Se ci pensate, oggi viviamo in un'epoca di certezza quasi paralizzante. Prima di spendere un singolo euro per un videogioco, abbiamo a disposizione una tale quantità di informazioni che, se avessimo ancora dieci anni, ci sembrerebbe pura stregoneria.
Passiamo ore su YouTube a guardare recensioni, analizziamo i Metascore, leggiamo anteprime, spulciamo forum e social. Spesso abbiamo già deciso cosa comprare mesi prima dell'uscita, bombardati da campagne marketing martellanti.
Ma io ricordo anche dei momenti della mia vita dove tutto questo è stato profondamente diverso. Un'epoca più ingenua, più analogica, e molto più rischiosa (ma anche più bella, se vogliamo essere onesti).
Un'epoca in cui non sapevamo nemmeno cosa fosse uno store online e dove il nostro angolo di paradiso era il reparto elettronica dell'ipermercato sotto casa, o il piccolo negozio di giocattoli all'angolo.
I bei tempi andati
E in quel tempo, chi comprava non eravamo noi ragazzini privi di denaro, ma un genitore, armato solo di buone intenzioni e di una richiesta molto vaga: "Papà, mi compri un gioco nuovo per la Nintendo o la PlayStation?". Questo mio pensiero mi è tornato in mente mentre spulciavo la mia libreria videoludica, ritrovando un vecchio gioco amatissimo regalatomi da mio papà quando ero ancora un bambino.
Per questo motivo volevo omaggiare i nostri genitori che, senza saperne assolutamente nulla, hanno plasmato la nostra infanzia videoludica scegliendo titoli completamente "a caso". Spesso regalandoci capolavori, altre volte schifezze impensabili (ma che abbiamo finito per amare lo stesso).
Provate a immaginare la scena, che sono certo molti di voi hanno vissuto. Un genitore, magari dopo la spesa settimanale, si ferma davanti allo scaffale dei giochi per Master System, NES, Mega Drive, PC o, più tardi, PlayStation.
Davanti ha un muro di scatole di cartone o di custodie di plastica. Non ha Internet. Le riviste specializzate le leggiamo noi, non certo lui. I commessi, spesso, ne sanno quanto lui. E quindi, come sceglie?
Beh, il più delle volte si affidava all'arte della copertina. Dopotutto ai tempi era l'arma di marketing più potente e, ammettiamolo, anche più ingannevole. Le copertine erano spesso opere d'arte barocche, evocative, piene di muscoli, esplosioni e promesse di avventure incredibili.
Peccato che il guerriero fantasy che sulla scatola sembrava dipinto da Frank Frazetta, nel gioco si rivelava essere un ammasso di otto pixel che si muoveva a scatti.
Vi ricordate la copertina americana del primo Mega Man? Un uomo di mezza età in una tuta spaziale improbabile con una pistola. Ecco, non c'entrava assolutamente nulla col gioco, ma se un genitore vedeva "robot" e "pistola", pensava: "Perfetto, questo gli piacerà".
Poi, ovviamente, c'era il prezzo. Il vero motore dell'acquisto casuale era lui: il cestone delle offerte. Il genitore non vedeva alcuna differenza qualitativa tra Super Mario Bros. 3 a prezzo pieno e uno sconosciuto titolo chiamato Hydlide o Athena a 10.000 lire.
Un gioco era un gioco e le nostre librerie si riempivano di produzioni a basso budget che nessuno aveva mai chiesto, ma che costavano poco.
E infine, il mio preferito: il malinteso, l'assonanza. "Mamma, mi compri Castlevania?" E la mamma tornava a casa con un gioco qualsiasi, purché avesse un castello in copertina. "Mi prendi quello di Robocop?" E il genitore tornava con Total Recall o un qualunque altro gioco d'azione con un tizio muscoloso. Il fraintendimento era la norma, e spesso portava a risultati... interessanti.
Ma il vero cuore di quell'esperienza era quello che veniva dopo. Il viaggio di ritorno in macchina, stringendo quella scatola. Il tentativo disperato di strappare la plastica trasparente con le unghie. E l'odore. Sì, l'odore. Quell'odore inconfondibile della carta patinata del manuale di istruzioni. Quanto ci manca...
Leggevamo quel manuale come se fosse un testo sacro. Studiavamo la (spesso inventata) "lore", i nomi dei nemici, i comandi. A conti fatti, era l'unica interfaccia che avevamo prima di infilare la cartuccia o il disco.
E poi, arrivava il momento della verità. L'accensione della console e in quel preciso istante, potevano accadere tre cose.
Pensiamo ai famigerati giochi su licenza. L'esempio più celebre è E.T. per Atari 2600. Quanti genitori, pensando "Oh, il film gli è piaciuto tanto!", hanno condannato i propri figli a vagare per ore in buche digitali senza senso?
E che dire dei titoli LJN sull'NES? Giochi come Back to the Future, Jaws, Friday the 13th? Forse è meglio dimenticarli, ma se ci pensiamo erano regali fatti col cuore.
