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Life is Feudal

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Avatar di Plinious

a cura di Plinious

Pubblicato il 22/12/2014 alle 00:00

Abbiamo già trattato il peculiare sandbox online di Bitbox Ltd., Life is Feudal: Your Own, in un’anteprima a fine ottobre: se volete conoscere tutti i dettagli su gioco e gameplay quello è l’articolo giusto da leggere. Questo, al contrario, vuole essere una specie di diario di viaggio, una cronaca in prima persona di ciò che può succedere in un titolo così libero e complesso. Tutto quanto è raccontato qui è frutto di eventi successi realmente in gioco tra player, soltanto riadattati in modo da renderli più piacevoli alla lettura e cambiando qualche nome qua e là. Inoltre sono tutti fatti avvenuti già alcune settimane fa, in modo da garantire una narrazione “a freddo” degli eventi. Mettetevi comodi ma tenete pronti lancia e scudo, poiché non sarà un viaggio di piacere.
Memento mori
Inizio la mia avventura su una spiaggia, coperto solo di stracci e sferzato dal vento. È notte: le stelle brillano nel firmamento e la luna illumina parzialmente un panorama altrimenti immerso nell’oscurità. Non c’è tempo da perdere: con le tenebre i lupi escono dalle loro tane e circolano più affamati che mai, quindi bisogna prepararsi per evitare di essere il loro prossimo pasto. Mi metto a raschiare il terreno, ma non trovo nulla. Riprovo e stavolta strappo da terra delle piante. Sono erbacce senza alcun utilizzo curativo, ma unendole a dei rami e una pietra posso mettere insieme uno strumento di fortuna, una primitiva pala. Trovo una pietra piuttosto rozza vicino a una vena di minerale, mentre i rametti li stacco da un albero nelle vicinanze, il primo di una lunga serie: davanti a me infatti si stende una selva oscura, ricca di vegetazione, bestie e pericoli. Prima di avventurarmici dentro adopero altri rami e sterpaglie per realizzare una rudimentale canna da pesca. Imbracciata quest’ultima butto la lenza in mare e cerco di pescare qualche bel pesce, ma i tentativi non hanno successo, probabilmente per la mia inesperienza: sarà per un’altra volta.
Continuo allora l’esplorazione dell’isola: d’altronde, conoscere l’ambiente è il primo modo per dominarlo. Il tempo scorre inesorabile nella clessidra, e con esso cambia anche la posizione della luna in cielo. È ormai l’alba quando arrivo nei pressi di un luogo in cui sembra essersi riunita una comunità. Su un’altura subito a Sud di un grosso lago, infatti, svetta una piccola fortezza con tanto di mura in legno e pietra a delineare il perimetro. Scelgo di fare la conoscenza della masnada: in queste terre, un lupo solitario è mangime per i pesci. Alle porte del castello avviene il primo incontro con un membro della comunità: dopo una cordiale presentazione il giovane rampollo chiama il capomastro, colui che sembra coordinare la gilda, e mi lascia per tornare immantinente al suo dovere. Dentro la fortezza, infatti, i lavori procedono a pieno regime: si concima il terreno, si seminano i campi coltivati, si costruiscono forge, telai e altre strutture utili. Parlando con il capomastro scopro che il controllo dell’isola è diviso tra due fazioni piuttosto sfumate, una situata a Nord e una a Sud, e che questa “Armata”, come si fa chiamare, costituisce una delle forze del Nord. Non avendo idee migliori, decido di unirmi alla suddetta, diventando a tutti gli effetti parte della vita della comunità.
Quel che succede dopo è un esempio di vita feudale a tutti gli effetti: i dì si susseguono velocemente mentre imparo a tagliare tronchi di legna, a piantare germogli e a discernere i vari tipi di erbe (no, non quelle stupefacenti). D’altronde falegnami, carpentieri ed erbalisti sono sempre benvenuti. Per una comunità che mira a evolversi ed espandersi, poi, non c’è nulla di più importante del conoscere l’ambiente circostante, come precedentemente accennato. Decido dunque di fare un giro per l’isola, mantenendomi nella parte settentrionale e comunque nella zona vicina al lago, per tastare la regione ed eventualmente intessere un po’ di buoni rapporti di vicinato. Circumnavigando il lago mi dirigo verso Nord, seguendo un sentiero di collina che mi porta ben presto a un insediamento umano. Si tratta di una fortezza più grande di quella dell’Armata, con una poderosa cinta di mura in pietra e svariate costruzioni all’interno. La roccaforte, però, è inspiegabilmente vuota: i cancelli sono serrati e nei dintorni non c’è anima viva. Dopo un’attenta osservazione della fortezza dall’esterno, quindi, non posso far altro che proseguire lungo la mulattiera.
Caedite eos, novit enim Dominus qui sunt eius
