una missione minore, quasi invisibile, ma estremamente significativa: un anziano a cui Sam può consegnare delle medicine. «Molti giocatori andavano avanti con la storia e se ne dimenticavano», racconta. «Quando tornavano, l’anziano era morto. Ecco, quello è il senso della connessione: non basta allacciare un legame, bisogna anche prendersene cura».
È questo il cuore del discorso di Kojima: la connessione non è un gesto neutro, ma un atto morale. Ogni legame implica una responsabilità, e dimenticarlo può essere letale, per i personaggi virtuali come per le persone reali. «Quando ci connettiamo con qualcuno, che sia online o nel mondo fisico, dobbiamo ricordarci che ogni relazione richiede attenzione. Non basta un clic per essere umani».
Il mondo dopo la pandemia
Durante il suo intervento a Lucca, Kojima ha ricordato come la pandemia abbia mutato per sempre il nostro modo di intendere la socialità. «Siamo sopravvissuti grazie a Internet. Tutto era online: incontri, concerti, persino compleanni. Ma mi sono chiesto: siamo sulla strada giusta?». È una domanda che risuona ancora oggi, in un’epoca in cui la tecnologia promette nuove connessioni ma rischia di cancellare la nostra libertà.
«Gli animali si sono evoluti viaggiando», riflette Kojima. «Tutti sono partiti dall’oceano. Anche l’umanità si muove, e oggi viaggia nel metaverso. Ma è un luogo pericoloso, dove si può essere osservati, manipolati, controllati».
In queste parole si intravede la vera natura di Death Stranding 2: un’opera che non si limita a immaginare il futuro, ma che lo mette sotto accusa. Kojima non teme la tecnologia, ma ne analizza le contraddizioni. La connessione, che nel primo capitolo era una speranza, diventa ora una minaccia. «Essere connessi non è solo un diritto», afferma, «è una responsabilità, perché ogni connessione può trasformarsi in controllo».
È un tema che dialoga apertamente con il nostro presente, fatto di algoritmi, profili digitali e bolle informative. In fondo, Kojima è sempre stato un autore politico, anche quando il suo linguaggio era travestito da stealth o da sci-fi. In Metal Gear Solid rifletteva sulla manipolazione dei media e sulla guerra come spettacolo; in Death Stranding ha esplorato la solitudine e la fragilità dei legami umani. Oggi, con il sequel, affronta il nodo più attuale di tutti: la libertà nell’epoca della sorveglianza globale.
Un sequel più accessibile, ma sempre profondamente suo
Kojima ammette che il primo Death Stranding non era per tutti. «Aveva pro e contro. Molti giocatori non sono riusciti a finirlo perché lo trovavano troppo difficile o troppo lento», confessa. Per questo, nel progettare Death Stranding 2, ha voluto conservare le parti migliori dell’originale ma rendere l’esperienza più accessibile. «Volevo permettere a più persone di arrivare alla fine, di apprezzare fino in fondo il viaggio di Sam. Ho cercato di rispettare i fan, ma anche di aprire la porta a nuovi giocatori».
Non si tratta, però, di un compromesso al ribasso. Chi conosce Kojima sa che per lui “accessibile” non significa “banale”. È piuttosto un invito a condividere la sua visione, a renderla più universale. Come sempre, ogni dettaglio è pensato per stimolare la riflessione, più che per semplificare l’esperienza. «Death Stranding 2 non è un gioco più facile», suggerisce tra le righe, «ma un gioco che vuole essere compreso da più persone».
Fragile, la vera protagonista
Tra le rivelazioni più inattese di Lucca c’è quella sul personaggio preferito di Kojima. «Il mio preferito non è Sam», svela sorridendo. «Lui è il protagonista, ma la vera protagonista nascosta è Fragile». Interpretata da Léa Seydoux, Fragile è per Kojima il simbolo di ciò che resta di umano in un mondo frammentato. «Léa è straordinaria nel darle vita. Le ho persino chiesto a Ludvig Forssell di comporre un tema musicale solo per lei, che si sente ogni volta che appare in scena».
Ancora una volta, la musica gioca un ruolo centrale nella sua poetica. Kojima dirige le cutscene come se fossero sequenze cinematografiche, intrecciando immagini e suoni con una precisione quasi maniacale. «La musica è il cuore emotivo del gioco», dice. «Non è solo accompagnamento, ma un linguaggio narrativo».
Non è un caso che molti dei brani di Death Stranding siano diventati iconici, dalle tracce dei Low Roar alle composizioni originali di Forssell. E non è un caso che i suoi giochi abbiano un ritmo diverso da qualsiasi altro titolo contemporaneo. Ogni camminata, ogni respiro, ogni paesaggio è pensato per far sentire il peso dell’esistenza. Fragile incarna tutto questo: la vulnerabilità, la resistenza, la necessità di andare avanti nonostante tutto.
Il metodo Shinkawa e l’arte del caso
Ad arricchire l’incontro lucchese è stato Yoji Shinkawa, il fedele character designer che lavora con Kojima dai tempi di Metal Gear Solid. «Quando creo un personaggio», racconta, «il primo passo è sempre una parola di Hideo. Mi manda suggestioni, termini strani, a volte persino astratti. Quelle parole mi danno una direzione».
Un esempio emblematico è quello del Magellan Man, una creatura di Death Stranding 2. «Avevo disegnato una nave, la Magellan, e ci siamo accorti che sembrava una testa. In parallelo stavamo lavorando su un BT senza testa. Hideo ha detto: “Perché non li uniamo?”. È nato così, per caso».
È in questi momenti che si coglie la natura del “metodo Kojima”: un equilibrio tra controllo totale e apertura all’imprevisto. Ogni dettaglio, anche il più fortuito, può trasformarsi in un’idea centrale. È un modo di lavorare che unisce il rigore del cinema d’autore all’anarchia del sogno.
Verso l’ignoto
Kojima non si ferma mai. Mentre Death Stranding 2 ha raccolto l’eredità del primo, l’autore guarda già oltre. C’è il misterioso progetto OD, realizzato in collaborazione con il regista Jordan Peele («Noi», «Nope», «Get Out»), un esperimento horror che promette di ridefinire ancora una volta i confini del medium. E poi c'è Physint, definito il "nuovo Metal Gear."
Ma, in fondo, non è tanto il “cosa” che conta, quanto il “come”. Kojima continua a inseguire la stessa domanda che lo accompagna da trent’anni: che cosa significa essere umani in un mondo dominato dalle macchine, dalle reti, dalle finzioni? Ogni suo gioco è una risposta provvisoria, un tassello di una riflessione infinita.
Alla fine dell’incontro a porte chiuse di Lucca, Hideo Kojima lascia una sensazione difficile da definire. Da un lato, la certezza di trovarsi davanti a un artista che non smetterà mai di innovare. Dall’altro, un’inquietudine sottile: quella di essere già immersi nel futuro che lui descrive, fatto di connessioni che uniscono e distruggono al tempo stesso.
«Essere connessi è importante», ha ripetuto, «ma è anche una responsabilità». È questa, forse, la più grande lezione che Kojima continua a impartire: che ogni filo che ci lega agli altri, sia esso digitale o umano, richiede cura, empatia e consapevolezza. Perché connettersi non basta. Bisogna restare.