Ci sono momenti in cui il confine tra realtà e finzione si fa così sottile da sembrare scritto da Hideo Kojima in persona.
E questa volta, l’autore giapponese non c’entra solo come ispirazione, ma come protagonista inconsapevole di uno di quei cortocircuiti culturali che rivelano tutto: la fragilità del nostro ecosistema digitale, la fame di polarizzazione, e il modo in cui l’arte (anche quella videoludica) finisce triturata nel tritacarne dei social.
Il caso Zerocalcare–Kojima è, in questo senso, un episodio esemplare. Uno di quelli che raccontano molto più di quanto non sembri. Perché qui non stiamo parlando solo di un fumettista e di un game designer. Stiamo parlando di due simboli culturali che, senza volerlo, hanno toccato un nervo scoperto del nostro tempo.
Tutto parte da una foto. Una foto banale, almeno in apparenza: Kojima, sorriso pacato, un fumetto di Kobane Calling in mano. Accanto a lui, Zerocalcare, con quell’aria tra l’imbarazzato e il divertito che lo contraddistingue. Due autori che, nel loro campo, hanno sempre usato la narrazione per interrogarsi sulla guerra, sull’etica, sulla responsabilità individuale.
"Non sono un eroe, non lo sono mai stato"
Un momento di incontro, forse di reciproca stima. Poi, il disastro. La rete esplode, le interpretazioni si moltiplicano, i sospetti si infittiscono. E nel giro di poche ore, il post scompare. Come in un colpo di scena degno di Metal Gear Solid 2, la realtà sembra riscriversi da sola. La verità? Non conta più. Quello che resta è la reazione.
È bastata un’immagine per innescare la guerra social. Una guerra combattuta non con armi o codec, ma con tweet, commenti, post indignati e screen. È bastata una frazione di secondo per trasformare un gesto di curiosità culturale in un atto politico, un simbolo di schieramento.
Come se la rete non fosse più uno spazio di dialogo, ma una trincea dove ogni parola è una mina e ogni like una coltellata. Kojima, l’uomo che ha fatto dell’ambiguità narrativa la sua firma, si ritrova intrappolato nella semplificazione estrema del dibattito digitale. L’autore che ha insegnato a milioni di giocatori a diffidare delle narrazioni ufficiali viene punito per non averne adottata una chiara. È un’ironia talmente perfetta da sembrare scritta da lui stesso.
Chi conosce i suoi giochi lo sa: Metal Gear non è mai stato solo un videogioco sulla guerra. È sempre stato un’indagine sull’informazione, sulla propaganda, sull’identità. Quando Solid Snake disattiva il Metal Gear, non sconfigge solo una macchina, ma un sistema di controllo. Eppure, eccoci qui, trent’anni dopo, a vedere il suo creatore travolto da un sistema che funziona esattamente come quello che denunciava: un algoritmo che seleziona cosa vediamo, come lo interpretiamo, chi merita empatia e chi disprezzo. Kojima non ha perso credibilità, ha perso il controllo sulla narrazione. Che, in rete, equivale a una condanna.
Il paradosso è quasi tragico: l’uomo che ci ha insegnato a riflettere sul significato della violenza viene aggredito per aver mostrato un graphic novel che parla di pace. Il creatore che ha costruito universi dove l’empatia è l’unico antidoto alla distruzione si ritrova costretto a ritirare un gesto di empatia. Come se l’unico linguaggio accettabile, oggi, fosse quello della contrapposizione. E in fondo, questo dice tutto sul nostro tempo.
Non importa più cosa vuoi comunicare, ma cosa gli altri decidono che tu stia comunicando. Non conta l’intenzione, conta la reazione. È il nuovo codice morale dei social network, un’etica della percezione che trasforma ogni cosa in messaggio politico. Anche una foto, anche un fumetto, anche un sorriso.
