Hackers per la gloria

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a cura di ParyKon

Se con “pirateria” s’intendesse unicamente la serie di attività finalizzate ad offrire un accesso prettamente illecito (gratuito o scontato) a materiale commerciale, indicarne con precisione l’origine risulterebbe piuttosto arduo: dopotutto, un tempo non era difficile mettere le mani sull’audiocassetta registrata (o VHS contraffatto) di turno -e mi riferisco ad anni ben antecedenti all’avvento di internet. Sembra che, appena fosse materialmente (e tecnologicamente) possibile, sia quasi spontaneamente nato un mercato interamente dedicato alla diffusione di materiale illegale (in altre parole, contraffatto/duplicato/clonato). Insomma, si potrebbe giustificare l’esistenza stessa della pirateria con l’incessante ed eterna domanda: dopotutto, trovare individui disposti persino ad infrangere la legge -nel tentativo di spendere meno soldi- non sarà mai troppo complesso. Pur spiegando fenomeni come le IPTV illegali, l’hard disk loading ed il mercato dei DVD pirata, si tratta di un ragionamento che tende ad escludere per forza di cose la pirateria informatica -o quantomeno, gran parte di quella perpetuata sul web. 
…Principalmente perché, piuttosto che rappresentare il solito business/attività a fini di lucro, sotto certi aspetti pare avvicinarsi più ad una sorta di movimento; per comprenderne la natura, occorre dare uno sguardo al passato, risalendo alle origini di quelli che oggi chiameremmo semplicemente “hacker”.

I pirati della Silicon Valley

I primi ad utilizzare un simile appellativo non ricordano certo lo stereotipo moderno: gli hacker anni ’50 erano infatti accademici, matematici ed ingegneri dediti alla programmazione (spesso impiegati in università statunitensi). Al tempo, i computer erano visti come strumenti industriali riservati alle grandi aziende, non certo in quanto prodotto di massa; furono i primissimi appassionati d’informatica della Silicon Valley, a cambiare in qualche modo la tendenza. 
Il 1975 segna infatti l’anno di fondazione del noto Homebrew Computer Club, definito in certi ambienti “il primo club di Hacking”. Inutile dirlo, vari membri del gruppo finirono col cambiare per sempre il mondo dell’informatica: possono venire in mente, ad esempio, l’inventore della cartuccia (e della prima console programmabile basata su ROM cartidge -che inaugurò la seconda generazione videoludica), l’ideatore del primo home computer commerciale di successo, il designer del primo computer portatile, ed il giovanissimo duo che fondò Apple (Steve Jobs e Steve Wozniak). Oltre alla passione per i computer, il gruppo era accomunato dalla volontà di scambiare liberamente informazioni (al fine di raggiungere più persone possibili), uno dei princìpi fondamentali dell’allora neonata cultura digitale. Il giovane Bill Gates, tuttavia, non sembrò condividere fino in fondo la filosofia del Club: poco dopo la creazione del gruppo pubblicò infatti una lettera aperta -indirizzata ai membri-, condannando aspramente l’utilizzo libero del codice (…o, più precisamente, del proprio codice). 
Citandone un estratto, “La maggior parte degli hobbisti dev’essere consapevole che molti di voi rubano il vostro software. L’hardware va pagato, ma il software sembra sia qualcosa da condividere. A chi gliene importa se le persone che ci hanno lavorato sopra vanno pagate?“. Ad oggi pare legittimo (quasi scontato) come ragionamento, eppure, il concetto stesso di “codice proprietario” rappresentava quasi una novità, ai tempi. La possibilità concreta d’incorrere in conseguenze legali in seguito alla condivisione (o l’utilizzo “improprio”) di codice, non era sostanzialmente contemplata, all’epoca. Come sappiamo, la visione di Bill Gates finì comunque col dominare: con la diffusione a macchia d’olio dei computer vista negli ’80, nacque un’industria del software fermamente a sfavore della divulgazione “libera” del materiale digitale. 
In altre parole, venne introdotto il concetto di protezione anti-copia.

Crackers anni ’80

Si trattò però di una lama a doppio taglio: tutt’altro che dimenticati, i princìpi originali dell’Homebrew Computer Club continuarono infatti a vivere in una nuova generazione di appassionati d’informatica. I sistemi anti-copia, ideati allo scopo di disincentivare la pirateria, finirono al contrario con l’attirare una schiera di giovani informatici, desiderosi di mettersi per la prima volta davvero alla prova; tra i primissimi crackers degli anni 80, “sproteggere” il software si trasformò quindi in un’attività sempre più comune, seguita dalla naturale condivisione del materiale pirata. Citando un articolo (pubblicato una ventina d’anni fa) di Wired, “Se sei giovane, ami i computer ed hai un mucchio di tempo, ci sono tre modi per impressionare i tuoi pari: puoi hackerare sistemi altrui, puoi crackare la protezione di giochi o software, o creare demo“. In altre parole, i sistemi anti-copia erano visti come una sorta di sfida; riuscire a penetrare oltre specifiche protezioni (ideate in genere da grosse società) era naturale motivo d’orgoglio e vanto, all’interno di specifiche community
La pratica era preferita al classico hacking -in veri e propri sistemi di sicurezza- in quanto scarsamente perseguita a livello legale (ritrovandosi in una sorta di “zona grigia”): se penetrare in un sistema bancario (governativo, o quel che fosse) assicurava una rapida allerta da parte delle autorità, le conseguenze legali della pirateria lasciavano tutto sommato a desiderare. D’altronde, prima del web il fenomeno non poté che manifestarsi in piccoli nuclei locali, con attività spesso limitate a ristretti circoli di amici (o tuttalpiù, conoscenti/persone fidate); insomma, se risalire alla produzione in serie di DVD clonati -destinati al mercato illegale- può non essere troppo difficile (essendo in fondo parte di un business), con la pirateria digitale era più o meno l’opposto. Nonostante le risibili “quote d’iscrizione” chieste ai membri delle piccole community (impiegate all’acquisto del materiale da sproteggere), l’intero “traffico” risultava di fatto limitato ad una scala estremamente ridotta (e privata), tale da rendere l’operazione difficilmente rintracciabile. 
Lo scarso interesse da parte delle autorità permise al fenomeno di crescere esponenzialmente, dando silenziosamente origine alla cosiddetta Scena Warez.

