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Recensione

I Can't Escape: Darkness

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Avatar di Moxarc

a cura di Moxarc

Pubblicato il 22/09/2015 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

5.5

È successo di nuovo: non siamo davvero riusciti a resistere dal mettere le mani sull’ennesimo gioco indie che ha solleticato il nostro interesse. Complice l’avvento di Steam e la relativa facilità con la quale un titolo può essere distribuito con costi tutto sommato contenuti e messo a disposizione di un grande pubblico, le opere provenienti da studi indipendenti si sono moltiplicate a vista d’occhio. Il problema che si è ben presto venuto a creare riguarda però l’effettiva qualità di tutte queste produzioni. Chi scrive ha un’idea piuttosto integralista sull’argomento: molti non si troveranno d’accordo, ma riteniamo che la connotazione di gioco indipendente non faccia passare in secondo piano alcuni elementari punti fermi per quanto riguarda la realizzazione tecnica e il gameplay. Allo stesso modo non sposiamo nemmeno la scusante del basso budget o dei ridotti tempi di realizzazione se poi il risultato presenta pecche davanti alle quali non si può soprassedere. Questo in sostanza è l’animo con cui ci siamo avvicinati a I Can’t Escape: Darkness, opera che, come va molto di moda in questi ultimi anni, si inserisce nel fortunato filone horror/investigativo. Sviluppato dallo studio Fancy Fish Games, il gioco si pone come seguito spirituale di I Can’t Escape, titolo distribuito gratuitamente nel 2013 e realizzato completamente in Flash.
Avventuriero per caso
Bastano pochi istanti per capire subito con cosa abbiamo a che fare: un menu piuttosto essenziale, inserito in un’ambiente buio e claustrofobico, ci dà il benvenuto e scegliendo “New Game” veniamo subito trasportati in un’avventura di cui nulla ci è dato sapere, ma i cui risvolti possono ben essere immaginati, sin dalla scelta del titolo. Piccolo appunto: il gioco, benché contenga, come vedremo, pochissime linee di testo, presenta varie localizzazioni, in inglese, tedesco, spagnolo e addirittura russo. Sappiamo cosa state pensando: manca l’italiano. Ma andiamo avanti. 
La prima immagine davanti alla quale ci siamo trovati all’inizio del gioco ci ha lasciati un po’ perplessi. Una terribile texture, che rappresenta verosimilmente una pianta rampicante, sbarra all’apparenza la strada e basta fare un passo verso di lei per cadere rovinosamente in un buco del pavimento. A questo punto ci siamo resi conto di essere all’interno di un tempio antico, intrappolati di fronte ad una porta chiusa a chiave (manco a dirlo, proprio la nostra unica via di uscita): davanti a noi un bastone, la prima arma a nostra disposizione. Sì perché dovremo anche combattere, ma la cosa, come vedremo, sarà tutt’altro che piacevole.
Il protagonista di cui si vestono i panni funge da semplice appendice del giocatore. Di lui non ci è dato sapere nulla se non che, probabilmente, è un archeologo. Giusto il tempo di fare alcuni passi, di familiarizzare con i controlli (ben spiegati durante un tutorial selezionabile dal menù principale), la grafica e la visuale in prima persona tipica dei dungeon crawler di stampo classico, e verremo a conoscenza dei primi particolari riguardanti la trama. Un messaggio proveniente da una fonte ignota ci metterà in guardia dal pericolo della grande oscurità e ci spiegherà che per fuggire indenni da dove ci troviamo dovremo compiere una pericolosa discesa nei piani inferiori del tempio. Questo è sostanzialmente il cuore del gioco: percorrere lunghi labirinti generati in maniera procedurale (in modo che nulla sia esattamente uguale da una partita all’altra), aprendo porte, scoprendo segreti e cercando di sopravvivere per fuggire da quel luogo maledetto.
A farci luce nelle ambientazioni spesso e volentieri completamente buie, avremo una torcia, che però dovremo utilizzare con parsimonia in quanto non infinita. Ovviamente la fine coincide con l’oscurità totale, quindi meglio stare attenti.
