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Pro
- Forza immaginifica e messa in scena fuori parametro.
- Gameplay più profondo, con tanti approcci e ultra soddisfacente.
- Inconfondibile e unico.
- Musica di eccellenza assoluta.
- Temi introspettivi trattati con delicatezza e maestria.
- Tecnicamente top.
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Contro
- Tradisce in parte la sua natura, diluendosi spesso in azione pura.
- Molto meno dirompente del primo nella struttura narrativa.
- Il level design invoglia meno alla costruzione.
- Alcuni momenti sono depotenziati da un cringe eccessivo perfino per Kojima.
Il Verdetto di SpazioGames
Quando, nel 2019, pubblicammo la recensione del primo gioco, il titolo fu “bianco o nero”: ero sicura che le persone lo avrebbero amato o odiato, senza vie di mezzo. Qui parliamo di “bianco e nero”, perché DS2 riesce a essere tutte e due le cose insieme, un grigio di scelte banalmente ammiccanti e di altre uniche al contempo: un videogioco che grida prepotentemente di essere prima di tutto “opera”, ma che lo fa essendo molto più “prodotto” del suo predecessore, che non può replicare la potenza dirompente e unica del suo capostipite, ma che rimarca con una delicatezza rara – che fa bene ai videogiochi e a chi li gioca – che di scatola in scatola consegniamo agli altri anche un pezzetto di noi. E che quindi questa cosa chiamata amore, chiamata legami tra esseri umani, fa tanto male ma anche tanto, tanto bene insieme.
Proprio come Death Stranding 2.
Informazioni sul prodotto

- Sviluppatore: Kojima Productions
- Produttore: Sony Interactive Entertainment
- Distributore: Sony Interactive Entertainment
- Testato su: PS5
- Piattaforme: PS5
- Generi: Avventura , Azione , Gestionale
- Data di uscita: 26 giugno 2025
«Questo è vivere. Cambiare e accettare il cambiamento. Trasformarsi».
Quando uno dei protagonisti di Death Stranding 2 lo ha detto, per un attimo mi sono domandata se parlasse anche del gioco. Che in effetti è un’opera che sceglie di “vivere”, di cambiare e accettare il cambiamento, di trasformarsi ma nel tentativo di rimanere il più possibile fedele a se stessa.
Una che, senza ombra di dubbio, eleva ancora una volta la grammatica videoludica, i punti di contatto tra media diversi – gameplay, cinema, scrittura, punteggiatura musicale. Ma anche una che non può avere, e infatti non ci riesce, la forza dirompente e impattante del suo capostipite.
Sulla Spiaggia di Death Stranding 2 succede di tutto e, contrariamente a quello che di solito si pensa dei titoli che sono ossessionati dalla volontà di scimmiottare il cinema, il videogioco come mezzo comunicativo esce da questo viaggio incredibilmente rafforzato.
Allo stesso tempo, però, Kojima mette la firma su un gioco che diluisce le sue unicità, provando a rendersi più palatabile per chi si era tenuto ben alla larga dal primo, creando una sorta di Death Stranding V: The Phantom Pain che ha la sua forza trainante nell’atmosfera, nei personaggi, nella profondità del gameplay, ma che annacqua il suo paradigma identitario.
Eppure, questo viaggio di unione di giocatori che interagiranno in modo asincrono senza incontrarsi mai, ancora una volta funziona. E, in modo paradossale proprio come ha fatto il suo predecessore, mentre uniamo tutto ci dividerà – tra chi ne apprezzerà le stravaganze e chi, invece, non solo non ha nessuna intenzione di seguire Sam in questa nuova follia, ma si sentirà anche un po’ spaesato dal ritrovarsi davanti a una sorta di Metal Gear surrealista con i pacchi da consegnare.
"Mi hanno detto che ti chiami Sam Porter"
Death Stranding prese molti in contropiede perché, a eccezione di chi aveva seguito la presentazione al Tokyo Game Show 2019, rigorosamente in giapponese, molti non avevano colto che si sarebbe trattato davvero di un gioco di consegne. Con Death Stranding 2, questo percorso di disamina del gameplay è quindi più facile: prendete le dinamiche del primo gioco e immaginatele estremamente più profonde, con un senso di progressione molto meglio bilanciato e praticamente costante.
Dopo la missione nelle UCA, infatti, il nostro Sam Porter Bridges si ritrova chiamato a unire nuove regioni, nella speranza che il mondo post-apocalittico funestato dal fenomeno che dà nome al gioco non tenga le persone ancora separate.
