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Immagine di 14 anni di The Elder Scrolls IV: Oblivion – Quando Tamriel prese vita - Speciale
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14 anni di The Elder Scrolls IV: Oblivion – Quando Tamriel prese vita - Speciale

Esattamente quattordici anni dopo, torniamo alla Cyrodill di The Elder Scrolls IV: Oblivion e ai suoi panorami lussureggianti per indagare sulla più grande impresa di Bethesda.

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Avatar di Adriano Di Medio

a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Pubblicato il 20/03/2020 alle 10:10
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Il Verdetto di SpazioGames

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Alla fine, con The Elder Scrolls IV Oblivion Bethesda non ha fatto che il suo solito: un azzardo. Ma il voler “fare il passo più lungo della gamba” pare a volte necessario perché accada qualcosa di grande. Perché con Oblivion l’impresa non è riuscita, perlomeno non del tutto. Ma fermarsi a questo significherebbe ignorare tutto l’amore racchiuso nel dare vita a questa terra fatta di pennellate e “vita virtuale”. Quindi, se a Skyrim va riconosciuto il merito di aver portato gli Elder Scrolls al grande pubblico, Oblivion ha avuto il ben più ingrato compito di dare al pubblico una visione che non fosse solo ambiziosa ma anche lussureggiante e splendente. E tale è rimasta, pure con tutti i suoi limiti. Benvenuti o bentornati a Cyrodiil.

È stato tra i primi videogiochi che davvero potessero definirsi “next-gen”, un mondo aperto che potesse rendere possibile l’ossimoro del “fotorealismo fantasy”. Stiamo parlando di The Elder Scrolls IV: Oblivion, il debutto su settima generazione di Bethesda e forse una delle più grandi epopee del gaming contemporaneo. Ma come ha fatto Bethesda a riuscire in una simile impresa? Torniamo a Cyrodill per scoprirlo.

Oblivion, ovvero l’ambizione della grande foresta

I lavori su The Elder Scrolls IV: Oblivion sono cominciati ovviamente dopo la pubblicazione di Morrowind nel 2002. L’ambientazione aperta non sarebbe stata una novità, ma erano anche gli anni in cui nella videoludica si andava imponendo il concetto di “luogo da visitare e da vivere”. Bethesda decise di raggiungere questo obiettivo con due strumenti concettualmente molto lontani: l’unicità e la proceduralità. Ciò risultò in una costruzione scenografica che tocca momenti per i tempi fantascientifici e oggi ancora incredibili: gli insediamenti e le città si intravedono da lontano e quando ci si avvicina è possibile vedere dall’alto tutti gli edifici veramente presenti quando si entra: la Torre d’Oro Bianco che svetta sulla Città Imperiale si è conquistata di forza un posto nei più bei panorami videoludici del suo decennio.

Dove le città e i luoghi sarebbero stati nei fatti tutti unici e riconoscibili, le regioni “selvagge” avrebbero impiegato algoritmi capaci di stendere automaticamente e in tempo reale la vegetazione. Un effetto che, pure con una resa un po’ dipendente dalla piattaforma su cui gira, è godibile ancora adesso. Con l’età infatti la resa si è trasformata da fotorealistica a quasi “impressionista”, finendo con il far assomigliare il gioco a un gigantesco dipinto in movimento.

Quella che oggi conosciamo come Cyrodiil nacque sul principio della “densità”, in ogni ambito. L’ammissione ufficiale è che la mappa è circa il 15% più estesa rispetto a Morrowind, ma la differenza principale con quest’ultima e anche con Skyrim sta nella sua insistita “pianura”. La provincia principale dell’Impero di Tamriel fu infatti concepita con l’intento del ricavare quanto più “spazio virtuale” possibile. Il continente di Cyrodiil venne quindi riempito di città, villaggi, rovine e dungeon. Specialmente per questi ultimi gli anni che passano ne hanno evidenziato quanto in realtà fossero tutti troppo uguali tra loro, e una delle poche attrattive che conservano è la ricerca del bottino, che così come i nemici è costantemente parificato al livello del giocatore.

Tamriel o Impero, Roma o Città Imperiale?

