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Starfield | Recensione - Dove osano gli umani

Starfield è un concentrato di quella definizione di videogioco che ha sempre contraddistinto Bethesda: vediamolo nella nostra recensione.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

In sintesi

  • Un gioco semplicemente (troppo) enorme, in cui passerete ore, ore e ore
  • Bethesda ha sempre sottolineato di non voler fare uno Skyrim nello spazio, ma proprio quella è la parte migliore di Starfield
  • Esplorare lo spazio ha fascino ed è interessante, ma i pianeti in cui scorrazzare no

Informazioni sul prodotto

Immagine di Starfield
Starfield
  • Sviluppatore: Bethesda Game Studios
  • Produttore: Bethesda Softworks
  • Distributore: Microsoft
  • Testato su: XSX
  • Piattaforme: PC , XSX
  • Generi: Gioco di Ruolo , Action Adventure
  • Data di uscita: 6 settembre 2023

C’è una sorta di matrioska, a contenere l’anima di Starfield. Mi viene in mente Michiko Aoyama, che leggevo in questi giorni e che scrive «probabilmente, gli uomini dell’antichità, guardando gli uccelli, avevano desiderato di volare nel cielo. Immagino che a un certo punto abbiano capito che, per quanto si fossero evoluti, non gli sarebbero mai spuntate le ali. Forse era per questo che avevano costruito gli aerei».

Probabilmente è per lo stesso motivo che, in fondo, abbiamo iniziato a cercare di conquistare lo spazio, di scoprire quantomeno cosa si nascondesse dietro il cielo: complice lo slancio tecnologico dettato dalla Guerra Fredda, la fascinazione degli umani per quell’universo inconoscibile che ci circonda, troppo grande per essere compreso, è andata a braccetto con l’ambizione. Dove possiamo arrivare, lavorando insieme per scoprire cosa c’è al di là della Terra?

Se guardiamo puramente alla pancia, all’ambizione, alla voglia di sperimentare e scoprire, sono le stesse leve che hanno mosso anche la nascita di Starfield.

In una industria che ha sposato e abbracciato con vigore la reiterazione, il team del Maryland guidato da Todd Howard ha deciso di provare a realizzare una nuova fantasia, un’idea che a quanto pare gli circolava in testa da venticinque anni, come un chiodo fisso, una sfida impossibile a se stessi e ai propri talenti: e se tutto quello che conosci di The Elder Scrolls e Fallout fosse portato su una scala… spaziale?

È un’idea folle, come pensare di costruire un razzo, infilarci delle persone e spedirle nello spazio per vedere cosa succede. Bethesda nel razzo ha infilato il suo know-how, le geometrie delle sue IP più famose, e ha lavorato per farle atterrare su un pianeta nuovo ma allo stesso tempo – forse fin troppo – familiare

Se non avessimo quell’ambizione di scoprire, di rischiare, di tentare qualcosa che sembra impossibile, dopotutto, saremmo forse gli esseri viventi più dimenticabili dell’universo. E questa è una definizione che, nel bene e nel male, mal si adatterebbe agli esseri umani, sempre in cerca di nuove mete, di scorciatoie che portino lontano dalla caducità. 

Gli umani, quelli che possono dormire accoccolati tra The Elder Scrolls e Fallout. E che invece si guardano in faccia e si dicono «… e se facessimo una cosa come Starfield.

Sentirsi a casa

Ho speso un numero di ore al di là del dignitoso, sulle saghe più famose di Bethesda Game Studios. Per questo, nell’introduzione accennavo a un dolceamaro senso di estrema familiarità.

Fin dal suo primo momento, Starfield accoglie i giocatori nella creazione del personaggio: il proprio alter ego avrà un suo background, l’editor dà abbastanza soddisfazioni (la prima ora l’ho trascorsa lì dentro, sì) e potete scegliere diversi tratti che, a una prima run, sono quasi spiazzanti, perché sottintendono una conoscenza della lore del gioco che non potete ancora avere.

Una volta completato il personaggio e liberati dalla missione introduttiva, storicamente lineare e guidata per forza di cose, l’universo è fin da subito ai vostri piedi. Avete una nave spaziale, avete delle linee guida e delle missioni principali da seguire solo se e quando lo vorrete – e il resto sta a voi.

