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Kojima: devo creare videogiochi, questa è la missione della mia vita

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Avatar di Stefania Sperandio

a cura di Stefania Sperandio

Ex Editor-In-Chief

Pubblicato il 17/12/2015 alle 00:00

Ormai, sapete tutto del divorzio tra Konami e Hideo Kojima. Dopo mesi di silenzi e presunte vacanze avvolte dal mistero, in data 15 dicembre il contratto di Kojima è effettivamente scaduto, e Kojima Productions è ora un team indipendente che sta già collaborando con Sony per una nuova IP. Ora che si è messo in proprio, il noto game designer può quindi aprirsi, ed ha concesso una nuova ed interessante intervista a The New Yorker. In essa, ha analizzato l’industria videoludica giapponese, la sua evoluzione e non-evoluzione, ed ha parlato anche del suo futuro, di cosa ha pensato nel momento di gelo con Konami.Quando, giovanissimo, si ritrovò innanzi al Famicom, Kojima comprese che la sua passione per i film e per la regia poteva tradursi in qualcosa di nuovo: “capii subito che quella poteva essere un’altra strada da intraprendere per creare esperienze simili a quelle dei film.” La tecnologia, però, non consentiva ancora qualcosa di così ambizioso: “era un po’ come l’epoca del cinema muto. I giochi erano composti da azioni semplici, come quelle dei vecchi film di Chaplin o di Keaton: correre, saltare, lanciare. Non potevano esserci temi o messaggi significativi, nella storia. Io continuavo a mettere la trama ai miei giochi. Alcuni giocatori si lamentavano, dicevano che stavo predicando. Ma io volevo trovare un modo di collegare questi giochi alla vita, di fare in modo che non fossero solo giocattoli, ma qualcosa che l’utente avrebbe potuto portare con sé, nella sua vita.”“I giochi sono maturati, ora si tratta di un medium ricco che può convogliare storie drammatiche e altri elementi molto profondi. A questo punto, si è fatta difficile per i giochi giapponesi: la loro sensibilità ed identità culturale era distinta, ed era difficile rivedercisi” ha riflettuto Kojima. Il suo eterno Metal Gear Solid, che debuttò nel 1998, guardava in effetti all’Occidente, con protagonisti perlopiù statunitensi, nell’indimenticabile isola di Shadow Moses, in Alaska. C’erano forti elementi di identità giapponese, ma anche tematiche forti e, sopratutto, globali, vicine alla cultura del giocatore. “L’unico modo di creare grandi giochi, è puntare al mercato globale. Ma, per farlo, è importante che il management che sta dietro al progetto abbia idea di cosa potrebbe funzionare, ed abbia intenzione di prendersi dei rischi” ha ragionato Kojima, che ha poi pronunciato una frase particolarmente forte: “se davanti a te vedi solamente i profitti, il tempo ti lascerà indietro. Diventerà impossibile tenersi al passo.” “Quando lavori nelle grosse aziende” ha continuato, “sopratutto quelle giapponesi, ogni piccola cosa deve avere l’approvazione, servono documenti firmati per qualsiasi cosa. Ora che sono indipendente, posso fare quello che voglio molto più velocemente. Non ho bisogno di passare del tempo in presentazioni non necessarie. Mi faccio carico dei rischi.” Kojima ha anche notato che “quando lavoravo in una compagnia, le mie affermazioni personali potevano essere interpretate come una direzione globale dell’azienda. Pertanto, praticamente non potevo dire niente.”Il game designer a capo di Kojima Productions ha svelato anche alcuni dettagli interessanti sul momento del divorzio con Konami, rivelando di aver pensato di compiere un viaggio di un anno su un’isola deserta, per ripulire la mente da tutto ciò che stava accadendo. Un suo amico di Hollywood non meglio precisato, però, lo mise in guardia, raccomandandogli di non farlo, perché doveva continuare ad esprimere al giusto ritmo il suo talento. “Sentire queste cose mi ha confermato che il mio ruolo nel mondo è continuare a fare grandi giochi più a lungo che posso” ha dichiarato Kojima. “Questa è la missione che è stata data alla mia vita.”

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