Final Fantasy VII Rebirth racconta la crescita dei legami tra i protagonisti in modo meraviglioso

FFVII Rebirth riesce a proporre un viaggio epico, al livello dei titoli del passato, soprattutto grazie alla forza dei suoi personaggi e dei loro legami.

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a cura di Silvio Mazzitelli

Redattore

Il nuovo Final Fantasy VII Rebirth fa davvero molto bene tante cose. Ne fa anche altre meno bene, soprattutto legate all’ambito narrativo, ma per conoscere ogni aspetto del nuovo grande JRPG di Square Enix c’è già l’esaustiva recensione scritta da Domenico.

Inoltre, è ancora troppo presto per approfondire gli eventi della trama nello specifico, specialmente in un gioco che richiede almeno un centinaio di ore per essere esplorato in tutta la sua ricchezza. È giusto dare il tempo a tutti di arrivare ai fatidici titoli di coda.

Una delle cose di cui però mi preme discutere e in cui Rebirth eccelle davvero è l’evocativa ricostruzione del mondo di Gaia, mondo che abbiamo tutti iniziato ad amare 27 anni fa. Ciò che mi ha più stupito, e che non mi ha mai stancato nelle oltre cento ore di gioco che ho dedicato al titolo, non sono state soltanto l’incredibile art direction e la gran quantità di attività secondarie presenti (tutte molto varie, tra l’altro), ma come questo gioco sia stato in grado di rappresentare in chiave moderna il tema del viaggio, tipico dei JRPG degli anni ’90 - e, soprattutto, come sia riuscito a sfruttare ogni tappa di questo lungo percorso per mostrare la crescita dei legami tra i personaggi; ciò non limitandosi soltanto a mettere in scena i momenti più importanti e seri, ma riuscendo a rappresentare con grande naturalezza anche quelli più semplici e leggeri.

L’essenza del viaggio

Ogni grande gioco di ruolo parte da un viaggio, solitamente per salvare il mondo da qualche infausta minaccia.

Nell’epoca d’oro dei JRPG il tema del viaggio era un pilastro che muoveva qualsiasi grande storia, a iniziare dal capostipite dei giochi di ruolo nipponici moderni, ossia Dragon Quest, per poi a passare a tutte le grandi serie dell’epoca, compreso ovviamente anche Final Fantasy.

La formula di Final Fantasy VII Rebirth è la migliore nel riuscire a unire le vecchie World Map con il moderno open world.
Una caratteristica ritenuta fondamentale per rappresentare il viaggio in questi giochi era la World Map, ossia una versione stilizzata del mondo di gioco, dove venivano rappresentate in scala le varie location del mondo: città, foreste, grotte e ogni altro tipo possibile di location.

Il giocatore, anche se per gran parte del tempo doveva seguire un percorso guidato che lo portava da una tappa all’altra, sentiva comunque la libertà di trovarsi in un mondo fantasy vero e compiuto, in cui ogni regione visitata aveva la sua peculiarità; inoltre, a un certo punto, il mondo si apriva completamente, specie quando si otteneva l’immancabile aeronave o un altro mezzo in grado di volare, e in quel momento ci si sentiva davvero liberi di viaggiare ovunque e scoprire i tipici segreti che ogni buon JRPG nascondeva.

Questa caratteristica, insieme al tema del viaggio, venne sfruttata in ogni maniera possibile, spesso anche in modo originale.

In alcuni capitoli di Star Ocean e dei Tales of, ad esempio, era possibile viaggiare per diversi pianeti e in Chrono Trigger si poteva persino viaggiare nel tempo, senza contare titoli come Final Fantasy VI, che a un certo punto vedevano uno sconvolgimento totale della stessa World Map.

Eppure, quando finì l’epoca d’oro dei JRPG, si iniziò a limitare sempre più la libertà dei giocatori, finendo per eliminare la tanto amata mappa del mondo. Già in Final Fantasy X, ad esempio, questa non esisteva più: il nono capitolo fu l’ultimo ad averla.