Dove andrai? Chi sarai? Sono le due domande su cui si costruiscono tutti i titoli di successo di Bethesda Game Studios e Starfield non fa eccezione, estendendo questa portata non a un mondo di gioco come Morrowind, Cyrodill, Skyrim o la Zona Contaminata della Capitale, ma… all’universo. 

E questo, lo vedremo, significa tante cose belle, ma anche tante cose che sorprendono in negativo, sbandierate in modo reiterato per pure necessità di marketing, più che per il loro (trascurabile) valore ludico. 

Il solco tracciato di Starfield

Come i suoi illustri antenati, Starfield vi permette di muovervi tra missioni principali della campagna, missioni secondarie (fazioni incluse), piccoli incarichi saltuari ed esplorazione libera.

Partendo dal primo punto, vi segnaliamo che vedrete l’epilogo della storia in un tempo compreso tra le trenta e le trentacinque ore, e che siamo rimasti piacevolmente colpiti dal miglioramento avuto da Bethesda nella scrittura.

La campagna è un tour guidato nel meglio che l'universo di Starfield ha da offrire.
Sebbene la vicenda di Starfield, che prende piede dal ritrovamento di un manufatto dai poteri misteriosi, abbia in realtà un’evoluzione piuttosto scolastica e priva di grandi guizzi – e, personalmente, non mi ha colpito in particolare la direzione scelta dal team per far combaciare tutti i punti – è innegabile che questa risulti coinvolgente e sia capace di ispirare più di una riflessione (soprattutto rispetto ai vecchi lavori del team), anche con una certa forza metanarrativa che non esploreremo oltre, in questa sede.

I comprimari che affiancano il protagonista sono riconoscibili e coerenti, vi accompagneranno di tanto in tanto in missioni costruite in modo intelligente, a volte costrittive nel dirottarvi su un approccio armi alla mano, ma che vi portano a braccetto negli scenari più affascinanti e meglio progettati di tutto l’universo di Starfield.

Affrontare la campagna diventa, così, non solo un modo di far crescere il proprio personaggio, ma anche una sorta di tour guidato lungo il meglio che l’universo ha da offrire, con città capaci di variare così tanto tra loro nelle atmosfere (per quanto poche) da farvi sembrare di essere passati in uno schiocco di dita dal mood di Mass Effect a quello di Cyberpunk 2077 o Stray.

La campagna presenta anche alcune opzioni di scelta multipla che ricordano un po’ le biforcazioni viste in Skyrim (ricorderete la scelta tra Imperiali e Nord, ad esempio) o in alcuni momenti pivotali della saga Fallout, nel pieno dello stile Bethesda. Qualsiasi sia la decisione presa, si giunge comunque a un epilogo unico.

Per quanto riguarda le altre attività più guidate, si segnala con piacere che alcune secondarie, lato design, sono strutturate anche meglio delle principali, con peraltro personaggi sfaccettati e un tuffo nella lore, anche politica, dell’universo di Starfield.

Anche le secondarie generiche offrono, di tanto in tanto, spunti interessanti, mentre le attività minime (quest rapide in cui recuperare oggetti, riferire messaggi) aggiungono più che altro carne al fuoco, senza infamia né lode.

Nel complesso, Starfield ne emerge come un universo strapieno di cose da fare, da scoprire, di personaggi con cui intrattenersi: ci giocherete per ore, ore e ancora ore, perché avrà ancora tanto da darvi – e dopo una cinquantina di ore avrete a malapena scalfito la superficie ed esplorato le aree principali delle città in cui la campagna vi ha guidato.

È il suo maggior pregio: come le migliori produzioni di Bethesda, il suo universo ha un richiamo tutto suo che continua a farvi tornare, e magari una missione che sembrava chiedervi di consegnare un messaggio si trasformerà in un intrigo interplanetario. In questo, Starfield è davvero magnetico – ed è quello che facevano già molto bene i suoi antenati illustri.

Fa sorridere, pensando quanto Bethesda abbia sottolineato di non stare realizzando uno Skyrim nello spazio, perché quello che Starfield fa davvero bene è proprio quello in cui The Elder Scrolls V era stato maestro: tenervi incollati in ogni piega del suo mondo.

Ciò che invece il gioco prova ad aggiungere di unico – la grande esplorazione spaziale, libera – è invece il punto peggiore di tutta la produzione, così assurdamente dimenticabile da lasciare sgomenti.