Nel suo lungo viaggio, il corriere si trova ancora una volta in un open world con multiplayer asincrono, dove il riempimento è dettato dagli utenti: si gioca dentro un’istanza condivisa con decine di altri giocatori che non incontrerete mai, ma che collaboreranno con voi alla costruzione di strade, di comodissime monorotaie per il trasporto tra i centri più importanti, di ponti, generatori elettrici, punti di viaggio rapido e qualsiasi cosa sia utile per spianare il cammino delle vostre consegne.
La parte strategica e gestionale, in cui dovete pianificare il viaggio, analizzare le difficoltà morfologiche che potreste incontrare – tramite una mappa enormemente migliorata – decidere che equipaggiamento portare con voi e come gestire il carico, è ancora il fiore all’occhiello, il cuore e l’identità più pura di Death Stranding.
È il suo gameplay loop unico, che funziona, a volte irretisce perfino, facendovi finire nel loop «dai, un’altra consegna e stacco!», restituendovi un enorme senso di soddisfazione. Se, in questo DS1 era un po’ un adolescente che cercava la sua via, DS2 è adulto e consapevole di sé e di cosa andare a rifinire.
È una ricchezza che si riflette anche nella sua grande libertà di approccio. Se è vero, infatti, che il mondo post-Death Stranding è fatto di una civilizzazione frammentata e di persone isolate, lo è anche che in questo viaggio non siete soli. E non solo perché ci sono gli altri giocatori invisibili che viaggiano con voi, ma perché qualcuno cercherà di impedirvi di farlo – che siano le CA, gli inconfondibili nemici-fantasmi della saga, o milizie armate senza scrupoli, di cui parleremo tra un attimo.
La parte corrieristica del gioco è impreziosita anche dalla differenza tra i vari biomi, estremamente più vari rispetto a quelli simili-islandesi del primo gioco, e dove si possono verificare catastrofi naturali: un fiume che si ingrossa e rischia di portarvi via, un incendio che divora un bosco che stavate attraversando.
Tuttavia, nella mia esperienza raramente questi fenomeni sono stati problematici: è interessante che si verifichino, ma non sono mai stati un vero spauracchio e hanno un impatto molto più discreto di quanto mi sarei aspettata prima di giocare.
Anche la morfologia dei terreni e il level design, per quanto più vari rispetto al primo Death Stranding, sono anche estremamente più accoglienti. Moltissimi scenari di DS2 sono scoscesi o comunque privi di aree insormontabili: dimenticatevi le zone di rocce calcaree che, poco dopo il centro logistico a sud di Lake Knot City, vi hanno fatto perdere anni di vita nel primo gioco.
Qui si sbloccano molto presto i veicoli e, grazie anche alla loro fisica migliorata, con essi si riesce ad andare quasi dappertutto. Un bilanciamento che valorizza gli approcci diversi, ma che depotenzia un po’ il senso zavorrante di viaggio che era identitario nel primo gioco.
Non solo: ci sono anche veicoli molto potenti, che non vi spoilero, ma che addirittura possono permettere di superare un grosso fiume fluttuandoci sopra. Il risultato, con tutte queste opzioni, è che nella traversata si finisce per costruire molto di meno: non mi serve un ponte se posso davvero saltare un fiume e in alcuni casi limite non mi serve nemmeno una strada, se il terreno è in piano e privo di grossi ostacoli.
È un discorso che si applica molto bene a tanti aspetti della progressione del gioco: per fare un esempio banale, ho quasi smesso di costruire generatori quando ho iniziato a trovare consumabili che permettono di ricaricare la batteria di Sam e dei suoi esoscheletri. Un fenomeno curioso, che un po’ depotenzia la parte di collaborazione asincrona che, invece, gridava «Death Stranding» da ogni sua cellula.
Al di là di queste ingenuità di bilanciamento, dove l’abbondanza di possibilità e la volontà di non spaventare chi è rimasto traumatizzato dalle scalate verso Mountain Knot City si traduce in una possibile banalizzazione di alcune traversate, essere un corriere in Death Stranding 2 è una meraviglia.
Chi ha amato il primo gioco non si staccherà più dal secondo – nonostante le spigolosità di level design evidenziate – che prende alla lettera l’idea di bigger and better per restituire un mondo ricchissimo, strapieno di easter-egg irresistibili, segreti da scoprire, scenette da vivere, elementi da sbloccare.