Con l’aumentare dei costi e dei tempi di sviluppo dei videogiochi, si optò per soluzioni più semplici e pratiche per rappresentare il viaggio, fino ad arrivare alla negazione dell’esplorazione con Final Fantasy XIII, che, da questo punto di vista, rappresentò il punto più basso della saga, visto che il suo mondo era praticamente un unico grosso corridoio.

Nemmeno il tentativo di trasformare il mondo di gioco in un open world funzionò bene, nei vari JRPG in cui questo fu implementato. In teoria, l’open world potrebbe essere considerato la naturale evoluzione della World Map, ma in molti casi non fu così.

Un esempio concreto, per restare in tema Square Enix, è Final Fantasy XV, che proponeva un mondo aperto vuoto, con una sola città molto mediocre e tante attività secondarie noiose e dimenticabili.

Anche gli open world meglio riusciti non sono mai stati in grado di restituire quel senso di meraviglia e fascino che si provava nell’esplorare un dei mondi fantastici dei grandi JRPG degli anni ’90, almeno fino a oggi.

La formula utilizzata da Final Fantasy VII Rebirth (finalmente è su Amazon) reputo sia la migliore per riuscire a unire in un’unica soluzione le vecchie World Map con il moderno open world: sono state create diverse aree, che rappresentano le regioni da attraversare per andare da una location all’altra, ma senza che queste siano dispersive e, soprattutto, riuscendo a dare un’identità unica a ogni zona.

Le terre di Junon, che raccontano della disfatta della vecchia Repubblica, con i relitti delle navi abbandonati sulla costa, e Cosmo Canyon, con le sue distese brulle e la possibilità di librarsi da un pendio roccioso all’altro con i Chocobo, sono regioni completamente diverse tra loro, sia da esplorare che da vivere. Persino il deserto di Corel ha caratteristiche ben distinte rispetto a quello di Cosmo Canyon.

Il bello di Final Fantasy VII Rebirth è che ogni area ha una sua storia e una sua personalità, che viene espressa al meglio da tanti fattori, cominciando dalla splendida rappresentazione visiva, dove ogni luogo è pieno di particolari e zone uniche e caratteristiche, per poi passare ad attività esclusive - come l’esplorazione con i Chocobo, che è sempre diversa in ognuna delle sei regioni, fino ai vari personaggi che incontreremo nel viaggio, in grado di dare ulteriori informazioni sul background narrativo di ogni luogo, specialmente nelle side-quest.

Ci sono poi, finalmente, delle città degne di questo nome, tra l’altro perfettamente integrate in ogni regione e non inserite in queste come fossero luoghi a parte.

La tappa nei vari centri urbani è uno dei punti più importanti durante i viaggi dei JRPG: spesso questa avviene dopo battaglie estenuanti o lunghi passaggi in dungeon, e le città in cui ci si ferma non devono essere viste solo come luoghi di riposo e per fare rifornimenti. Ognuna di loro deve dare l’idea di essere in un luogo speciale, che ha una sua storia e delle caratteristiche che la rendono unica, un po’ come quando si viaggia in una grande città straniera durante una vacanza.

La visita a una città, in un JRPG che si rispetti, deve lasciare qualcosa al giocatore: un momento speciale che permette al gruppo di personaggi di legare maggiormente, l’incontro con qualche personalità importante in grado di ampliare ulteriormente la trama, l’introduzione di nuovi elementi di gioco e via dicendo. In Rebirth, vi è tutto questo e ogni cittadina brulica di vita e ha le sue particolarità che la rendono speciale.

Nell’esplorazione e nella rappresentazione dei luoghi abitati, Final Fantasy VII Rebirth è tre spanne sopra al recente Final Fantasy XVI (ecco la recensione), che peccava tantissimo da questo punto di vista, lasciando le città principali solo a fasi di gameplay scriptate e lineari, senza nessuna possibilità di esplorazione: i centri abitati erano dei minuscoli villaggi senza nome che mancavano di vera personalità.