Tanti pianeti da esplorare, se trovi la voglia di farlo

Una volta a bordo della vostra nave spaziale – potenziabile, personalizzabile, vendibile o da tenere allo spazioporto, casomai ne compraste (rubaste?) una più veloce e meglio armata – potrete effettivamente decidere di atterrare su tutti i pianeti che abbiano condizioni minime per ospitare un essere vivente. Non aspettatevi, ad esempio, di atterrare su giganti gassosi, ma potrete scorrazzare su un pianeta roccioso dove la temperatura sta serenamente sopra i 700°.

L'esplorazione libera dei pianeti è il punto più debole della produzione: manca di stimoli e quasi tradisce l'ambizione del gioco, rendendo la possibilità di atterrare qua e là semplicemente non interessante, perché la traversata non ha niente di ludico e offre troppo poco.
In questo caso, potete selezionare dalla mappa il punto in cui volete atterrare e, fin da subito, il gioco vi dirà che tipo di location andrà a creare (con uso del procedurale): crateri, colline, piane, montagne, deserto e così via. Spostando il cursore sul pianeta si possono notare tipologie di mappe diverse, contraddistinte tutte da una caratteristica comune: la mancanza assoluta di stimoli.

Una volta atterrati in un pianeta che state esplorando per pura curiosità, chi ha giocato a No Man's Sky noterà dei vaghi richiami: potrete scansionare la vegetazione (se ce n’è) o la fauna (se c’è, ostile o accogliente che sia). Potrebbero esserci scontri con belve aliene più o meno feroci, potrete raccogliere minerali utili per il crafting e, se le condizioni lo consentono, costruire un avamposto un po’ come visto in Fallout.

Sicuramente, gli avamposti faranno sbizzarrire i più creativi, ma una volta che ne avrete costruiti magari una decina, risulta francamente improbabile pensare che continuerete a girare i pianeti per piazzarne uno ovunque, soprattutto perché quegli stessi pianeti sono popolati dal nulla cosmico.

Al di là delle scansioni e degli avamposti, infatti, nei pianeti si possono raggiungere dei punti di interesse segnalati da un apposito scanner. Il punto è che questi sono spesso lontanissimi dal giocatore e non ci sono mezzi per accelerare la traversata (se così vogliamo chiamarla), che nell’epoca dello spazio profondo raggiungibile in men che non si dica si fa invece coi piedini. Lo scatto del personaggio dipende da quanto avete sviluppato la sua resistenza e anche il jetpack è solo un alleato dalla gittata ridotta.

Il risultato è che mi è capitato di camminare per una decina di minuti, incontrando nel percorso solo piante da scansionare e minerali da raccogliere, tenendo premuto sempre il tasto Su e nient’altro. Questo, per arrivare a un punto di interesse che si è rivelato essere un cratere sotterraneo completamente vuoto, esclusi dei minerali che avevo già trovato anche in superficie. Difficile pensare di definire tutto questo un'esperienza di "traversata".

Manca, di fatto, una vera ludicizzazione di questi percorsi, che si accontentano di fare un compitino per sbandierare numeri legati alla mera quantità, condendo ogni tanto le cose con l'ennesimo avamposto abbandonato praticamente identico a quello che avete già liberato numerose volte in altri pianeti già esplorati.

Una volta che avrete esplorato qualche decina di pianeti (o di aree ubicate in quei pianeti, per così dire) è davvero difficile pensare che riteniate essere questa, col suo senso di scoperta prossimo allo zero e la stanchezza che non tarda a farsi sentire, la parte migliore di Starfield

La sensazione che la quantità abbia soverchiato la qualità, in questo caso, è accecante: esplorare i pianeti non è coinvolgente – non quando ne avrete già gironzolato una trentina e avete trovato l’ennesima fabbrica di robotica abbandonata che sembra identica a tutte le altre, o quando il punto di interesse è di nuovo a un chilometro e mezzo da voi, ragion per cui dovete lucidarvi gli stivali spaziali e partire, sperando magari che ci sia bassa gravità, così i salti vi fanno accorciare le distanze più facilmente.

Le lunghe distanze nelle missioni principali sono mitigate dalle presenza di un viaggio rapido, anche interplanetario, salvifico per i ritmi di gioco, per quanto renda le cose frammentarie. Nell’esplorazione libera, però, come in TES o Fallout non potete trasportarvi presso punti di interesse ancora non raggiunti o non noti: passerete tanto tempo a camminare a vuoto (in pianeti altrettanto vuoti) e quello è francamente, tempo perso, che non gratifica e non tiene sulle spine. 

