Con Dragon Age: The Veilguard, Bioware ha di nuovo tutto da dimostrare

Il poco entusiasmante reveal di Dragon Age: The Veilguard è la prova che Bioware ha ancora tanto lavoro da fare per riguadagnarsi la fiducia dei giocatori.

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a cura di Silvio Mazzitelli

Redattore

A pensarci bene, sembra davvero incredibile che siano passati ben dieci anni dall’uscita di Dragon Age: Inquisition, l’ultimo capitolo di una delle saghe di RPG più amate di BioWare.

Guardando a quest’ultimo decennio, però, non si può far altro che rammaricarsi di fronte alla situazione di una software house che ha praticamente plasmato il genere dei giochi di ruolo occidentali, tanto da esserne considerata la regina. Eppure, dopo Inquisition, che già aveva diversi problemi, sono arrivati soltanto Mass Effect Andromeda e Anthem, due titoli estremamente deludenti e molto lontani dagli alti standard qualitativi a cui i fan di BioWare erano abituati.

Durante il recente periodo della Summer Game Fest, Bioware è finalmente tornata, dopo anni di silenzio, per presentare il quarto capitolo della sua saga fantasy, ossia Dragon Age: The Veilguard, con ben due trailer diversi: uno in CG, atto a svelare il nuovo cast dei personaggi, e un altro con ben 15 minuti di gameplay tratti dall’inizio del gioco.

Le reazioni del pubblico non sono state per nulla entusiaste – soprattutto per quello di presentazione dei personaggi, che ha ottenuto oltre 140 mila non mi piace su YouTube – e anche il trailer di gameplay non è riuscito a far cambiare idea ai tanti scettici.

La cosa più evidente di questo recente ritorno sotto i riflettori di BioWare, però, è che non si parla più dello studio all’apice del mondo degli RPG di un tempo, ma, anzi, di uno che ora dovrà ripartire da zero per dimostrare di avere ancora la stoffa per creare grandi titoli come ai tempi d’oro, e rifarsi così un nome.

La fine della magia di Bioware

Oggi il team di BioWare che si sta occupando di Dragon Age: The Veilguard è praticamente un team nuovo.

C’era un tempo in cui ogni titolo realizzato da BioWare stupiva tutti, dimostrandosi una rivoluzione per l’intero genere dei giochi di ruolo occidentali. Alla compagnia canadese dobbiamo delle pietre miliari non soltanto nel genere degli RPG, ma nella storia dei videogiochi in generale. Tra i primi due Baldur’s Gate, Star Wars: Knights of the Old Republic e i più recenti Mass Effect e Dragon Age: Origins, di capolavori se ne contano parecchi.

Anche alcuni giochi minori si dimostrarono ottimi, rimanendo nella memoria di molti giocatori: ne è un esempio il primo Neverwinter Nights, dotato di un sistema online che permetteva di realizzare vere e proprie campagne di D&D con tanto di editor delle mappe e un client solo per giocare come Dungeon Master (trovo assurdo che in tutti questi anni nessuno abbia riciclato quest’idea).

Un altro bel titolo era Jade Empire, un action RPG a tema arti marziali, per l’epoca (2005) davvero divertente e originale. Insomma, la BioWare di fine anni ’90 e primi anni 2000 era una fucina di idee, una più di successo dell’altra.

Poi arrivò l’acquisizione da parte di Electronic Arts e il lento declino, con l’uscita di titoli sempre meno convincenti e con diversi problemi, tanto da portare a una caduta libera della software house e alla totale perdita di fiducia da parte dei fan, con episodi ancora oggi molto vividi nella loro memoria.

Ricordiamo infatti tutti le polemiche sul finale di Mass Effect 3, poi cambiato con una patch, o i numerosi problemi di Mass Effect Andromeda, capitolo che molti appassionati preferiscono fingere che non sia mai uscito.