Per fare un paragone azzardato, è come se io in un gioco vedessi Roma da lontano, ma poi l’unico posto davvero esplorabile fosse il paesello da mille abitanti fuori dalla grande città. Una scelta incomprensibile.

La speranza è che Square Enix impari da questo riuscitissimo risultato e implementi in futuro una struttura simile per i prossimi capitoli dei suoi giochi di ruolo, dato che la vista delle città, in Rebirth, è riuscita a darmi le stesse sensazioni di meraviglia e scoperta dei gloriosi titoli realizzati dalla compagnia negli anni ’90, quando era ancora Squaresoft.

Un gruppo di adorabili sbandati

Abbiamo parlato finora del fatto che Final Fantasy VII Rebirth sia stato in grado di trattare in maniera eccelsa il tema del viaggio, ma questo è in verità solo un contorno che serve a dare spazio alla crescita e al consolidamento dei rapporti tra Cloud e i suoi compagni, comprese le diverse new entry che si uniranno al gruppo in questo secondo capitolo. Ed è qui che secondo me il gioco brilla maggiormente.

L’intero progetto di ricostruzione dell’originale Final Fantasy VII ha dalla sua un’arma a doppio taglio, ossia il fatto che con la suddivisione in tre diversi capitoli il tempo per narrare le vicende è molto più esteso.

Tralasciando per ora le parti che si distaccano totalmente dalla storia dell’originale, in gran parte di Rebirth si centra perfettamente il punto, utilizzando il tempo extra per approfondire maggiormente le dinamiche che intercorrono tra i protagonisti principali.

Le interazioni tra Cloud e i suoi compagni sono tra i momenti più belli del gioco, per un fan che è cresciuto amando questi personaggi, perché riescono a esprimere il carattere di ognuno dei comprimari in maniera perfetta, sfruttando ogni occasione buona per approfondirli sempre più.

Il gioco fa un lavoro incredibile nel rappresentare la creazione e l'evoluzione dei legami tra i personaggi.
Non parlo solamente dei momenti più importanti della storia, certamente molto significativi, ma, anzi, i momenti che ho amato maggiormente sono quelli più semplici, quando spesso non succedeva nulla di importante.

Vedere Yuffie canticchiare perché si annoia in un momento in cui non ha nulla da fare, Red XIII nascondersi da dei bambini che vogliono accarezzarlo o Barret vantarsi del suo vestito da marinaio con i commenti divertiti di Tifa e Aerith sono tutti momenti che nel loro piccolo riescono a esprimere al meglio il legame che si crea tra i vari personaggi.

Cloud ha poi un costante dialogo con ogni membro del party, spesso in punti prefissati dell’avventura: si passa da momenti in cui discute degli eventi più importanti della storia ad altri in cui semplicemente si chiacchiera di come vanno le cose, perché anche questi ultimi sono importantissimi nella costruzione dei legami.

Le scene topiche, quelle in cui i protagonisti affrontano le prove più dure del loro viaggio, hanno un impatto ancora maggiore proprio perché esistono questi momenti all’apparenza più leggeri, che risultano però fondamentali nel restituire l’affiatamento di Cloud e compagni in maniera naturale e non forzata.

Ci sono poi anche le quest secondarie che, nonostante non sempre abbiano una struttura ludica eccellente, risultano comunque tra le migliori mai create da Square Enix nei suoi RPG.

Ogni quest secondaria ha però il vantaggio di coinvolgere attivamente un membro del party, che la affronterà insieme a Cloud, e vale la pena di giocarle tutte soprattutto per conoscere ancor di più i personaggi coinvolti.

Ho riso tantissimo, ad esempio, quando Barret si è trovato a parlare del suo ruolo di genitore di Marlene con Cloud, oppure avrei voluto abbracciare il biondo protagonista per la sua spiccata incapacità a relazionarsi con il prossimo, ben evidente durante alcune quest insieme ad Aerith e Tifa, che fanno davvero tenerezza, conoscendo il background di Cloud.

