Logan

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a cura di YP

Logan di James Mangold segna la fine di un’era, e nel farlo apre anche la strada a una nuova, cruda e potente strada di narrazione per i cinecomic. L’ultima volta di Jackman nei panni del letale mutante è un grido di dolore, solitudine, disperazione e rinascita: una pellicola che, finalmente, rende onore a uno dei personaggi più iconici nella storia dei fumetti.
I will find a way
Un futuro non precisato, un mondo andato avanti: questo il setting dell’ultima avventura di Wolverine che, sin dai primi minuti, mette in chiaro i toni del film: la prima sequenza è di una violenza inaudita e inedita per un film del genere, il sangue schizza ovunque cosi come gli arti dei nemici di Logan cadono e si staccano dal corpo del nemico. Mai si era vista tanta violenza e mai siamo stati cosi felici di vederla: era finalmente arrivato il momento di mettere a nudo la vera natura del protagonista, orfana di censure che ne mascherassero la brutalità. Wolverine è un solitario, un reietto, un mutante vittima di se stesso e questo concetto è uno dei fili conduttori della storia. I mutanti sono morti, tutti morti, eccezion fatta ovviamente per il protagonista, un sempre più instabile dottor Xavier e l’enigmatico Caliban. Logan sopravvive facendo l’autista e vivendo in una zona al confine tra USA e Messico, lontano da tutti, lontano del mondo. Come al solito qualcosa stravolgerà il “perfetto” status quo della sua vita: X-23, enigmatica, cinica e terribile bambina mutante assieme a Donald Pierce (interpretato da un buonissimo Boyd Holdbrook), dipendente della strana e indecifrabile Essex corporation, daranno il via alle danze, mostrando a Logan come nonostante l’estinzione dei mutanti il mondo non li abbia per niente dimenticati.
You are someone else
Logan ci è piaciuto, tanto, nonostante qualche difetto anche meglio descrivibile come “scelta di scrittura” che forse poteva essere limato, ma tant’è che la visione di Mangold e di Jackman hanno dato vita a un prodotto che in alcuni momenti vi sembrerà addirittura straordinario. La formula vincente è da ricercare nel perfetto connubio di azione e drammaticità, entrambe potenti e incredibilmente impattanti: in sala c’era chi piangeva e chi si esaltava; oppure entrambe le cose contemporaneamente (nel mio caso, per esempio). L’interpretazione di Jackman è fisica e totalitaria, se cercava un modo di omaggiare il personaggio che ha influenzato molto della sua carriera allora la missione è compiuta: fisico, toccante e provato, l’attore australiano ha davvero dato tutto a Wolverine e siamo ben sicuri che questo film lascerà anche un lascito importante a tutte le produzioni future. La regia di Mangold invece è precisa, elegante e mai egocentrica o esagerata: ogni inquadratura rispetta lo svolgersi dell’azione e non cade mai in dimostrazioni di capacità o auto-citazione: il film è praticamente slegato dalla continuity dei mutanti e questo ha dato una certa libertà di scrittura e regia che traspare e si apprezza. Certo, rendere la pellicola autonoma e indipendente da tutto può far storcere il naso ai puristi della saga, ma credetemi che nonostante io sia uno di questi, dopo pochi minuti ho dimenticato tutto per farmi travolgere nell’azione. Alcune forzature di sceneggiatura si potevano evitare o comunque sviluppare e spiegare meglio, ma Logan è un film emotivo, e in quanto tale talvolta si dimentica del resto. Nota di merito anche al poderoso Patrick Stewart, a cui la parola magistrale rischia di stare stretta, e anche alla dolce ma micidiale Laura Kinney, che nonostante i pochi momenti di dialogo di cui godeva il suo personaggio, riesce comunque a esser sempre comunicativa grazie a un’espressività alle volte sorprendente.

Logan è un film riuscito, centrato e sopratutto rende onore al personaggio di Wolverine come nessun’altra pellicola aveva fatto prima: complimenti a Mangold e complimenti a Jackman, capaci di scrivere e interpretare una storia lineare ma condita da tanta azione, sangue e lacrime. Se questo doveva essere un addio, è stato sicuramente un addio indimenticabile.