Con buona pace di chi si preoccupa di un mondo vuoto che in teoria dovrebbero riempire i giocatori, l’open world di Death Stranding 2 è ricco, a volte forse quasi troppo per essere quello di un universo post-apocalittico. Anche l’aggiunta della Magellan, e di vari altri sistemi di viaggio rapido (che non permettono di by-passare le consegne) è sensata e gradita: azzera in tutto i tempi morti a cui costringeva il più macchinoso viaggio rapido del primo.
Per quanto concerne il livello di sfida, è disponibile da subito anche una difficoltà estrema, che non è comunque particolarmente proibitiva: l’unica differenza significativa che ho riscontrato è nelle CA, che tendono molto più facilmente a cercare di mangiarvi per innescare una voragine. Nel mio viaggio (a Normale prima e a Brutale in endgame) ne ho avute quattro, laddove nel primo gioco mi capitò solo perché mi lasciai volutamente divorare per vedere cosa sarebbe accaduto.
"No, quello non è Solid Snake!"
Kojima Productions ha evidentemente prestato non un orecchio, ma addirittura due, a chi lamentava che il primo Death Stranding fosse un po’ troppo un gioco di consegne con i fantasmi e poco qualsiasi altra cosa. Così, in un mercato dove non vendi abbastanza se non dici al giocatore che deve sparare a qualcosa, Death Stranding 2 abbraccia il bastone tanto quanto la corda (se non di più), rientrando sotto l’etichetta dell’action-adventure molto, molto di più di quanto l’originale non facesse, che era invece più qualcosa a metà tra Journey e un gestionale, con l’azione relegata ai margini.
Qui l’azione è centrale e si prende una larghissima parte della scena. I nemici di Sam sono molto presenti e, soprattutto nella storia, sono praticamente parte di un conflitto costante, che fa in modo che una valanga degli equipaggiamenti che otterrete saranno armi. E si parla di armi di ogni sorta, semplificate rispetto al primo gioco dove c’erano tanti tipi di proiettili da gestire: pistole, fucili, fucili da tiro, mitragliatrici, lanciarazzi, lanciagrante – Sam ha a disposizione un arsenale impressionante.
Se, nelle sue traversate libere, il giocatore può scegliere se e quando ricorrervi – con sempre il malus che uccidere un umano comporta di doverlo portare a un inceneritore in una struttura vicina, pena una voragine sulla mappa – nelle missioni di storia le sparatorie sono una costante che si alterna allo stealth.
Ne viene fuori un Death Stranding: The Phantom Pain innegabile, dove le meccaniche furtive e di shooting eccezionali dell’ultimo Metal Gear Solid si incarnano in Sam. Trovare un accampamento di banditi può vedervi studiarne le posizioni per prenderli alle spalle e stordirli, abbatterli addormentandoli con un fucile da cecchino o avanzare ad armi spianate (o corpo a corpo, perché no?) per levarveli di torno. La scelta sarà vostra.
In questi scontri sono migliorate enormemente sia l’IA nemica che la fisicità degli scontri. Combattere ora è soddisfacente, spettacolare esattamente come lo era in The Phantom Pain, e può coinvolgere anche i veicoli. I nemici, dal canto loro, tendono a cercare di prendervi a tenaglia, vi danno fastidio anche da lontano e sono in grado di risvegliare i loro compagni storditi se optate per un approccio stealth.
Non immaginate routine complesse come quelle di Metal Gear – non ci sono vere e strutturate fasi di cautela, evasione e allerta, per capirci – ma il sistema funziona e intrattenersi con gli accampamenti nemici, che crescono se non si interviene, è un milione di volte più divertente che finire in mezzo ai MULI nel primo gioco.
Questo miglioramento si trasla in parte nelle boss fight, che sono estremamente simili a quelle del primo gioco – ma non sempre, a seconda dell’avversario che vi troverete di fronte. Le ingenuità e la fisicità del lottare in mezzo al catrame rimangono gli stessi di DS1, ma sappiate che quegli scontri sono solo una piccolissima parte di quelli che il gioco propone, pur non brillando comunque particolarmente, a mio avviso, nelle boss fight con le bestie.
I veri protagonisti della scena sono, comunque, i nemici in rosso visti nei trailer, che saranno praticamente onnipresenti e, in molte missioni della storia, difficilissimi o impossibili da affrontare in stealth, col risultato di finire in mezzo a colpi di spada, di mitragliatrice e di mine esplosive contro cui reagire.