Eppure noi giocavamo lo stesso. Perché? Semplice: perché non avevamo la scelta infinita di oggi. Un gioco nuovo era un evento per noi. Io ne ricevevo forse due o tre all'anno, se andava bene, tra compleanno, Natale e promozione. Non potevo semplicemente "passare ad altro". Dovevo giocare a quello.
Però, sotto tanti punti di vista, questa necessità mi ha spesso "costretto" a un esercizio di volontà che a oggi manca: trovare il divertimento. Mi mettevo lì, cercavo di padroneggiare quel sistema di controllo rotto, di superare quel livello progettato malamente.
Mi inventavo delle vere sfide personali. Trasformavo la frustrazione in determinazione. Quelle "schifezze" mi hanno insegnato la pazienza, la resilienza e l'arte di apprezzare le piccole cose.
A volte, però, succedeva anche che quella "schifezza" era così particolare, così strana, così sbagliata da andare oltre la sua stessa mediocrità. Questi erano i giochi che, a distanza di decenni, oggi chiamiamo "cult". Non erano semplicemente "brutti"; erano bizzarri.
Avevano idee ambiziose realizzate in modo goffo, trame assurde, o un "feel" semplicemente unico. Magari un genitore comprava Night Trap per Sega CD, pensando fosse un film interattivo divertente, e ci si ritrovava con un "B-movie" girato malissimo e quasi ingiocabile (che scatenò persino un putiferio in parlamento).
Questi giochi sono nati spesso così: da un acquisto casuale. Nessuno li avrebbe comprati leggendo una recensione. Sono stati scoperti per errore, e proprio quell'errore ha permesso loro di trovare un pubblico che ne ha amato l'unicità.
E poi, c'era il miracolo e l'allineamento astrale. Il colpo di fortuna.
Il genitore, guidato solo dall'istinto o da una copertina azzeccata, pescava dal cilindro il capolavoro inaspettato o un gioco che poi si rivela improvvisamente incredibile.
Chiedevi un gioco d'azione e tuo padre, non trovando Contra, tornava a casa con un gioco dalla copertina strana, con un bambino e uno slime. Era Chrono Trigger. Chiedevi "un gioco di robot" e tua madre ti portava Zombies Ate My Neighbors. Chiedevi "un gioco di macchine" e ti ritrovavi con Micro Machines o Rock n' Roll Racing, scoprendo un amore per i racing game "particolari" che non sapevi di avere.
Ricordo con affetto quando mio padre tornò dal supermercato con Master of Orion 2, MDK o Crusaders: Might & Magic. Mi ritrovai dinanzi a delle meraviglie che fecero invidia a tutti i miei amici e io ero il bambino più felice di questo mondo.
Queste erano le scoperte più dolci. Erano giochi che non avevamo chiesto, che non sapevamo di volere. Appartenevano a generi che forse, da soli, non avremmo mai esplorato. Quanti di noi si sono appassionati ai JRPG, ai puzzle game (chi avrebbe mai chiesto di sua volontà Lemmings o The Lost Vikings?) o agli strategici proprio grazie a uno di questi acquisti "sbagliati" che si sono rivelati giustissimi?
Questi titoli diventavano nostri in un modo più profondo. Non erano l'oggetto del desiderio imposto dal marketing; erano una scoperta personale, un segreto condiviso tra noi e quella cartuccia. Ma soprattutto erano contornati dall'amore di mamma e papà.
Oggi, quell'epoca è finita. L'algoritmo di Steam ci consiglia giochi con una precisione chirurgica. I nostri genitori, se ancora ci regalano giochi, ci chiedono una "wishlist" o ci danno una gift card. È tutto più efficiente, più sicuro, e senza dubbio il livello qualitativo medio di quello che compriamo è più alto.
Oggi, cosa ci resta?
Eppure, abbiamo perso qualcosa. Abbiamo perso, la sorpresa, il rischio. Abbiamo perso la capacità di adattarci a un prodotto mediocre e di spremerlo fino all'ultima goccia di divertimento, tanto che oggi, un gioco da 7 è visto come un abominevole schifezza.
Abbiamo perso la gioia pura di inserire un gioco di cui non sapevamo assolutamente nulla e scoprire, senza preconcetti, un capolavoro. Quella generazione di genitori, nella loro totale e innocente ignoranza della materia, sono stati i nostri primi "curatori". Hanno agito come un generatore di numeri casuali, costringendoci a uscire dalla nostra zona di comfort, che all'epoca era definita solo da "Mario" e "Sonic".
Ci hanno regalato frustrazioni indicibili che ci hanno temprato. Ci hanno regalato bizzarrie che sono diventate leggende personali. E, ogni tanto, ci hanno regalato pura magia, sotto forma di un gioco sconosciuto che ci ha cambiato la vita.
Perciò, un ringraziamento ai miei genitori e a tutti i genitori. Grazie per aver giudicato i giochi dalle copertine, per aver comprato nel cestone delle offerte, per aver confuso Castlevania con Ghost 'n Goblins. Grazie per averci regalato E.T. e Chrono Trigger con la stessa, identica, amorevole inconsapevolezza. Avete reso la nostra infanzia videoludica molto più interessante.