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Pro
- Ambientazione originale e d’impatto
- Sistema di combattimento innovativo e coerente con i temi della serie
- Stile visivo audace, sporco e perfettamente integrato con il tono narrativo
- Colonna sonora potente e fuori dagli schemi
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Contro
- Tono cupo e atmosfera opprimente potrebbero non piacere a tutti
Il Verdetto di Cultura POP
Il divario tra ricchi e poveri nel nostro mondo si fa sempre più sentire, ma se la divisione fosse tanto netta da dar vita a due civiltà completamente separate? È questo il punto di partenza di Gachiakuta di Kei Urano, e già con i primi due episodi abbiamo scoperto un mondo decisamente più ampio di quanto sembri in superficie. D'altronde, parliamo di un'opera tra le più chiacchierate degli ultimi tempi nel panorama degli shonen, e che potenzialmente potrebbe arrivare a competere con lavori estremamente popolari in questi anni come Demon Slayer e My Hero Academia.
L’annuncio dell’adattamento anime curato da Bones Studio Films — lo stesso team dietro a capolavori come Fullmetal Alchemist: Brotherhood e Mob Psycho 100 — e arricchito dalla graffiante arte urbana di Hideyoshi Andou ha consolidato questa percezione, innalzando Gachiakuta a potenziale nuovo fenomeno dello shonen contemporaneo.
Una distopia di estremi e scarti
Gachiakuta ci trasporta in un futuro distopico profondamente diviso. Da un lato c’è la “Sfera”, città ipertecnologica abitata dagli “apostoli”, dove la spazzatura è pressoché inesistente. Dall’altro lato si estende, invece, una specie di enorme slum, una landa di baracche malmesse e rattoppate dove vivono i “tribali”, reietti di un mondo che li ha scartati come oggetti rotti. Questa divisione non è solo un’allegoria: è una realtà brutale che plasma ogni aspetto dell’universo della serie. Ed è proprio in questo contesto che si muove Rudo, il protagonista quindicenne.
Rudo è un outsider anche tra gli emarginati: la sua passione è dare nuova vita agli oggetti scartati, restaurandoli con cura e rispetto. Insomma, un gesto che sfida la logica in un mondo dove ciò che è rotto viene gettato senza rimorsi. La trama, però, prende piede quando il protagonista viene accusato ingiustamente di un crimine e scaraventato giù nel Baratro, una voragine apparentemente infinita dove viene gettato tutto ciò che non serve più... compresi gli esseri umani destinati alla pena capitale.
Qui, in una discarica infinita popolata da mostri nati dalla spazzatura — i “kaiju” — e avvolta da una nebbia tossica, si apre un incubo a metà tra Mad Max e un mito caduto. Spogliato di tutto, abbandonato come un Prometeo post-industriale o un Lucifero gettato giù dal paradiso, Rudo non si spezza. La sua vendetta diventa promessa, e la promessa si trasforma in giuramento: risalire dal fondo per far pagare il mondo che lo ha gettato via come immondizia.
Rudo si distingue fin da subito per essere tutto fuorché l’eroe shonen tradizionale. Non ha l’ottimismo incrollabile di un Goku né la solarità contagiosa di un Naruto. È ruvido, introverso, scuro. Più vicino al tormentato Denji di Chainsaw Man, parliamo di un protagonista che comunica con la tensione più che con le parole. Ma è proprio in questo attrito tra rabbia e fragilità che il personaggio acquista spessore sin dai primi episodi della serie: la sua vendetta non è solo personale, è un’epopea tragica che coinvolge chiunque sia stato gettato via come lui.
A rendere Gachiakuta ancora più interessante è il suo combat system: Rudo, una volta risvegliata la sua abilità da “Giver”, può incanalare l’energia emotiva contenuta negli oggetti scartati e trasformarla in potere. Ogni arma, dunque, è una storia, ogni colpo è il ricordo di qualcosa o qualcuno. È un’idea geniale non solo per l’originalità del concept, ma anche per la sua coerenza tematica: ciò che per il mondo è spazzatura può essere, nelle mani giuste, fonte di forza. I combattimenti diventano così atti di riscatto, simboli di un’identità che si rifiuta di essere gettata via.
Caos controllato e potenza grunge
Visivamente, Gachiakuta colpisce con forza fin dai primi fotogrammi. L’approccio stilistico è audace e riconoscibile: una grana cinematografica avvolge ogni scena, mentre i personaggi portano addosso l’impronta di un’estetica da graffiti urbano. Bones Film ha scelto di non edulcorare nulla, amplificando piuttosto la sporcizia e l’energia grunge del manga originale. Il risultato è un mondo visivamente coerente, affilato, che pulsa di rabbia e disordine calcolato.
Alla potenza visiva si affianca una colonna sonora che sorprende per intensità: Taku Iwasaki, già apprezzato per il suo lavoro su Bungo Stray Dogs, ha optato per un suono rap-metal ruvido, lontano dalle orchestrazioni raffinate tipiche degli shonen odierni. Le sue composizioni sostengono l’atmosfera con precisione chirurgica: dal terrore e la disperazione della caduta nel Baratro, fino all’ipnosi disturbante dell’entrata in scena di Enjin, il misterioso mentore di Rudo.
Un inizio che promette e scuote
Insomma, dopo appena due episodi, Gachiakuta si presenta non solo come il nuovo shonen da tenere d’occhio, ma come una serie necessaria da seguire questa estate. Non cerca di riempire il vuoto lasciato da anime Demon Slayer o My Hero Academia — lo frantuma, aprendolo ancora di più per far spazio a qualcosa di più viscerale, grezzo e coraggioso. L’adattamento di Bones Film si è dimostrato per ora più che all’altezza del materiale originale, arricchendolo senza mai tradirlo; la fiducia di Kei Urano nello studio è, quindi, stata ben riposta, e se la serie continuerà su questa traiettoria, Rudo potrebbe davvero diventare una figura simbolica di questa nuova generazione di anime.