Un vero peccato, perché con questo concept di gioco – la suggestione di esplorare l’universo – era anche difficile fare diversamente, ed è l’idea stessa che presta il fianco alla debolezza: l'assenza di qualsivoglia mezzo che migliori la traversata, quasi tragicomica da un punto di vista intradiegetico, avrebbe probabilmente reso ancora più evidente che parliamo più di fazzoletti di terra, di open map, che di open world, al di là delle probabili complicazioni che avrebbe portato per via delle diverse condizioni di gravità dei pianeti.

La risposta a queste complicazioni, però, non può essere bypassare pigramente il problema in sede di design e decidere che questa fosse una ludicizzazione sensata nel lunghissimo corso del gioco, perché depotenzia, ripetizione dopo ripetizione, il senso di entusiasmo che l'esplorazione nei titoli Bethesda ha sempre trasmesso.

Piccola eccezione è rappresentata dai saltuari atterraggi di altre navi sul pianeta in cui state scorrazzando, che potrebbero portare persone che hanno bisogno di aiuto o pirati noti come spazianti, pronti a provare a farvi la pelle. In un caso, sono riuscita ad avere la meglio e perfino a rubare la loro nave, vendendola poi per denaro e tornando a bordo della mia. 

La mia nave, la mia casa

Per spostarsi da un pianeta all’altro, come dicevamo, ci si accomoda sulla propria nave, dotata di armi e capacità che potrete modificare a vostre discrezione nei diversi spazioporti. Potrete anche reclutare dei membri dell’equipaggio che ne miglioreranno determinate caratteristiche, anche se il sistema rimane un po' fumoso da decifrare – caratteristica comune ad alcuni aspetti di Starfield, a volte sbrigativo nel gettare novità nel suo immenso calderone.

La nave, ovviamente, vi accompagnerà nelle tratte tra i vari pianeti: potrete anche saltarle col viaggio rapido e fare tutto dalla mappa, ma dovrete rimanere nel cockpit di comando quando le autorità di un pianeta verificheranno che non stiate importando contrabbando, o quando avrete appena eseguito un salto gravitazionale verso un sistema lontano anni luce dal precedente.

Durante queste scorribande vi capiterà di imbattervi in navi alleate che vi chiedono aiuto, o in navi nemiche che tenteranno di attaccarvi e con cui dovrete scontrarvi. Le battaglie spaziali sono così così, perché l’interfaccia in soggettiva è abbastanza confusa e densa di informazioni, ma sono una variazione gradevole per chi ha questo debole dai tempi di Space Invaders.

Potrete anche attaccare delle navi con atti pirateschi per saccheggiarle, o approdare su basi orbitanti per esplorarle. Anche qui, come sempre accade nei giochi Bethesda, siete voi a decidere la strada e voi a scegliere se essere eroi o canaglie

La guida della nave, piuttosto limitata, rimane comunque una piacevole variazione sul tema, se presa a piccolissime dosi: difficile immaginare, però, di trascorrere decine di ore seduti sul cockpit, nella speranza di sparuti incontri.

Giocare a Starfield

Fatto il punto sullo scheletro del gioco, l’esperienza controller alla mano restituisce quel senso di enorme familiarità a cui facevo cenno in apertura. Si scorrazza per gli scenari, si chiacchiera con gli NPC, si raccolgono risorse, si sta attenti a non superare il peso di trasporto massimo (in questo caso ci si può ancora muovere a velocità normale, ma si esaurisce il vigore, e non si può usare il viaggio rapido), ci si sente a casa.

Controller alla mano, semplicemente, ci si sente a casa.
I ritmi di gioco si alternano così tra fasi di chiacchiera ed esplorazione, magari gironzolando per i tanti negozi di un centro come Nuova Atlantide, e quelle di esplorazione e combattimento, con i dungeon di Skyrim che sono rimpiazzati soprattutto da scenari scientifico-industriali o militari, che sembrano più vicini a quelli di Fallout – atmosfera anni ‘50 di quest’ultimo a parte.

Gli scontri sono ben bilanciati, gli armamentari si alternano spesso e i nemici si comportano più o meno con intelligenza, almeno rispetto ai giochi Bethesda precedenti: durante gli scontri a fuoco cercano riparo e, quando siete voi a provare a nascondervi, proveranno a stanarvi con delle granate. Il feeling delle sparatorie ricorda quello di Fallout (ma senza il V.A.T.S. e quindi più veloce) e gli scontri funzionano – per fortuna – come quelli di un gioco di ruolo, non di uno shoooter: i nemici hanno i loro punti salute da svuotare e non crolleranno finché non arriveranno a 0, nemmeno con un headshot.

