C’è una data che, per molti appassionati, non è solo un punto nel calendario, ma un vero spartiacque: il 22 settembre 2011. È il giorno in cui Dark Souls, l’action RPG di FromSoftware, approdava sugli scaffali in Giappone, pronto a cambiare per sempre il rapporto tra gioco, sfida e comunità.
Oggi, 22 settembre 2025, sono passati quattordici anni da allora: un’eternità, se pensiamo a un settore che consuma mode e blockbuster in pochi mesi, eppure un battito di ciglia per chi ancora sente il brivido dell’esplorazione di Lordran.
Ripensare a quel momento significa rivivere un’epoca in cui il videogioco mainstream iniziava a imboccare la strada dell’accessibilità totale. Tutorial invasivi, percorsi guidati, mappe cariche di indicatori: la priorità era non lasciare nessuno indietro, assicurando a tutti una porzione di intrattenimento predigerito.
E poi, nel silenzio quasi indifferente del mercato, arriva un titolo che ti spiega poco e nulla, ti lascia sbattere contro muri insormontabili e ti ricorda continuamente che la morte è soltanto un passaggio.
Senza nulla togliere al precedente Demon's Souls, che abbiamo recensito qui nel remake PS5, Dark Souls nasce come un gesto quasi radicale, eppure finisce per scuotere dalle fondamenta l’industria intera.
L’eco della prima morte
Chiunque abbia impugnato il pad per la prima volta ricorda esattamente quel momento. Sia che fosse la trappola improvvisa nel Burg dei Non Morti, sia lo sguardo minaccioso del Demone del Rifugio, o magari l’agguato di un nemico apparentemente innocuo. Dark Souls costringeva a imparare con l’esperienza, a osservare l’ambiente e a rispettarlo come fosse un avversario in più. “Prepare to die”, lo slogan che fece discutere già in fase di lancio, non era semplice marketing: era un manifesto.
Ed è proprio attraverso quella prima morte (brutale, ingiusta, ma anche catartica) che il giocatore cominciava a capire che l’esperienza non era fondata sul fallimento, bensì sull’accettazione del fallimento come parte costitutiva del viaggio. È un paradosso intrinsecamente videoludico e al tempo stesso umano: più vieni spezzato e rialzato, più cresci, più comprendi il mondo e te stesso.
Nel 2011 il concetto di “multiplayer asincrono” era ancora un’idea con sperimentazioni timide. Dark Souls lo rese carne, sangue e narrativa collettiva. Quei messaggi scritti a terra, spesso salvavita, altre volte trollate deliranti, costituivano una lingua segreta della comunità. Ti fidavi? Dubitavi? Ti salvava la vita una parola lasciata da uno sconosciuto. O ti gettava nel baratro.
Era un multiplayer che non aveva bisogno di lobby, chat vocali, matchmaking ossessivo: era, semplicemente, la sensazione che ci fosse un altro disperso, là fuori, con la tua stessa torcia nella notte. Da lì nacque il culto di Dark Souls, che ancora oggi resiste perché non si fonda solo su meccaniche di gioco, ma su una connessione quasi primordiale, sull’empatia nata dallo stesso dolore ludico.
A differenza di tanti fantasy smaltati, Lordran non era un regno da salvare, ma un mondo già crollato. La sua bellezza malinconica emergeva attraverso castelli fatiscenti, paludi velenose, boschi oscuri e città macinate dalla desolazione. Non c’era gloria, soltanto l’eco di glorie passate.
Questa estetica della rovina, oggi celebrata e quasi diventata “moda”, all’epoca era uno schiaffo di realtà dentro l’alveo del fantasy classico. Dark Souls ti metteva di fronte alla finitudine, artistica e narrativa: persino i personaggi che incrociavi, con le loro storie smozzicate, apparivano come ombre di un passato irrecuperabile. L’effetto era destabilizzante, ma anche magnetico, con un mondo che si lasciava decifrare più come un mosaico frantumato che una fiaba lineare.
L’eredità riscritta
Oggi, quattordici anni dopo, il termine soulslike è diventato una categoria a sé. È difficile ricordare un videogioco recente che non abbia almeno sussurrato a Dark Souls, in termini di combat system, level design o filosofia di sfida. Ciò che era nato come un esperimento “di nicchia” ha generato una nuova grammatica videoludica che spazia da successori spirituali come Elden Ring e Lies of P, fino a contaminazioni più sottili persino negli sparatutto e nei roguelike.