Come anticipato, troveremo dei nemici sul nostro cammino, come topi e strani arbusti semoventi, ma il combattimento non è certo il fulcro dell’esperienza e ce ne siamo accorti da come è stato implementato. Gli scontri corpo a corpo si riducono ad un ripetitivo utilizzo del tasto attacco con la speranza di non morire per primi. A causa della grafica molto semplicistica e approssimativa diventa addirittura difficile capire a che distanza si trovino i nemici (rappresentati da grossi sprite rozzamente animati) e per questo motivo ci siamo trovati più volte a fendere l’aria con i nostri colpi. Certamente lo scopo di Fancy Fish Games è quello di instillare nel giocatore un senso di paura e smarrimento, ma per fare questo hanno creato un titolo all’interno del quale è davvero difficile pensare ad una strategia di azione. Fortunatamente ci viene in aiuto la mappa, pratica e funzionale, che si formerà man mano che percorreremo i corridoi del labirinto e provvederà perlomeno a segnalarci, tra le altre cose, le voragini presenti sul pavimento, in modo da poter decidere autonomamente come muoversi e se cadervici dentro di proposito oppure no (in quanto purtroppo sono pressoché impossibili da notare in altro modo). I piani sotterranei visitabili sono cinque, con un livello di pericolosità crescente e ambientazioni sempre più mostruose.  
Il senso della morte
I Can’t Escape: Darkness indugia continuamente e in modo quasi morboso sulla tema della morte e sul tentativo, spesso vano, di sfuggirvi. Le poche creature che incontrerete costituiranno sempre un grosso pericolo per la vostra permanenza in questo mondo: anche al più piccolo ratto basteranno solamente un paio di graffi per mandarvi al creatore. Ma la malcelata perversione degli sviluppatori non si ferma qui e va ben oltre l’esperienza di gioco in sé: dopo ogni dipartita una scritta a schermo vi informerà sul numero di passi compiuto, il tempo di gioco trascorso e la causa della vostra sconfitta. La cosa più curiosa è che potrete condividere la vostra morte su Twitter, tramite un semplice click (“tweet your death”), quasi a voler rendere partecipi i vostri follower dei record che avete compiuto. La trovata appare un po’ grottesca, soprattutto se vista alla luce delle cupe atmosfere in cui il gioco intende calarci fin dall’inizio, ma di una cosa siamo certi: se avessimo dovuto veramente fare un Tweet per tutte le volte che siamo morti, avremmo sicuramente provocato una crisi di nervi in tutti coloro che ci seguono. Un’altra cosa che ci ha colpito sono gli achievement del gioco: sono solo 10 e anche piuttosto semplici a dire il vero, ma solo uno riguarda il completamento della campagna. Gli altri sono sbloccabili morendo in modi sempre diversi. Non vi sono ad esempio obiettivi per le creature uccise, gli oggetti raccolti o il numero di passi compiuti, bensì per essere stati schiacciati da un muro mobile o essere stati avvelenati da un ratto. Morire sembra dunque parte integrante dell’esperienza di gioco e acquisisce maggior importanza del classico proseguimento della storia.
Una strada verso il nulla
Per un po’ ci siamo anche divertiti nell’esplorare i dungeon da cima a fondo, tentando di scoprire i segreti disseminati in giro e discendendo sempre più in un’oscurità senza apparente via d’uscita, ma la sensazione di stare girovagando senza una vera meta non ci ha mai abbandonato. È anche possibile attivare o disattivare l’opzione e i salvataggi, ma data la brevità dell’avventura consigliamo di giocarla tutta d’un fiato. Sembra proprio che manchi qualcosa a I Can’t Escape: Darkness per farsi ricordare. Probabilmente cerca di eccellere in molte cose, fallendo miseramente: non incute abbastanza timore, non è realizzato magistralmente e nemmeno possiede una trama solida ed interessante. L’unica menzione che ci sentiamo di fare riguarda il comparto sonoro, del tutto in linea con l’atmosfera. Giocatelo di notte e con le cuffie e forse vi provocherà qualche piccolo sussulto, ma se non siete proprio fan del genere potete agevolmente passare oltre, non tutti gli indie riescono col buco.

– Comparto sonoro ispirato

– Discreta componente esplorativa

– ispira timore e straniamento…

– … ma finisce con disorientare il giocatore

– Narrazione davvero esile

– Realizzazione grafica fin troppo semplicistica

5.5

I Cant’ Escape: Darkness soffre di alcune pecche in termini di realizzazione grafica e gameplay che vanno a inficiare in modo pesante il divertimento. Si tratta comunque di un simpatico passatempo per trascorrere alcune ore davanti allo schermo, ma una volta terminato è davvero difficile trovare spunti alla rigiocabilità. Come direbbe un famoso personaggio esperto di viaggi nell’oscurità più totale: “senza infamia e senza lode”

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