Kathryn Bigelow è nata nel 1951, ed è cresciuta all’ombra della minaccia atomica e delle misure di sopravvivenza che le insegnavano come nascondersi sotto i banchi di scuola. Una minaccia percepita costantemente non solo come possibile, ma come probabile e imminente. Uno scenario non diverso da quello attuale in cui la miccia del nucleare potrebbe porre fine alla nostra civiltà in una manciata di minuti.
Not If. When. - recita la tagline di A House of Dynamite, film diretto e anche prodotto dalla stessa regista e presentato in concorso nell’82ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. E nella sintesi di una frase di lancio c’è già tutto ciò che non solo è importante e da conoscere, ma urgente.
Oggi diverse nazioni possiedono armi nucleari sufficienti per una soluzione finale della civiltà tutta, eppure il mondo -noi, tutti - rimaniamo immobili come se la questione non ci riguardasse o fosse talmente remota da non comprenderci. Non si tratta di una misura preventiva o di una strategia di difesa, ma di una casa fatta di dinamite pronta a esplodere.
In A House of Dynamite, Kathryn Bigelow osserva e illustra il paradosso di un mondo che silenziosamente - se non tollera - comunque comprende la prospettiva dell’annientamento, e lo fa imponendoci un time lock (o time-bomb) che se in sceneggiatura è un effetto di tensione e accelerazione drammatica “innescata” da una scadenza, nel tempo reale del film corrisponde ai 19 minuti in cui un missile nucleare rischia di eliminare più di 10 milioni di persone.
Nella base militare di Fort Greely, in Alaska, i radar rilevano un missile nucleare lanciato in un punto non meglio specificato del Pacifico che entro 19 minuti si abbatterà sulla città di Chicago eliminando più di 10 milioni di persone.
Il film di Kathryn Bigelow si apre con una delle sequenze non solo più forti e suggestive di quest’edizione del Festival, ma della storia del cinema. La colonna sonora firmata da Volker Bertelmann sostiene il climax tensivo in cui tutti - dalle basi satellitari allo STRATCOM, dal comando strategico nucleare agli uffici del Governo allo Studio Ovale - devono cooperare affinché il Presidente USA possa decidere se ordinare o meno il contro attacco senza sapere chi realmente ci sia dall’altra parte.
Nei primi 40 minuti Kathryn Bigelow ci dà tutta la storia e poi la ripete, una seconda e una terza volta ancora assicurandosi di farci avere gli strumenti per arrivare all’epilogo consapevoli di quella che vorremmo fosse la scelta del Presidente degli Stati Uniti, l’ultimo anello della catena a cui spetterà il compito di decidere se premere o meno quel bottone.
È difficile descrivere l’esperienza di visione nei suoi primi 40 minuti senza riviverne il panico, lo shock, l’attesa febbrile di un dopo che la Bigelow non ci regala e che è il motivo per cui meriterebbe il Leone d’Oro.
Il film si ferma dove inizia la nostra realtà
Con A House of Dynamite la Bigelow ripete un meccanismo narrativo che Christopher Nolan aveva fatto con Dunkirk nel 2017: lo schema tripartito del racconto. Un racconto che inizia sempre dallo stesso punto per intrecciarsi con le traiettorie precedenti e terminare proprio lì dove si era fermato la prima volta. Prima del buio. Prima dell’ignoto, prima di uno scenario che riusciamo solo a immaginare o distanziare per paura che si avveri.
La Bigelow non se ne lava le mani, anzi. L’epilogo del film - a mio avviso travisato nella lettura critica di molti - è tutto fuorché un passo indietro rispetto alla tensione allarmante e terroristica dell’incipit. Oltre il fade out ci siamo noi, la nostra responsabilità, la credibilità che come civiltà stiamo dando a una minaccia imminente e dalla portata devastante, la fiducia che riponiamo in chi dovrà scegliere se premere o meno un bottone scegliendo l’entità del danno da un menù di carne al sangue, media o ben cotta. Siamo una casa piena di dinamite pronta a esplodere all’ultimo rintocco del countdown.
Se in Zero Dark Thirty (2012) Kathryn Bigelow contraddiceva il tabù dell’invisibile mostrandoci l’irruzione quasi in tempo reale della villetta di Abbottabad in cui risiedeva Bin Laden, in A House of Dynamite lascia il “dopo”, la catastrofe nucleare, le conseguenze della scelta del tutto fuori scena e segue con la macchina da presa l’emergenza, i processi decisionali, le reazioni umane di chi quell’emergenza è chiamato a depotenziarla. Perché dentro e dietro la macchina infernale c’è e ci sarà sempre la variabile umana.
Non è un caso, ma una scelta quella di raccontarci i protagonisti di questa macchina con una backstory e una microespressività che ne tradiscono l’umanità: perfino l’uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti interpretato da Idris Elba è raggiunto dalla notizia durante un evento di basket giovanile, sintomo di quanto gli USA si sentano inviolabili al punto da considerare una minaccia tangibile al pari di un’eventualità.
“Colpire un proiettile con un proiettile”
La percentuale di probabilità di intercettare un missile nucleare è solo del 61%, ce lo dice un esperto della Casa Bianca poco prima che il segretario alla difesa divampi al pensiero della quantità ingente di soldi spesi per creare un sistema antibalistico inefficiente.
“Colpire un proiettile con un proiettile” è la sentenza più che visibile e concreta che lo stesso esperto riesce a fornirci mentre siamo seduti in sala, abbracciati stretti alle ginocchia, con interrogativi sempre più specifici e probabilistici.
Attesa o contro attacco nucleare? È questa la domanda che la Bigelow ripete ossessivamente in ogni sezione del racconto. La difesa totale è impossibile, c’è qualcosa che sospeso tra programmi, prevenzione e protocolli continua a sfuggire al controllo e alla previsione.
E la ragione per cui Kathryn Bigelow meriterebbe il Leone d’Oro risiede nel fatto che non ci mostra ciò che sta accadendo, ma l’urgenza con cui dovremmo interrogarci su ciò che potrebbe accadere con molta probabilità da un momento all’altro e per cui non siamo assolutamente pronti.