La Scena

Siete familiari con il concetto di “Scena hip hop“?
Nello specifico, parlo dell’ambiente underground antecedente alla popolarizzazione smodata del rap. Per i profani è facile confondere l’hip hop con l’omonimo genere musicale; si tratta in realtà di un’intera, ampia subcultura moderna, tale da contemplare svariate discipline differenti. Oltre ai classici MC (rapper) e Disc Jockey (DJ), l’ambiente hip hop prevede infatti le figure del writer (graffitari al limite del legale) e B-boy (ballerini di break dance), spesso accompagnati da beatmaker e beatboxer. Insomma, una varietà di artisti anche profondamente differenti, generalmente accomunati da filosofie affini, spesso uniti in collettivi dal comune sottobosco urbano (in Italia possono venire in mente Isola Posse All Stars, Porzione Massiccia Crew, Spaghetti Funk, o più recentemente, Dogo Gang, TruceKlan e Machete Crew, per citarne qualcuno).
Beh, esiste un fenomeno del tutto analogo (e, per qualche ragione, prevalentemente europeo), sebbene in ambito informatico. Con “Scena Warez” s’intende infatti la community underground da sempre dedita alla sprotezione (ed illecita condivisione gratuita) di materiale protetto da copyright. Similmente alla Scena Hip Hop, anche quella warez -comunemente nota come “la Scena”- si compone di una moltitudine di individui dediti alle attività più variegate: dai crackers veri e propri ai courier (specializzati nella rapida distribuzione del software), dai tester ai supplier (gli “infiltrati” dell’industria, che procurano in anteprima il materiale da sproteggere), fino a veri e propri artisti, come coders (autori delle elaborate intro pirata), grafici (maestri di ASCII e ANSI art) e compositori (di musica digitale, spesso chiptune). Ad oggi non è impossibile trovare, tra le fila di questo o l’altro studio di sviluppo, qualche programmatore con un passato nella Scena; non un caso, se si considera la quantità di cracker della vecchia guardia finiti col trasformare la propria passione ed abilità in concreto lavoro.

La Demoscene

Per quanto fosse nata da presupposti non esattamente allineati con la legge, la Scena non è infatti unicamente relegabile nell’illegale: la natura aspramente competitiva del fenomeno portò i vari membri (divisi in Gruppi) a dare ampia importanza alla propria immagine, generando la necessità di “firmare” le proprie release in modi sempre più originali, elaborati e stravaganti. La progressiva evoluzione delle intro pirata, o “loader” (le brevi sequenze d’introduzione personalizzate inserite nel software sprotetto), create ad arte dallo sforzo congiunto di coder, graphic designer e compositore di turno, finì quindi col generare un’ulteriore subcultura digitale (questa volta, di natura più artistica), nota come Demoscene. 
Rinominati “demo”, i loader divennero insomma vero e proprio emblema e motivo d’orgoglio dei propri autori, effettive dimostrazioni del loro talento. Nella Scena, la considerazione altrui -il rispetto, insomma- ha un’indubbio valore: programmare complesse presentazioni multimediali superiori ad una certa qualità audiovisiva (da renderizzare in tempo reale su hardware estremamente specifico, con limiti di spazio che sfiorano l’assurdo), rendeva insomma indiscutibile l’abilità del proprio team in fatto di modellazione 3D, musica, coding e grafica. Ormai distribuite in quanto programmi a sé stanti, le demo mutarono dunque in una sorta di performance informatica quanto artistica; il fenomeno ebbe quindi modo di espandersi, scollegandosi gradualmente dalle proprie radici pirata per acquisire (in parte) un’identità del tutto propria. L’affiatatezza -ed eterna rivalità- dell’ampia community spinse i membri ad organizzare persino numerosi eventi dedicati (chiamati demoparty), permettendo ai demosceners di mettersi alla prova in competizioni lunghe anche interi weekend (superando in rari casi i quattro giorni consecutivi).
La Demoscene contribuì in qualche modo a “popolare” l’industria videoludica; vari demosceners trovarono infatti impiego in aziende del calibro di Remedy Entertainment (Max Payne, Alan Wake), DICE (Battlefield), Starbreeze (Payday 2), Techland (Call of Juarez, Dead Island), Lionhead (Fable) e Akella (Postal).

A differenza di molte attività illegali, la pirateria informatica non fonda le proprie radici sul business. Ispirandosi a una filosofia old school, i primi crackers iniziarono a “sproteggere” (per diletto, talento e vanità) materiale coperto da copyright nel corso degli anni 80; la relativa indifferenza delle autorità consentì la nascita di una clandestina community underground, capace di monopolizzare per interi decenni l’ambiente della pirateria digitale. Divisi in gruppi rivali motivati da una sorta di perenne spirito competitivo, i membri della cosiddetta “Scena Warez” hanno quindi perpetuato per anni la condivisione illegale di pressoché qualunque videogioco, film, libro, album musicale o software giunto sul mercato.