Ronald D. Moore, lo showrunner dell’adattamento televisivo di God of War per Amazon, ha recentemente confessato di non essere un giocatore.
Non ha mai terminato uno dei giochi (che trovate anche su Amazon), non ha mai vissuto direttamente — pad alla mano — le battaglie di Kratos, i silenzi di Atreus, la furia contenuta del dio spartano.
Si è limitato a guardare le cutscene su YouTube e a provare, senza grande successo, una partita qui e là. Eppure sarà lui a guidare uno dei progetti più delicati e attesi nella nuova ondata di adattamenti videoludici per la TV.
La notizia è rimbalzata come un sasso nello stagno di Internet: «non sono un gamer», ha detto Moore, aggiungendo però di essere rimasto affascinato dalla narrazione del gioco del 2018, tanto da volerne replicare la profondità nella serie Amazon.
Un’affermazione che ha generato reazioni contrastanti: da un lato l’applauso cauto di chi apprezza il tentativo di entrare nel mondo del gioco anche da outsider; dall’altro la frustrazione palpabile di chi vede in questa ammissione l’ennesimo segnale che, a Hollywood, il materiale originale resta sempre e solo un trampolino — non un fondamento.
Siamo davvero ancora a questo punto? Dopo il successo di The Last of Us, la rivoluzione seriale di Arcane e la satira corrosiva di Fallout, siamo ancora disposti ad accettare che chi adatta un videogioco così carico di pathos, tecnica e senso ludico non abbia mai veramente giocato?
Possiamo fidarci della sua sensibilità narrativa se il cuore del gioco — il suo sistema di combattimento, il ritmo scandito dai gesti, dalle pause, dagli scontri — non gli appartiene per esperienza diretta?
Moore non è uno sprovveduto. Ha firmato alcune delle pagine più interessanti della fantascienza seriale contemporanea con Battlestar Galactica e ha dimostrato di saper raccontare mondi complessi. Ma God of War non è una serie sci-fi, e Kratos non è un personaggio da osservare a distanza, è una creatura da interiorizzare con i muscoli e con la pazienza.
Se l’adattamento vorrà evitare il destino di essere l’ennesimo “giochino per chi non gioca”, dovrà fare qualcosa di più che copiare in bella copia le cutscene.
In un’epoca in cui i videogiochi hanno dimostrato di essere maturi, profondi, capaci di raccontare come e meglio del cinema, scegliere uno showrunner che non gioca è una contraddizione strategica.
Forse Moore farà un ottimo lavoro. Ma finché non riuscirà a sconfiggere quel troll che lo ha già ucciso più volte, la sensazione sarà sempre quella di una storia raccontata da chi l’ha solo guardata attraverso un vetro.