In parte la colpa fu anche di EA, azienda che ha da sempre avuto una nomea negativa in fatto di acquisizioni, tanto che molti fan ritenevano che tutto ciò che fosse toccato da loro venisse rovinato (e non si può dare loro troppo torto, visti anche altri casi). In effetti la scelta di far concludere i lavori per Dragon Age II in soli quattordici mesi non fu lungimirante e il risultato finale, per quanto decoroso, non si dimostrò affatto all’altezza degli standard di BioWare.

I problemi continuarono con l’imposizione da parte della stessa EA dell’utilizzo del Frostbite, motore grafico non propriamente malleabile, per creare Inquisition (lo trovate a un prezzo molto basso su Amazon).

A peggiorare la situazione arrivò poi l’obbligo di sviluppare il gioco anche per PlayStation 3 e Xbox 360, cosa che rese il periodo di sviluppo ancor più difficile di quanto già non lo fosse – e infatti le versioni per queste console risultarono nettamente inferiori rispetto a quelle delle macchine più performanti.

Anthem probabilmente fu uno dei punti più bassi nella storia della software house canadese, che si mise al lavoro su uno sparatutto in terza persona live service pieno di problemi sia di gameplay che di contenuti, al punto che (non a caso) venne chiuso definitivamente dopo poco tempo, proprio per il suo insuccesso.

La colpa però non fu soltanto del publisher americano, poiché la situazione all’interno degli studi della compagnia canadese era diventata sempre più caotica con il passare degli anni, portando anche a diversi abbandoni molto pesanti.

I fondatori Ray Muzyka e Greg Zeschuk si ritirarono nel 2012 e in seguito moltissimi altri veterani della software house, tra cui anche alcuni dei principali sceneggiatori, lasciarono la compagnia.

A dimostrazione del fatto che molte cose non funzionavano già da tempo, era anche nata la definizione di “Bioware Magic”, ossia la capacità degli sviluppatori di tirare fuori dal caos del processo di sviluppo giochi meravigliosi proprio all’ultimo, facendo sì che il progetto si rivelasse un successo, tanto che spesso nemmeno gli autori stessi si spiegavano come fosse stato possibile.

In realtà questo termine, come poi confermato da alcuni ex sviluppatori di BioWare quali Mark Darrah (un tempo executive producer di Dragon Age), è un altro modo per definire il crunch infernale delle ultime fasi di sviluppo, in cui si doveva lavorare come dei pazzi per portare a conclusione un gioco.

Ciò denota come per troppo tempo, all'interno di BioWare, ci sia stato uno scarso project management: la situazione ha retto fino a quando i più grandi talenti del team erano presenti, per poi sfaldarsi pian piano negli anni recenti – specialmente perché, come evidenziato da Darrah stesso, un metodo di lavoro del genere è davvero pessimo per affrontare la realizzazione di un videogioco.

Oggi il team di BioWare che si sta occupando di Dragon Age: The Veilguard è praticamente un team nuovo, che non può più sfruttare il peso del suo nome per convincere i giocatori che il loro prossimo RPG sia epico quanto i grandi successi del passato.

Si tratta davvero di una ripartenza da zero, con cui gli sviluppatori devono dimostrare di avere il talento necessario a riconquistare i tanti fan disillusi da anni di progetti deludenti – e, soprattutto, se la devono vedere con le nuove generazioni di RPG che hanno ormai usurpato il posto dei titoli BioWare tra i giochi di ruolo più amati dal pubblico.

Una partenza poco convincente

Quando, durante il recente Xbox Game Showcase, è stato presentato il primo trailer di Dragon Age: The Veilguard, molti fan della saga sono rimasti perplessi.

La concorrenza nel genere dei RPG occidentali oggi è molto più alta che all’epoca in cui BioWare spadroneggiava e non basterà certo proporre un Dragon Age dallo stile classico per restare impressi.
Lo scopo del trailer era presentare il cast di personaggi che accompagnerà il nuovo protagonista – completamente personalizzabile dal giocatore, come da tradizione – in questa nuova avventura.

