24 anni. Ventiquattro. Da oggi, Grand Theft Auto III ha ufficialmente l’età di un adulto negli USA. Eppure, come accade solo ai veri rivoluzionari, continua a sembrare più giovane di quasi tutto ciò che è venuto dopo. Era il 22 ottobre 2001 quando Rockstar decise di far saltare il banco, pubblicando un gioco che non si limitò a cambiare il modo di giocare, ma il modo stesso di concepire i videogiochi.
E oggi, due decenni e rotti dopo, la sensazione è sempre la stessa: il medium non è più stato lo stesso, ma forse (e qui viene il paradosso) non è mai più stato così libero.
Liberty City non era solo un luogo. Era un manifesto. Fino a quel momento, nessuno aveva osato tanto. La serie GTA era nata come una follia bidimensionale, un caos visto dall’alto, fatto di sirene, furti e pixel grossolani.
Ma in quel 2001, tutto cambiò. La camera scese di quota, si avvicinò al suolo e ci mise dentro. Ci fece vivere quella città, annusarne l’asfalto, ascoltarne le radio, sentirne la pioggia. Non eravamo più spettatori: eravamo parte del suo ecosistema malato.
Welcome to Liberty City
Grand Theft Auto III non era solo la trasformazione di una saga, ma la dichiarazione di guerra a un’industria intera. Perché in un momento in cui i giochi si accontentavano di intrattenere, GTA III pretendeva di disturbare. Pretendeva di far riflettere, di mettere il giocatore di fronte alla sua stessa immoralità. E lo faceva senza moralismo, senza prediche, ma con un’ironia crudele e irresistibile.
Claude, il protagonista muto, era l’arma perfetta. In un’epoca di eroi verbosi e pomposi, Rockstar scelse il silenzio. Nessuna battuta, nessuna giustificazione, nessun pathos da soap opera. Solo azioni. Il suo mutismo era un atto politico, una provocazione. Era lo specchio di chi giocava, un burattino senza volto in un mondo che non conosce pietà. E in quella scelta, apparentemente semplice, c’era tutto il senso di una rivoluzione: il giocatore non era più guidato, ma libero. E proprio per questo, colpevole.
Liberty City era il vero personaggio principale. Una città costruita non per essere ammirata, ma per essere vissuta. Un inferno urbano fatto di corruzione, rumore, pubblicità grottesche e pioggia sporca. Le sue strade erano pulsanti, le sue radio dissacranti, i suoi cittadini caricature di un’America decadente e satirica. Ogni quartiere raccontava un pezzo di mondo: lo squallore di Portland, la tensione di Staunton Island, il lusso tossico di Shoreside Vale. Non era un open world, era un organismo vivente.
E il bello è che Rockstar ci credeva davvero. Non si trattava di costruire una mappa grande, ma una città coerente. Ogni via aveva senso, ogni scorcio era parte di un disegno più grande. Il concetto di “gioco libero” non nasceva come gimmick, ma come linguaggio. La libertà non era data dal poter fare tutto, ma dal poter scegliere cosa significasse quel “tutto”.
Nel 2001, mentre l’industria si rifugiava nella spettacolarità e nella sicurezza dei binari, GTA III prese una direzione opposta: spalancò le porte e ci fece uscire. Era un invito al caos, ma anche alla curiosità. Era un’idea di mondo che viveva anche senza di noi. Se abbandonavi il controller, la città continuava a respirare. E in quel respiro c’era la sua forza.
Oggi, guardando indietro, il peso di quella rivoluzione fa quasi paura. Perché dopo GTA III arrivarono decine di emulatori. Tutti volevano fare “l’open world definitivo”. Tutti volevano la loro Liberty City. Ma nessuno (o quasi nessuno) capì cosa stava davvero dietro a quella formula. L’errore fu pensare che bastasse la superficie. Grandi mappe, auto da rubare, missioni da scegliere, e via. Ma il segreto non era la libertà. Era l’intenzione.
Oggi, quando accendiamo un open world moderno, vediamo città bellissime ma vuote, mondi enormi ma muti. Mappe da fotografare, non da vivere. Rockstar, invece, nel 2001, faceva il contrario: ti buttava in una fogna e ti diceva “arrangiati”. E tu, in quella sporcizia, trovavi la bellezza. Perché la libertà vera nasce dal rischio, non dal comfort. E il rischio, nel 2025, sembra un concetto estinto.
Eppure, GTA III non era perfetto. Anzi: era un disastro, sotto certi aspetti. Controlli rigidi, bug ovunque, intelligenza artificiale ai limiti del grottesco. Ma in quella imperfezione c’era una verità che oggi abbiamo smarrito: l’imperfezione come segno di vita. Non c’era niente di sterile in GTA III. Tutto era sporco, sgraziato, improvvisato. Ma era reale. E proprio per questo, memorabile.
Quando nel 2021 arrivò la cosiddetta “Definitive Edition”, ci illudemmo per un istante di poter rivivere quell’epopea. Ma fu un disastro. Perché nel tentativo di lucidare il passato, lo svuotarono. Tolsero l’anima, lisciarono le rughe, sterilizzarono la follia. Il risultato fu una copia senz’anima, un manichino digitale. E lì si capì che certe cose non vanno “aggiornate”: vanno ricordate.
Il paradosso del tempo è che consuma, ma non cancella. GTA III oggi è vecchio, ma ancora pulsante. È datato, ma vivo. È un mondo che parla a chi ha memoria e a chi ha fame di libertà. Ogni volta che torni a Liberty City, ti accorgi che non è nostalgia: è riconoscimento. È sapere che lì dentro c’era qualcosa che oggi non trovi più. Quel senso di sfida, di scoperta, di illegalità intellettuale. Quel coraggio di non piacere a tutti.
Perché GTA III era, prima di tutto, un atto di disobbedienza. Una dichiarazione d’amore al caos. E in un’epoca in cui i videogiochi cercano disperatamente di piacere a chiunque, ricordare un titolo che non voleva piacere a nessuno – e che proprio per questo piacque a tutti – è quasi un dovere morale.
Non è cambiato nulla
Oggi, 24 anni dopo, non celebriamo un anniversario. Celebriamo un terremoto. Un gioco che non ha solo definito un genere, ma ha ridefinito un linguaggio. Un gioco che ha dimostrato che il videogioco può essere politica, può essere critica sociale, può essere arte, può essere fastidio. E sì, anche un po’ pornografia urbana, nel senso più alto del termine: esposizione del corpo nudo della città, senza veli né filtri.
Se oggi esistono mondi aperti, moralità dinamiche, missioni emergenti, è perché nel 2001 qualcuno ha deciso che un criminale muto meritava un mondo intero da attraversare. Ed è un’eredità che non si può liquidare come semplice “pietra miliare”. GTA III è la linea di confine tra il prima e il dopo. Il resto, tutto il resto, è post-storia.
E allora, mentre la modernità si illude che il realismo basti, ricordiamoci che la verità non sta nei dettagli tecnici, ma nei dettagli umani. Nei rumori di sottofondo, nelle pubblicità radiofoniche assurde, nella risata di Lazlow, nel modo in cui una macchina esplode a due metri da te e tu non ti chiedi “perché”, ma “chi ha cominciato”.
Buon compleanno, Grand Theft Auto III. Ventiquattro anni dopo, non ti abbiamo ancora superato. Forse perché non possiamo. Forse perché, in fondo, non vogliamo. Perché tra i grattacieli, le sirene e i ponti di Liberty City, continua a risuonare un messaggio che nessuno ha più avuto il coraggio di ripetere: la libertà non si chiede, si ruba.