Cammino per una mezz’ora buona finché non giungo in una radura ove è locato un modesto insediamento, con un paio di case e delle mura in fase di costruzione proprio in quell’istante. I primi contatti li ho con un uomo a torso nudo, probabilmente un architetto, che si sta appunto occupando di erigere il muro. Il rapporto che segue è gentile e diplomatico: interrotta momentaneamente la sua attività, l’omone mi racconta di come la comunità di questo luogo, i Cornolungo, viva di quel che ha e produce, in modo semplice e genuino, ma di come tuttavia essi siano sempre interessati al commercio, necessitando di erbe di vario tipo. Dopo uno scambio di battute che sancisce la disponibilità della comunità pastorale nei confronti della mia gilda, il caro architetto mi rammenta che deve tosto tornare al lavoro e mi saluta, augurandomi di fare buon viaggio e di tornare a trovarlo in futuro.
Soddisfatto per l’esito positivo dell’incontro, decido di continuare le mie peregrinazioni spostandomi verso Est e seguendo la costa settentrionale dell’isola. Stavolta bastano pochi minuti per arrivare nei pressi di un altro centro abitato, senza mura o recinzioni ma con diverse case e orti. Intravedo un servo della gleba che sta dedicando anima e corpo alla coltura di un campo. Mi appropinquo e mi mostro a lui con ampi cenni. L’uomo si ferma, come paralizzato. Non parla ma mi fissa per alcuni lunghi secondi, per poi girarsi e guardarsi intorno inquieto. Nell’aria aleggia un’innaturale tensione quando, tutto d’un tratto, ecco che in lontananza compare un secondo uomo. Non è un servo della gleba, tutt’altro: è un cavaliere nero, bardato e armato di tutto punto. Meglio così, penso io: convien dialogare con un uomo d’onore che con un villano.
Ma qualcosa non quadra: il cavaliere estrae una zweihander e si dirige verso di me con una foga francamente eccessiva per una persona che voglia discutere di accordi diplomatici. Mentre mi carica a testa bassa, mi rendo sempre più conto che, di fare i convenevoli, non ne ha la benchè minima intenzione: il suo spadone in affondo sfiora il mio ventre mentre, quasi d’istinto, mi sposto lateralmente schivando così il tremendo fendente.
Tertium non datur
Nel giro di un attimo mi trovo a dover scegliere come (re)agire. Minacciato da uomini che non ho avuto il piacere di conoscere e lontano dai miei compagni, l’istinto di conservazione mi suggerisce una cosa sola: gambe levate. Per le imprese epiche e i cantici ci saranno altre occasioni. D’altra parte la fuga, per quanto possa sembrare disonorevole, è l’unica opzione possibile: non sono addestrato per la battaglia e inoltre non avrei alcuna chance contro un cavaliere con armatura a piastre. Certo, potrei sempre prostrarmi a terra e pregarlo di risparmiarmi, ma il bestione suggerisce ben poca cristiana misericordia e io non ho intenzione di diventare cibo per i vermi. Non ancora, almeno.
Ne segue dunque un inseguimento furibondo tra vigneti, foreste e colline. Grazie al minor peso delle mie umili vesti, che mi permettono di correre a piè veloce, mi lascio l’indomito cavaliere alle spalle, ma non senza fatica. Lo zoticone difatti continua a sbraitare mentre mi insegue per tutto il versante settentrionale del Montblanc, il monte più grande dell’isola: il bifolco evidentemente proprio non sa che ambasciator non porta pena. Quando ormai sono riuscito a mettere una distanza considerevole tra la sua spada e il mio corpo, ascolto da lontano le sue ragioni: l’uomo, avendo già subito diversi furti nei giorni precedenti, mi aveva scambiato per un ladro, entrato nella loro proprietà per razziare beni di ogni tipo. Interessante, ma non è comunque una giustificazione sufficiente: avrebbe almeno potuto accertarsi che lo fossi realmente, prima di tentare di sbudellarmi senza proferir parola.
Scampato il periglio, di ritorno alla fortezza non manco ovviamente di raccontare la mia (in)gloriosa avventura ai sodali nelle vicinanze: la novella si sparge in men che non si dica, e ci vuol poco prima che venga convocato a colloquio col signore della nostra comunità. Egli ascolta la mia storia con attenzione e piglio severo e alla fine tira i fili: un membro dell’Armata risponde per tutta l’Armata e, di conseguenza, l’attacco ingiustificato a uno dei suoi membri equivale a una dichiarazione di guerra all’intera gilda. Abbiamo il nostro casus belli: presto i corni di guerra suoneranno contro chi ci ha attaccato a tradimento.
Il sole brilla nel cielo ma si sta avvicinando all’orizzonte: tra non molto sarà di nuovo notte. Bisogna prepararsi: la guerra non è arte che s’impara all’improvviso, e se vogliamo compiere una spedizione punitiva occorrono soldati, non contadini. Ma questa, amici miei, è un’altra storia.

Come ogni sandbox che si rispetti, non esiste un solo modo per giocare Life is Feudal: Your Own. Giocatelo come preferite, ma non da soli: il gameplay solitario è troppo limitante rispetto al gioco di gruppo. Unitevi a una comunità di player o createne una vostra, a patto di avere almeno tre o quattro amici. Armatevi di pazienza e sperimentate, perché l’unico vero limite è la vostra immaginazione: e questa, al di là di tutti i bug e glitch che (si spera) col tempo verranno a mano a mano corretti, è sicuramente la cosa più bella.

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