A difficoltà normale il gioco si fa apprezzare senza sbilanciamenti – se non nelle battaglie navali, dove è complicato avere la meglio su più nemici, anche quando la propria nave è superiore.

Come sempre, potrete trovare la vostra via personalizzando le specialità del personaggio: che siate maestri dell’oratoria, furtivi come ladri, forti come tori o abili nella creazione di migliorie per armi e tute spaziali, starà a voi deciderlo – e questo può facilitare o complicare alcuni approcci, come accadeva nei giochi precedenti del team. Per capirci, se non siete fini oratori, difficile che riusciate a convincere qualcuno a darvi un oggetto che vi serve per una missione, e sarete costretti a sfoderare le armi.

Proprio in merito alle migliorie, il sistema dei banchi da lavoro è parso bilanciato in modo un po’ acerbo: fin dai primi momenti del gioco è possibile ottenere loot epico o leggendario dai nemici, il che depotenzia notevolmente gli stimoli a creare la propria arma perfetta nei banchi appositi, spendendo risorse che potreste dirottare su altro.

Inoltre, segnalo che non ho mai avuto bisogno di cambiare la tuta rispetto alla prima (Leggendaria) che ho trovato già nel prologo su Kreet, per completare il gioco senza difficoltà alcuna. Da capire se lo spawn di questi equipaggiamenti sarà rivisto con future patch.

La grande contraddizione di Starfield

Più trascorrevo le mie ore in Starfield, più mi rendevo conto di essere spezzata a metà. Quello che il gioco fa meglio è ereditare le caratteristiche di The Elder Scrolls e Fallout per declinarle non in un mondo, ma in un universo tutto nuovo, futuristico, pieno di suggestioni. 

Quello che fa peggio è quello che ha sempre sbandierato: farvi girare liberamente pianeti di cui non vi fregherà più nulla dopo le prime dieci ore, perché è difficile immaginare qualcuno che, arrivato in un nuovo sistema, si dica «perfetto, ora mi giro tutte le regioni di tutti i suoi sette pianeti e delle loro lune!» – visto che qui la gratificazione è irrisoria, il level design inesistente e il loop esplorativo è di una povertà sconcertante.

A questo si affianca un’altra contraddizione: Starfield si gioca e si vive come un gioco del 2011. Come Skyrim, appunto. L’esperienza è familiare anche nella sua accezione negativa, perché è rigida e la sospensione dell’incredulità è ancora sorretta dalla carta velina, come storicamente accade nelle produzioni Bethesda.

In un’industria videoludica dove i giochi di ruolo sono diventati sempre più coinvolgenti e capaci di adattarsi in modo quasi liquido, intorno al giocatore, Starfield fa alla vecchia maniera. Se un NPC vi aggredisce in un bar e gli sparate, gli altri torneranno a sedersi lì dieci secondi dopo comportandosi come se niente fosse accaduto e non accennando alla cosa, con il cadavere ancora per terra.

Curiosamente, Starfield è proiettato nel futuro con ogni sua fibra, ma ancorato al passato in modo irrazionale.
Provate a salvare un personaggio da morte certa su un pianeta, scortatelo al sicuro, finite la missione: subito dopo, interagite con lui e vi dirà cose come «levati dai piedi, prima di farti male!».

Questi dettagli legati al coinvolgimento sono rimasti ai tempi di Skyrim – il che è quasi grottesco, perché invece il giocatore sentiva di avere un impatto tangibile nel precedente Oblivion. Una cura per il dettaglio che Bethesda ha perso per strada e che non ha più recuperato, nemmeno qui, prevedendo reazioni contestuali solo laddove vengano innescate da missioni di storia o da quelle delle fazioni.