La loro centralità, anche nell’approccio aggressivo, è così massiccia che, al di là del fatto che ricordo sessioni di storia in cui dall’inizio alla fine non ho consegnato nemmeno un pacco, ma solo sparato, questo presta il fianco a due riflessioni: la prima riguarda il forzare il giocatore all’azione.
Se è vero che lo shooting e il combattimento sono molto divertenti e vari da giocare rispetto al primo gioco, lo è anche che forzarli in molte missioni della campagna banalizza in modo estremo l’identità stessa di Death Stranding, quando ci si dimentica di essere Sam e si finisce per essere più Solid Snake o Big Boss di quanto si dovrebbe. Quando si passa dal mondo post-apocalittico fatto di silenzi e solitudini a uno scenario di guerra con i nemici in rosso che assorbono un’infinità di proiettili ed escono dai “fottuti pavimenti” (semicit e true story).
È una leva che rende Death Stranding 2 molto più vendibile del suo precursore, ma anche un’opera che si comporta come se il primo gioco avesse avuto qualcosa da farsi perdonare, per essere stato così diverso e così convinto della scelta di far sparare il giocatore il meno possibile. Sembra quasi un’alzata di mani: se per far funzionare un gioco nell’immaginario del pubblico e sul mercato serve che si spari, allora si spara.
Se le Creature Arenate erano il cuore del viaggio di Death Stranding, qui sono poco più che banali comparse, al punto che di tanto in tanto ci si dimentica perfino che esistano. Il gioco solo in occasioni rarissime forza ad attraversare le aree delle CA, dove si deve rallentare e procedere in stealth, e questo tramuta gli spauracchi unici dell’universo di questa saga in dei timidi comprimari, in favore di banditi e nemici in rosso – ben più presenti.
Dal punto di vista del design e della soddisfazione del giocatore medio ha senso: le persone si divertono molto di più a sparare ai banditi che a trattenere il respiro per non farsi rovinare il carico dalle CA. Solo che Death Stranding era proprio questo e, anche qui, DS2 sembra quasi voler chiedere scusa per ciò che il primo faceva così testardamente e in modo così diverso da qualsiasi cosa mai giocata prima.
Quindi è più bello da giocare? Sì. Death Stranding 2 è un gioco-giocato meglio amalgamato del primo, senza ombra di dubbio. Ma è anche uno molto meno fiero delle sue unicità, che quasi le mette sotto il tappeto e le diluisce in qualcosa di più facilmente masticabile e riconoscibile, forse provando a sedurre un pubblico che comunque lo lancerà dalla finestra dopo le difficoltà e i ritmi delle prime due consegne, non arrivando nemmeno alle fasi action più accentuate.
È e rimane, e va bene così, un gioco di consegne; solo, rispetto al primo è come se ne andasse un pochino meno fiero.
"Ci saremmo dovuti connettere?"
Se c’è qualcosa in cui Death Stranding 2 metterà tutti d’accordo, quella è la sua forza espressiva. Non sembrava possibile dopo il primo gioco, ma la regia di Kojima qui si dimostra ancora più matura, più consapevole, più raffinata: dice molto di più di quanto le parole del gioco di tanto in tanto non facciano.
Riesce, con una gentilezza da uncinetto, a cucire insieme linguaggio filmico, un uso eccezionale della punteggiatura musicale – fortissima nelle tracce originali, un po’ meno in quelle ospitate –, interazione e interpretazione, restituendo un’esperienza emotiva come raramente se ne trovano e che non vi dimenticherete mai più.
Che vi piaccia consegnare i pacchi, sparare ai cattivoni, riempire un open world nato dalla sottrazione: Death Stranding 2 tocca corde emotive che elevano il videogioco e riescono nella missione più difficile di tutte, anche di quella di Sam – lasciarvi dentro qualcosa anche quando il viaggio è finito.
Il lato interessante, in questo, è che non lo fa con il suo intreccio, ma con le tematiche espresse dai suoi personaggi. L’intreccio puro, ossia la “missione” di Sam, risulta infatti estremamente banale e leggibile, soprattutto per i canoni di Kojima, e privo di particolari guizzi. Non solo: sebbene i suoi ritmi siano seminati molto meglio che nel primo gioco, con le vicende che non si fermano per aprire enormi parentesi sui comprimari, relega alcune rivelazioni chiave a momenti troppo affrettati che non permettono loro di respirare.
Inoltre, ma questa è una sensibilità estremamente personale, proprio alcuni momenti chiave dell’intreccio sono funestati da alcune scelte di stile così surreali da danneggiare il momento emotivo più che valorizzarlo, e che figurano più come esercizi di stile che non al servizio della storia – un po’ come accadeva con i terrificanti titoli di testa di ogni missione di The Phantom Pain, ma declinato nel cringe.