Ma il punto è che, a differenza dei mondi digitali di Kojima, nella realtà non esiste il tasto “continua”. Non puoi ricaricare la partita. Non c’è una “chiamata codec” con Otacon che ti spieghi come uscire dal casino. Ogni gesto resta inciso, ogni fraintendimento diventa definitivo.
E così la rete, che avrebbe dovuto ampliare la comprensione reciproca, si trasforma nell’esatto contrario: un gigantesco campo minato dove il primo che esita viene fatto saltare in aria. Il più grande “gioco” di tutti, dove il boss finale non è un nemico, ma il giudizio collettivo. E non si vince sconfiggendolo: si vince, forse, sopravvivendo abbastanza a lungo da non esserne travolti.
Eppure, dentro questo caos, resta un messaggio nascosto. Uno di quei messaggi che solo i fan di Kojima riescono a decifrare, come il codice della frequenza di Meryl stampato sul retro della scatola del primo Metal Gear Solid. C’è un’ironia sottile nella vulnerabilità di Kojima, nel suo essere colpito da ciò che lui stesso aveva previsto vent’anni fa.
In un certo senso, è come se stessimo assistendo all’ennesimo livello del suo gioco più ambizioso: quello in cui l’autore diventa parte della sua stessa metafora. Kojima che cancella un post è il simbolo dell’artista moderno: costretto a muoversi in un labirinto di interpretazioni, consapevole che ogni gesto può essere usato contro di lui. È il prezzo dell’esposizione, il costo della connessione perenne.
Ma c’è anche qualcosa di più profondo, quasi amaro. Perché dietro tutto questo non c’è solo la violenza verbale o la facilità del giudizio: c’è la paura. La paura di sbagliare schieramento, di essere fraintesi, di finire nella lista nera del giorno. È la paura che blocca la curiosità, che sterilizza la complessità, che trasforma la cultura in propaganda. E quando la cultura diventa un campo di battaglia, non resta più spazio per l’empatia.
Solo per la strategia. Solo per la sopravvivenza. È il trionfo dell’algoritmo sulla parola, del trend sull’intenzione, della reazione sull’interpretazione. È la disumanizzazione 2.0, quella che non ha bisogno di soldati ma di utenti.
Ed entrambi, in questa storia, finiscono schiacciati da un sistema che non tollera l’ambiguità. Il che è, in sé, una condanna culturale. Perché se la complessità diventa un rischio, allora non resta che la semplificazione. E la semplificazione è il contrario dell’arte.
Forse, allora, l’unico modo per capire davvero questa vicenda è prenderla per quello che è: un riflesso del mondo che abbiamo costruito. Un mondo dove ogni gesto pubblico è un test morale, ogni like un voto, ogni parola un potenziale errore. Un mondo in cui l’unica vera trasgressione possibile è il silenzio. Ma anche il silenzio, spesso, viene interpretato.
"Ma allora in cosa dovrei credere?"
E quindi si ritorna al punto di partenza, in un loop infinito che neanche Kojima avrebbe potuto immaginare meglio. La guerra social non ha pause, non ha salvataggi, non ha titoli di coda. È il gioco più lungo, più estenuante, più sottile che l’umanità abbia mai creato. E noi, che ci crediamo spettatori, siamo in realtà i protagonisti inconsapevoli.
Alla fine, guardando quella foto scomparsa, viene da pensare che Death Stranding fosse già tutto lì: un mondo di solitudini collegate da fili invisibili, dove ogni connessione può salvare o distruggere.
Forse Kojima non ha cancellato un post. Forse ha solo tolto una corda, per non trascinare altri nella caduta. Forse la vera lezione è che la rete non è il luogo dove si costruisce, ma dove si resiste. E che, in fondo, l’unico modo per “vincere” questa guerra sarebbe smettere di giocare.
Ma nessuno può davvero farlo. Perché, come in ogni gioco di Kojima, il finale è sempre lo stesso: non c’è via d’uscita dal sistema. Ci siamo dentro tutti.