Sono esempi di rigidità che fanno sorridere, ma che riportano sempre a galla come davanti agli occhi abbiate un videogioco, una messa in scena, e che rompono il cerchio magico

Peccato, perché Skyrim è uscito ormai quasi dodici anni fa ed era lecito aspettarsi più cura per questo aspetto legato al coinvolgimento – che è stato curato perfino in titoli che gioco di ruolo lo sono per ibridazione e, certo, meno popolosi, come ad esempio Horizon Forbidden West

Questa vecchiaia intrinseca, che rende di fatto Starfield un gioco più simile a quelli di qualche tempo fa, è evidente anche in diverse altre scelte: il viaggio rapido onnipresente che, superata la schermata di caricamento (che ci sono, con buona pace della next-gen e dei suoi SSD), trasporta davanti alla porta della destinazione e non nella destinazione, costringendo a un altro caricamento una volta aperta la porta, ad esempio, rendendo le scorrazzate frammentate.

La stessa costruzione di alcuni scenari come Nuova Atlantide per compartimenti stagni richiama questo approccio al videogioco, evidenziando una Bethesda che ha scelto di rimanere ancorata a se stessa in tutto il bello e in tutto il brutto.

Non si tratta di ingenuità macroscopiche, ma di dettagli di design che, se curati nel modo opportuno, avrebbero portato Starfield – è proprio il caso di dirlo – sensibilmente più in alto, perché il 2011 è passato da un pezzo e sarebbe stato lecito aspettarsi che se ne accorgesse anche Bethesda.

Ci si trova così davanti a un videogioco proiettato nel futuro con ogni sua fibra, ma ancorato al passato in modo quasi irrazionale. Lo è anche nella gestione dei dialoghi, statici con i personaggi piantati, immobili, esattamente come in Skyrim o come nel proprio per questo irriso Horizon Zero Dawn. E lo è nel comparto tecnico, che vedremo a breve.

Un altro aspetto grigio dell’esperienza di Starfield è quello della sua mappa e della UI che la riguarda. Con un universo di gioco così grande, Bethesda ha optato per una mappa costruita su quattro livelli: superficie, pianeta, sistema e galassie.

La mappatura dei controlli per passare dall’una all’altra è però terribilmente poco funzionale e, se dopo qualche tempo ci si abitua più o meno al voler uscire dal menù e trovarsi per sbaglio a passare da un tipo di mappa all’altro perché il tutto si fa con lo stesso tasto, la gestione della mappa di superficie è invece inaccettabile.

La direzione artistica ci ha sorpreso in positivo per la grande personalità.
Immaginate di essere nella (grande) città di Nuova Atlantide e aver bisogno dell’armeria: vi auguriamo di ricordare in che punto e in che quartiere si trova, perché la mappa non segnala i punti di interesse già scoperti in una città, solo i suoi macro quartieri (e non sempre fedelmente, ma si tratta di piccoli bug che saranno di sicuro corretti).

L’ingenuità di design può raggiungere dimensioni macroscopiche quando vi capiterà di aver trovato una città e non sapere più in che galassia, in che sistema e in che pianeta fosse, perché non c’è una lista o qualcosa di simile che permetta di richiamarle. 

E con un universo a vostra disposizione e solo delle icone che di tanto in tanto sono pure piazzate sul sistema sbagliato, a indicare la presenza di una città, ci si trova più confusi che altro.

La UI è capricciosa anche per quanto riguarda le missioni, dal momento che non sono suddivise per area, ma parte di liste a seconda della tipologia: principali, fazioni, varie, attività e così via. Atterrare nella città di Neon e aprire le missioni per scoprire cosa avete da fare qui semplicemente non è possibile: dovete passare in rassegna la lista delle quest, premere “mostra sulla mappa” e verificare la location del singolo incarico. 

Un’ingenuità che mi chiedo come non sia stata segnalata, per la sua scomodità, in sede di QA – e che diventa macroscopica con le piccole attività, radunate in una lista-calderone con indicazioni generiche come “parla all’uomo accanto all’albero”, in cui dovete davvero cliccare su ogni singola missione per verificare dove si svolga, per poi avere a che fare con i controlli legnosi della mappa.

Ecco che così Starfield si divide tra il risultare testardamente vecchio in alcuni aspetti e assurdamente acerbo in altri, come se Bethesda avesse orchestrato i menù dicendosi «per ora li mettiamo così, poi li sistemiamo», e poi non li avesse sistemati affatto. Peccato, perché altri aspetti della UI (e quindi della user experience, di riflesso), come l'interfaccia dell'orologio chronomark del protagonista per scoprire le caratteristiche dei pianeti, sono invece affascinanti, coinvolgenti e ben realizzati, evidenziando così anche qui un'anima spezzata a metà, tra quello che risulta ispirato e quello che sembra messo insieme con il nastro adesivo e che quasi mette i bastoni tra le ruote del giocatore – che si trova a vivere la sua avventura non aiutato dalla UI, ma nonostante essa.