Chiaramente, la sensibilità è molto soggettiva: alcuni di voi, magari più amanti delle stravaganze degli autori giapponesi, potrebbero perfino adorarle; per chi vi scrive, che pure è cresciuta a pane e Hideo Kojima, ha amato giochi come Metal Gear Solid 4 e quindi ben conosce le follie uniche del game director, sono risultate scelte stilistiche così eccessive da avermi fatto alzare gli occhi al cielo, facendo barcollare per qualche minuto il coinvolgimento negli eventi.
Dove invece Death Stranding 2 brilla, in termini di scrittura, è nelle tematiche e in come queste vengono espresse dai suoi personaggi. Se questo gioco fosse Mass Effect 2, immaginate come se il peso narrativo non fosse nella missione suicida del comandante Shepard, ma nei rapporti tra i membri della Normandy che si sviluppano durante il viaggio. Ecco: sostituite la Normandy con la Magellan e avete una buona descrizione di dove sta il valore nella scrittura di DS2.
Ancora una volta, più Kojima si allontana dal nostro mondo per affondare le mani nello sci-fi, più sta parlando di noi, della nostra interiorità, di quello che unisce anche i più diversi tra noi: il fatto di essere tutti umani.
Se il primo gioco era scritto a macchina, per la sua eleganza nel trattare temi delicatissimi e a misura d’uomo questo è scritto in penna d’oca: raffinato, mai verboso, mai didascalico dove serve il tatto di sapere che, certo, le CA non esistono ma la morte sì, commovente, pieno di allegorie che vi scavano dentro il cuore per reclamarne un pezzo.
I protagonisti di Death Stranding 2 sono allora le star della scena, prima ancora di un mondo che non può per forza di cose replicare la dirompenza che ebbe nel primo gioco – che ci aveva già detto tutto il dicibile su come siamo arrivati a questo punto. Ora il focus è su come stiamo vivendo, in questo punto, ed è uno scenario in cui brillano tanto Lou, Fragile, Rainy, Tomorrow. E in cui brilla, più di ogni altro, soprattutto Sam.
Eroe risoluto e che risolve i problemi, forte di una vita di traumi e con il coraggio di un leone; eppure, Samuel è un protagonista meraviglioso e lontano dagli stereotipi, che non solo si piega ma addirittura si spezza, orgoglioso e vulnerabile insieme, e che esprime nel suo viaggio valori preziosissimi per chi sta da questa parte dello schermo – che vorrete portare con voi anche a gioco ultimato.
"To the wilder you"
A rendere possibile una grande resa di questi esseri umani di titanio e di cristallo è l’interpretazione magistrale dei loro attori, e anche quella dei doppiatori italiani – gli stessi del gioco originale, a cui si aggiunge chiaramente un Luca Marinelli in grande spolvero.
E, a confezionare il tutto, abbiamo la regia (anche musicale) di cui abbiamo già discusso, sposata a una direzione artistica semplicemente eccellente. Ma, da parte di Yoji Shinkawa, che eccelle ormai dal 1998, questa non è affatto una novità.
Dal punto di vista tecnico, ho giocato su PS5 Pro e il gioco ha una modalità Prestazioni, che favorisce 60 fps granitici, e una Qualità, che dà priorità al 4k nativo. In entrambi i casi, non ho riscontrato in oltre 50 ore nessun problema tecnico, nessun bug e nessuna problematica significativa – una pulizia che raramente si vede nelle copie review e perfino nei giochi fatti e finiti buttati fuori al day-one.
Per gli amanti del fotorealismo, la resa dei biomi è spesso meravigliosa e Decima Engine si conferma un punto di riferimento assoluto – anche nella gestione di luci e particellari, che vi renderanno dipendenti dalla modalità Foto. Anche i modelli e l’espressività dei personaggi vanno di pari passo, lasciando solo un foglio di carta velina tra videogioco e cinema.
Questa cura è stata riposta anche nella quality of life: l’interfaccia è più pulita che in passato e, soprattutto, i nuovi menù snelliscono e rendono un piacere le operazioni cicliche delle consegne – come riordinare il carico sulle spalle, che nel primo comportava sempre l’apertura del menù di pausa. I cambiamenti mirati, in questo, sono una boccata d’aria fresca e rendono quasi difficile pensare di tornare a DS1, che ora apparirebbe legnoso e un po’ contorto nella sua UI.