Eppure, c’è una verità che resiste: per quanto raffinati possano essere gli epigoni, nessuno è riuscito a replicare quel senso di scoperta ostile e sacrale del primo Dark Souls. Non si tratta solo di difficoltà, ma di un equilibrio unico tra enigma, esplorazione e fragilità emotiva.
Guardare indietro a questi quattordici anni significa anche fare i conti con cosa abbia rappresentato Dark Souls nella vita dei giocatori. C’è chi ricorda con orgoglio il momento in cui ha sconfitto Ornstein e Smough. C’è chi porta nel cuore il colpo di scena di Anor Londo. O chi, ancora, racconta le notti insonni passate a invocare o ad aiutare sconosciuti contro Mani di Fumo e draghi antichi.
Dark Souls ha funzionato come una sorta di rito collettivo, ma anche personale. Una palestra di pazienza e resilienza che, nel piccolo, ha insegnato a non abbandonare al primo ostacolo. Videogioco come specchio della vita: inciampi, cadute, frustrazione, ma anche la gioia pura di un obiettivo raggiunto con le proprie mani, senza scorciatoie. È una lezione che resta viva, tanto nei veterani quanto nelle nuove generazioni che lo riscoprono oggi nelle riedizioni e nelle retroconsole.
Se Dark Souls ha plasmato il medium videoludico, non meno importante è stato il suo peso culturale. L’immaginario della “rolata” come schivata universale, i meme sul “git gud”, i riferimenti iconografici allo stregone con cappello a punta o al cavaliere Solaire con il suo sole fiammeggiante: tutto è entrato nel linguaggio della rete, ben oltre i confini dei videogiochi.
Oggi, menzionare Dark Souls significa attingere a un patrimonio condiviso: persino chi non lo ha mai giocato conosce le sue dinamiche, come se fosse una mitologia moderna. L’insidiosa scalinata di Sen’s Fortress, i colpi micidiali del Capra Demon, persino le maledizioni dei Basilischi sono entrati a far parte di un pantheon folklorico che vive al di fuori del supporto fisico.
Ma cosa rimane del primo Dark Souls, oggi, nell’anno 2025? In un’industria che continua a spingere verso l’iperrealismo, il live service, i mondi infiniti e le intelligenze artificiali generative, quell’avventura del 2011 ci appare quasi come un monolito. Non tanto una reliquia di un’epoca andata, quanto piuttosto una fiamma ancora accesa. Perché Dark Souls continua a essere giocato, discusso, vissuto. Gli speedrunner trovano nuove scorciatoie impossibili, i modder reinventano boss e mappe, e i neofiti lo affrontano con la stessa timidezza e curiosità di quattordici anni fa.
In fondo, Lordran non è mai invecchiata: è rimasta sospesa in quel crepuscolo eterno che la caratterizza, della stessa materia dei sogni e degli incubi. Varcare ancora oggi il cancello del Burg dei Non Morti significa entrare in contatto con quell’anima immutata, che non ha bisogno di texture a 8K o framerate a tre cifre per scuotere qualcosa dentro.
Il peso dell’indelebile
Se pensiamo a quanti giochi sono usciti dal 2011 a oggi, la maggior parte è scivolata via, consumata e dimenticata. Dark Souls invece resta, e non solo per i più appassionati. Resta perché rappresenta una delle rare volte in cui un videogioco ha saputo essere specchio della condizione umana: fragile, imperfetta, ma capace di rialzarsi infinite volte.
Quando tra altri quattordici anni guarderemo al 2039, col mondo videoludico probabilmente plasmato da realtà virtuale neurale, IA e universi procedurali senza fine, Dark Souls avrà ancora qualcosa da dire. Perché non è soltanto un gioco difficile, ma una filosofia. E le filosofie non invecchiano: sedimentano, si reinterpretano, sopravvivono.
Oggi, 22 settembre 2025, sono passati quattordici anni da quel gesto creativo che nessuno allora avrebbe potuto prevedere come rivoluzionario. Eppure siamo ancora qui, a parlare di Dark Souls come se fosse un faro nella notte, un fuoco che non smette di bruciare.
Magari fioco, magari vacillante, ma sempre vivo. Come una brace che nessuna tempesta (o game over) può estinguere.