Anche in questo caso, non parliamo di difetti compromettenti, ma di ingenuità che, messe una sull’altra in un’avventura che ha il potenziale per coinvolgere per centinaia di ore, stridono rispetto alle ambizioni dell’opera. E, con l’esperienza di Bethesda Game Studios, non era per nulla lecito aspettarsi dei nei da gemma grezza.

Ma, in tutto questo, come gira?

Il design dei personaggi, dei vestiari, delle città, delle armi, delle strutture: la direzione artistica di Starfield trasuda eccellenza da ogni elemento. La personalità del gioco è magnetica e riconoscibile e, in questo, Bethesda ha fatto un lavoro di livello assoluto, riuscendo anche a distinguere gli stili delle diverse città, dei marchi di armi, delle correnti di moda.

Dal punto di vista puramente tecnico, parliamo del gioco più pulito, in termini di bug e glitch, che ricordi per un lancio firmato Bethesda – che, con i suoi mondi enormi, è tristemente nota per qualche difetto di troppo.

Ci sono piccoli problemi, piccolezze rispetto alla portata del gioco, e nel mio caso purtroppo segnalo di essere incappata in due bug irreversibili: se il primo mi ha costretta a ripetere da zero una missione ricaricando il salvataggio precedente (il gioco salva da solo di continuo), il secondo invece è avvenuto durante un confronto cruciale per l’epilogo, costringendomi a rifarlo dall’inizio e distruggendo il pathos del momento.

Durante le fasi di recensione, Bethesda ha già pubblicato una prima patch correttiva per risolvere alcuni inconvenienti: da allora, non ho riscontrato altri bug davvero significativi nella mia avventura.

In merito alle performance pure, è evidente come il gioco non potesse ambire ai 60 fps in alcun modo. I 30 fps su Xbox Series X hanno dei drop saltuari negli ambienti affollati o nelle sparatorie particolarmente popolose, ma l’esperienza rimane perfettamente godibile – con singhiozzi solo sporadici e rari, nelle ore trascorse nel gioco fino a qui.

Anche su Xbox Series S il frame rate è più o meno stabile se non nei casi citati, anche se in questo caso abbiamo registrato qualche chiusura improvvisa del gioco, con un vero e proprio crash, che non è mai capitata su Series X.

Non ci sono modalità grafiche e, sul fronte dei dettagli, si va da scorci piacevoli (soprattutto al buio, per l’illuminazione, magari su pianeti craterici) ad altri che stupiscono per la loro povertà. Svariati pianeti sono popolati da una texture di vegetazione spalmata per lungo qua e là, per caratterizzare il terreno, e da sparuti cespugli, che restituiscono un modo di riempire le mappe a sua volta invecchiato non benissimo e che di tanto in tanto rimanda a una generazione fa.

Il discorso è valido per gli esterni – anche in una città come Nuova Atlantide, dove la realizzazione della vegetazione causa qualche alzata di sopracciglia – mentre gli interni sorprendono per bellezza dei dettagli, delle luci e della modellazione. 

Anche qui, insomma, con l’estensione delle mappe viene meno la possibilità di renderle dense e dettagliate come si potrebbe – anche se, in questa generazione, ho visto giochi cross-gen caratterizzare esterni in modo rigoglioso e lussureggiante, in aree ben più popolate e dense dei pianeti desolati in cui capita di incappare nell’esplorazione libera di Starfield.

Anche per quanto riguarda i personaggi in sé, non parliamo di una eccellenza: non aspettatevi le occhiate degli NPC di Cyberpunk 2077 che, nei dialoghi, bucavano lo schermo, nemmeno per i personaggi principali. I modelli sono gradevoli, animati con quella rigidità di fondo che permea tutta la produzione, e assolvono al loro scopo rappresentando comunque un miglioramento rispetto alle vecchie produzioni del team del Maryland.

Ma il comparto tecnico non vuole essere il fiore all’occhiello di Starfield e, come sapete, per le nostre valutazioni lascia il tempo che trova, fino a quando non ci sono performance che compromettono l’esperienza: non è questo il caso, poiché Starfield rimane godibile, anche con qualche singhiozzo qua e là, ed è solo un peccato non vedere la console più potente sul mercato venire messa alla prova con pianeti esplorabili ben più ricchi di così, anche nel colpo d’occhio.