Un elemento che contribuisce a rendere ancor più evidente quanto gli sviluppatori siano stati attenti a dare ai giocatori la percezione di essere sempre in gruppo negli spostamenti è il semplice fatto che in ogni momento vediamo tutti i personaggi sullo schermo. Ogni membro del nostro party sarà sempre visibile quando si attraversa una regione o una città e persino quando si combatte.

Chiaramente, solo i tre personaggi che affrontano la battaglia infliggono e subiscono danni dai nemici, ma ho apprezzato moltissimo il fatto che possiamo vedere nelle vicinanze un Barret che spara ai nemici, anche se non fa nessun danno, perché ci fa sentire che è lì e non è sparito magicamente, come succede invece in tutti gli altri JRPG.

Questo si riflette anche nelle scene di dialogo: anche nel Final Fantasy VII originale, a commentare gli eventi erano solamente i membri attivi del party, mentre ora tutti parlano, quando sono presenti.

Quando poi in alcune occasioni il gruppo si divide, è comunque possibile rintracciare ognuno dei personaggi, che è magari intento a passare il suo tempo libero come più preferisce, senza contare i tanti momenti in cui non controlleremo Cloud, ma ci verrà data la possibilità di guidare gli altri protagonisti, così da conoscerli ancora meglio e vedere come si rapportano con gli altri compagni.

Questo aspetto è reso ancora più importante da alcuni dialoghi in cui le parole di uno dei protagonisti rendono evidente come anche nei momenti non “catturati dalla telecamera” i personaggi interagiscano tra loro.

In un’occasione, ad esempio, Yuffie, parlando con Cloud, ci fa capire che Tifa le ha raccontato del loro passato a Nibelheim e di come i due si conoscano sin dall’infanzia; questo permette ai giocatori di sapere che Yuffie è stata informata anche degli eventi del flashback, pur non essendo stata fisicamente presente durante il racconto di Cloud.

Tra i momenti che più ho amato di Rebirth ci sono proprio quelli più leggeri, come quelli trascorsi a Costa del Sol, rielaborata in maniera magnifica rispetto all’originale, il viaggio in nave e il Gold Saucer, che mettono al centro dell’attenzione l’evoluzione dei personaggi come gruppo, oltre che come individui. 

Ci sono poi tanti piccoli dettagli che fanno capire l’amore e la cura che gli sviluppatori hanno messo nel rappresentare al meglio il carattere di ognuno dei personaggi: ad esempio i buffi disegni che Yuffie lascia al gruppo di Cloud mentre scala il Monte Corel, avendoli anticipati insieme a Barret e Tifa. Dettagli, sì, ma che uniti riescono a rendere ancor più quel senso di amicizia che si crea pian piano tra tutti i protagonisti.

Final Fantasy VII Rebirth fa un lavoro incredibile nel rappresentare la creazione e l’evoluzione dei legami tra personaggi: un pregio che era già presente nell’originale, ma che qui viene ampliato e migliorato enormemente dal team di sviluppo.

Arrivati alla fine dell’avventura, sarà impossibile non essersi affezionati a un gruppo che era partito come sgangherato e composto da elementi che in apparenza non c’entravano molto tra loro; un gruppo che poi, di fronte alle avversità, si ritrova invece più unito che mai.

Questo, come dicevamo, grazie soprattutto all’estrema naturalezza con cui in tutto il gioco viene mostrato come si siano creati i profondi legami tra i protagonisti. In questo aspetto, come anche nella rappresentazione del mondo di gioco, trovo che Rebirth sia un esempio da seguire per tutti i JRPG moderni nel prossimo futuro; resterebbero soltanto da eliminare alcune parti di storia, che sembrano innestate a forza, per avere un vero e proprio capolavoro del genere.