Attenzione: il seguente articolo contiene un be po' di spoiler su Snake Eater e quindi di conseguenza anche sul remake in uscita. Proseguite a vostro rischio.
C'è un momento, in Metal Gear Solid 3: Snake Eater, che più di ogni altro riassume il gioco nella sua interezza. È il confronto finale con The Boss, nel candore di un campo di fiori bianchi, mentre la musica sale e l’azione rallenta fino a diventare poesia.
È lì, tra i petali che sembrano neve, che Hideo Kojima mostra finalmente la sua idea di guerra: intima, ideologica, sporca. Una guerra dove i simboli contano più dei proiettili e dove l’identità, come quella della stessa saga, si sfilaccia sotto il peso della Storia e delle bugie.
Eppure, a quasi vent’anni dalla sua uscita, Snake Eater è ancora oggetto di venerazione religiosa da parte dei fan. Considerato da molti il vero capolavoro della saga, superiore persino al rivoluzionario secondo capitolo, Metal Gear Solid 3 è diventato il totem di una visione romantica del videogioco come veicolo narrativo puro.
Ma quanto di quella gloria è davvero meritata e quanto invece è frutto di una nostalgia che ha preso il sopravvento sull’analisi critica?
Serpenti da mangiare
Con l’avvicinarsi di Metal Gear Solid Delta: Snake Eater (che trovate su Amazon), remake ufficiale e dichiaratamente "fedele" dell’originale, è giunto il momento di rimettere sul tavolo la domanda: Snake Eater è davvero il miglior Metal Gear mai creato? O è semplicemente il più accessibile, il più cinematografico, il più patriottico, quindi il più facile da idolatrare?
Nel 2004, quando Snake Eater uscì su PlayStation 2, l’industria era in una fase di transizione. I giochi stavano diventando più maturi, ma pochi avevano il coraggio di parlare di politica, ideologia e identità con la stessa intensità con cui lo faceva Kojima.
Dopo il postmoderno Sons of Liberty, il terzo capitolo sembrava un ritorno alla classicità. Niente IA ribelli, niente cospirazioni metafisiche: solo una missione in piena Guerra Fredda, nel cuore della giungla sovietica, con un uomo costretto a scegliere tra il dovere e l’amore, tra la lealtà verso la propria nazione e quella verso la propria mentore.
È questo che ha reso Snake Eater così efficace per un certo tipo di pubblico. Abbandonata la destrutturazione del medium, Kojima si è rifugiato in un racconto più convenzionale, dove l’archetipo dell’eroe tragico viene ricamato con una cura estetica maniacale. Big Boss (o meglio, Naked Snake) è un personaggio più umano rispetto a Solid Snake.
Suda, soffre, si nutre, si cura le ferite e lotta con il peso di una missione che distrugge tutto ciò in cui crede. Ma è anche, paradossalmente, un protagonista più docile, più prevedibile, quasi privo di quella sfumatura di ambiguità che rendeva indimenticabile il clone disilluso dei primi due episodi.
C'è una dolcezza strisciante in Snake Eater, quasi una malinconia. È un gioco che ha paura di osare davvero, pur mascherandosi da rivoluzionario. Il sistema di sopravvivenza, così celebrato, non è mai stato particolarmente profondo. Nutrire Snake o curare le ferite era interessante sulla carta, ma alla lunga diventava una routine più che una meccanica trasformativa.
La giungla, pur affascinante, era divisa in piccoli quadranti, ciascuno prigioniero delle limitazioni hardware dell’epoca. E il tanto acclamato mimetismo? Una trovata brillante, ma raramente necessaria. In molti casi, bastava semplicemente imparare i pattern dei nemici o usare lo stealth più basilare per sopravvivere.
Il vero cuore del gioco non era la sopravvivenza, ma la messa in scena. Snake Eater è un’opera teatrale camuffata da videogioco d’azione. Ogni boss fight è una parabola, un momento di astrazione in cui gameplay e filosofia si fondono.
Ma proprio in questo teatro del surreale, Snake Eater rischia di cadere nella trappola del manierismo: ogni gesto, ogni battuta, ogni scena sembra gridare “guarda quanto sono profondo”, senza mai lasciare davvero spazio all’interpretazione. È un gioco che vuole essere letto come un testo, non vissuto come un’esperienza.
Il Metal Gear che giocò sul sicuro
Il punto è che Snake Eater, per quanto amato, è anche il capitolo meno coraggioso della saga. È quello in cui Kojima si piega (volontariamente o meno) al bisogno di riconciliazione col grande pubblico, dopo la rottura di Sons of Liberty.
È un compromesso, una lettera d’amore all’Occidente, un pastiche di James Bond, Rambo, John le Carré e Kurosawa. Ed è proprio in questa sua volontà di piacere che si consuma la sua grande debolezza. Dove MGS2 sfidava il giocatore a interrogarsi sulla verità e sulla realtà, MGS3 preferisce raccontargli una bella favola triste, con un finale perfetto e una colonna sonora struggente. Lo fa benissimo, ma resta intrappolato nel suo stesso schema narrativo.
Chi lo definisce “il miglior Metal Gear” spesso lo fa perché Snake Eater non mette mai in discussione il giocatore. Non lo mette a disagio, non lo provoca, non lo costringe a uscire dalla propria comfort zone. È un prodotto rifinito, cesellato, confezionato per lasciare un’impronta emotiva duratura – ma mai destabilizzante.
In un certo senso, è il Metal Gear che Kojima avrebbe potuto fare all’inizio, se avesse voluto solo raccontare una grande storia di spie e sacrifici, senza perdersi nei labirinti della metanarrazione.
Ed è qui che si inserisce il remake, Metal Gear Solid Delta: Snake Eater. L’annuncio ha scatenato l’entusiasmo dei nostalgici, e comprensibilmente: la promessa di rigiocare quel classico con grafica moderna e controlli rivisti è allettante (l'ho provato con le mie mani, quindi lo dico con cognizione di causa).
Ma c’è un rischio, ed è quello di perpetuare un culto senza più spirito critico. Se Delta sarà un rifacimento visivamente sontuoso ma identico sotto il profilo strutturale, allora il remake diventerà solo un monumento di cera, incapace di dare nuova vita a un’opera già perfetta nei suoi limiti.
La verità è che non abbiamo bisogno di un altro Snake Eater perfettamente ricostruito. Abbiamo bisogno di sapere perché oggi, nel 2025, dovremmo ancora interessarci alla storia di Naked Snake.
Perché i suoi dubbi morali, i suoi tradimenti, la sua trasformazione in Big Boss dovrebbero ancora dirci qualcosa in un’epoca di cinismo videoludico e narrazioni sempre più generiche.
Alla fine dei conti, Metal Gear Solid 3: Snake Eater è un gioco meraviglioso, ma non per le ragioni che molti credono. Non è il migliore, né il più innovativo. Ma è il più umano.
È l’unico capitolo della saga che rinuncia all’ambizione di riscrivere le regole del medium per concentrarsi sul cuore pulsante del dramma. E forse è proprio per questo che continua a commuovere. Ma non scambiamo l’emozione per perfezione. E non confondiamo la nostalgia per valore oggettivo.
Nel campo di fiori dove tutto finisce, Snake Eater ci dice addio con una lacrima. Il problema è che, se non impariamo a guardarlo con occhi nuovi, rischiamo di rimanere intrappolati nel ricordo, mentre il futuro del videogioco ci sfugge tra le dita.