Sulle performance facciamo una nota a margine per ASUS ROG Ally, dove abbiamo provato a far girare il gioco: dopo la pubblicazione di un apposito driver, è possibile giocare con serenità anche a 1080p. Su Steam Deck, al momento le performance sono più sacrificate (ma rimangono da bilanciare anche su PC, come evidenziato nell'analisi del nostro sito gemello) e, con un livello di dettaglio tra basso e medio, è molto faticoso tenere i 30 fps a 720p. Su un display così piccolo, però, i sacrifici sono un po' più accettabili, a patto di tenere alti i valori di nitidezza e di scaling di renderizzazione.

Buono il lavoro svolto sulla colonna sonora, capace di muoversi tra il contemplativo e lo sci-fi, mentre è ottimo il doppiaggio, solo in inglese. Spiace per la mancanza delle voci italiane à la Skyrim, ma artisti come Elias Toufexis ed Emily O’Brien si prendono la scena, dando ai loro personaggi quella profondità in più che li rende umani a trecentosessanta gradi.

In compenso, la localizzazione italiana dei testi è perfetta e non abbiamo riscontrato nemmeno un refuso o un dialogo tradotto in modo opinabile: anche chi non mastica l’inglese potrà sentirsi a casa.

Nota: questo articolo è stato pubblicato come recensione in corso il 31 agosto. Ci siamo presi più tempo rispetto alla scadenza dell'embargo per soppesare in modo definitivo punti di forza e debolezze della produzione, assegnando infine una valutazione. La recensione è stata ampliata e aggiornata il 12 settembre e non sarà più modificata.

Voto Recensione di Starfield | Recensione


8.4

Voto Finale

Il Verdetto di SpazioGames

Pro

  • Ci passerete ore e ore, assorbiti dal suo universo

  • Direzione artistica top

  • Alcune secondarie sono anche più belle, per struttura, delle principali

  • Scrittura molto migliorata rispetto al passato

  • Doppiaggio inglese ottimo, traduzione italiana perfetta

Contro

  • Per assurdo, quello che fa meglio è quello che eredita da Skyrim

  • È intrinsecamente vecchio in molteplici aspetti

  • L’esplorazione libera dei pianeti è fatta di camminate impresentabili, dove la quantità ha vinto sulle qualità

  • UI della mappa frustrante

Commento

Gli umani sognano di fare le cose in grande e Starfield è indubbiamente una cosa fatta in grande – e bene, per la maggior parte dei suoi aspetti. L’ambizioso sogno interstellare di Bethesda Game Studios si è trasformato in realtà in tutto quello che era ludicizzabile: non ci sono dubbi che ci passerete un’infinità di ore, e appena spenta la vostra Xbox vi accorgerete subito di volerci tornare per vivere nuove avventure.
A questo, il gioco affianca però dei difetti accecanti che non sono nemmeno figli dei tempi di sviluppo e non sarebbero cambiati con dei rinvii, se non per gli sporadici problemi tecnici segnalati – davvero pochi, per una produzione Bethesda di questa portata. La sua struttura rigida, le reazioni del mondo di gioco ferme al 2011, animazioni di mezza età e soprattutto una esplorazione libera dei pianeti che è più uno slogan di marketing che un aspetto ludico godibile fanno parzialmente da contrappeso alla seducente bellezza del resto, rendendo Starfield un gioco molto perfettibile e irresistibile insieme, pieno di spigoli non smussati e non più smussabili. 
Starfield è, allora, un po’ la summa delle nostre ambizioni: il provarci anche se sembra impossibile, il comprendere che certe cose non possono esistere finché non provi tu a dargli vita. La creatura di Todd Howard e compagni ne emerge come un neonato che somiglia ai suoi nonni più che a chiunque altro, intriso di peccati originali ma a cui non si può resistere. Sarà proprio per quell’assurdo senso di familiarità. Sarà che in fin dei conti dell’esplorazione dei pianeti chi se ne frega, con tutto il resto della carne che c’è sul fuoco. Sarà che lo sappiamo tutti, che per scalare una montagna un piede in fallo da qualche parte va a finire che lo metti. Ti prendi una storta, imprechi contro te stesso per averlo voluto fare, ma alla fine arrivi alla vetta e pensi che, va bene, non sarà nemmeno lontanamente perfetto – ma che viaggio è stato? 
E anche Starfield è così.
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