La cosa che è piaciuta di meno, provocando una valanga di commenti negativi, è il nuovo stile grafico, molto più colorato e quasi cartoonesco, se paragonato al passato più dark fantasy della saga – e, ancor di più, una tipologia di presentazione dei nuovi comprimari a metà tra un hero shooter e un film Marvel.

Se non ci fossero stati il titolo del gioco e dei personaggi riconoscibili, come Varric e Lace Harding, pochi avrebbero capito che quello presentato era il nuovo Dragon Age.

I 15 minuti di gameplay mostrati, poi, non hanno certo migliorato la situazione. Si può capire la volontà di proporre la parte iniziale della campagna per evitare troppi spoiler e mostrare l’incipit della storia, ma in questo modo ne hanno risentito sia la presentazione del combat system – mostrato soltanto nelle sue azioni basilari e non in uno stato avanzato – che la parte ruolistica in cui si prendono delle scelte, poiché non si è mostrato nulla di realmente incisivo.

L’unica nota positiva, almeno per il momento, è il fatto che la storia riprenda da dove si era interrotto Inquisition, con il piano di Solas in pieno svolgimento, il che può far ben sperare in una trama più curata e che finalmente vada a fondo nel background narrativo della saga.

Sono ben conscio che è ancora presto per dare un giudizio al gioco, di cui si è visto ben poco, ma è evidente che il modo di presentarlo da parte di BioWare non sia stato affatto brillante. Andando a scavare a fondo anche tra le dichiarazioni dei due director del gioco, John Epler e Corinne Buschela, i punti di forza messi in primo piano sono il focus sulla narrativa e sulle storie dei personaggi, con la possibilità di prendere decisioni importanti che potranno anche cambiare il corso della trama. 

La personalizzazione del protagonista avrà tre classi tra cui scegliere, come nei vecchi Dragon Age, con eventuali specializzazioni da selezionare a gioco inoltrato, e sarà possibile deciderne la razza e anche un background narrativo, che avrà ripercussioni nel gioco finale.

In pratica non ci stanno dicendo nulla che Dragon Age: Origins del 2009 non avesse già fatto; anzi, probabilmente questo precedente titolo rimarrà insuperato, con la parte introduttiva completamente diversa a seconda della razza e della classe del proprio personaggio e la moltitudine di difficili scelte da compiere nel corso di tutto il gioco – scelte che portavano a moltissimi finali diversi.

Ribadisco: è ancora presto per dirlo, ma l’impressione avuta dalla presentazione di Dragon Age: The Veilguard da parte di BioWare al momento non è buona, soprattutto perché sembra un RPG che sa troppo di già visto, arrivato in un’epoca in cui esiste Baldur’s Gate 3.

Anche senza tirare in ballo il capolavoro di Larian, esistono tanti titoli molto validi che hanno spesso stabilito nuovi standard qualitativi in questo genere, come ad esempio l’ottimo Disco Elysium o il sempre amato The Witcher 3, senza contare anche altri RPG più classici come i titoli di Obsidian.

La concorrenza nel genere oggi è molto più alta che all’epoca in cui BioWare spadroneggiava e non basterà certo proporre un Dragon Age dallo stile classico, ma senza particolari guizzi originali, per farne un titolo che possa essere ricordato tra le eccellenze degli RPG.

D’altronde Veilguard – come tutti gli ultimi giochi creati da Bioware, purtroppo – si porta dietro uno sviluppo travagliato, iniziato nel 2015 e poi messo in pausa e resettato a più riprese, anche con la perdita, nel corso del tempo, di numerosi membri chiave del team.

La situazione era nota, ma il silenzio degli ultimi anni faceva sperare che finalmente gli sviluppatori avessero deciso che direzione concreta dare al titolo, cosa che comunque non è ancora da escludere, almeno fino a quando non sarà possibile provare il gioco completo.

Per il momento, quanto comunicato da BioWare su Dragon Age: The Veilguard non riesce ancora a convincere pienamente circa la bontà del progetto, lasciando molti dubbi che si spera vengano dissipati in futuro.

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