Considerando quanto la trama e il mondo di Cyrodiil siano noti e amati dagli appassionati, non è lecito insistere oltre sulle storie, i segreti e i luoghi di Oblivion. Più sensato in tal senso è riflettere proprio sul contesto stesso, su come mai è piaciuto così tanto nonostante la vecchiaia e la capacità di quest’ultima di rendere più palesi i difetti. Com’è facile intuire, l’architettura delle città è ispirata al Medioevo europeo, frutto dei materiali raccolti durante appositi viaggi di documentazione. In tal senso le città “maggiori” di Cyrodiil hanno un’impostazione che ricorda quella dei paesi e degli insediamenti continentali di Francia e Inghilterra, comunità nate e “strette” intorno a un’autorità spirituale (rappresentata dalle cattedrali) o secolare (castelli e conti). Tuttavia l’ispirazione principale è sicuramente quella dell’Impero Romano, e in questo senso la stessa Città Imperiale è una versione medievalizzata e neoclassica della Roma imperiale al suo massimo splendore. Entrambe sono caratterizzati da quartieri opulenti, un’arena gladiatoria e grande concentrazione della ricchezza. Le analogie continuano a livello di retroterra storico con il fatto che tutte e due hanno avuto un primo imperatore poi divinizzato, rispettivamente Tiber Septim poi diventato Talos e Giulio Cesare divenuto il Divo Giulio; tra l’altro “Tiber” ricorda sia il nome Tiberio che una deformazione di “Tevere”. Infine i soldati imperiali di Tamriel sono organizzati in legioni, esattamente come lo era l’esercito romano.

Alla fine della trama principale verrà investito del titolo di Campione di Cyrodiil, ma comunque ciascuna catena di quest “maggiori” (Guerrieri, Maghi, Ladri e Confraternita Oscura, con l’aggiunta apocrifa dell’Arena) hanno alla fine un titolo da accumulare. Pure se ciascun personaggio è molto più unico e irripetibile di molte altre opere simili, alla fine si finisce con il fargli fare tutto di ogni cosa. Probabilmente in tal senso forse si colloca il “difetto zero” degli Elder Scrolls: il mondo di gioco esiste solamente in funzione del giocatore, qualcosa di chiaramente necessario a livello tecnico ma che comunque toglie rilevanza a parametri, classi e specializzazioni.

Una possibilità che si amplia però a livello contestuale con l’introduzione prima della “mini-avventura” Knights of the Nine, intraprendibile solamente adottando una condotta retta, e dell’espansione Shivering Isles. Quest’ultima era di nuovo costruita su una contrapposizione, che dove nelle Lande Morte di Dagon era estetica, Mania e Demenza sono fatte in contrapposizione alla razionalità e alla “natura” di Cyrodill, essendo Sheogorath il principe pazzo dei Daedra.


Oblivion: perché le cose cambino

In effetti, la cosa di Oblivion che è potuta solo peggiorare in questi anni è proprio la resa dei personaggi non giocanti. Ai tempi il fatto che fossero nei fatti tutti unici (specialmente da un punto di vista facciale) fece passare sotto silenzio come i dialoghi con loro fossero fin troppo freddi e impersonali. Le spiegazioni per questo sono state molte, dal fatto che la libertà d’azione concessa al giocatore si fosse ritorta contro gli stessi sviluppatori (come del resto era successo in fase di programmazione con la Radiant AI) fino all’inesperienza nell’assumere e coordinare attori vocali (appena una quindicina per coprire un migliaio di ruoli parlanti) per la registrazione dei dialoghi.

Perché Oblivion fu così ambizioso che vennero ingaggiate anche personalità molto famose per i personaggi: i due che vengono più volte citati sono Sir Patrick Stewart (attore shakespeariano ma noto per essere stato il Professor Xavier degli X-Men) per Uriel Septim VII e Sean Bean (famoso per essere stato Boromir ne Il Signore degli Anelli) su Martin Septim, ruolo che tra l’altro ha portato avanti anche in ambito videoludico la sua reputazione di “spoiler vivente”. The Elder Scrolls IV: Oblivion alle volte pare quasi “bipolare” su questi difetti che l’età ha fatto riemergere, ma in realtà è solo segno di quanto il gioco fosse già nel futuro ma ancora un po’ nel passato.


Lo stesso finale della quest principale, con Martin che si sacrifica trasformandosi in drago (incarnazione di Akatosh) per scacciare per sempre Dagon dal mondo materiale, è stato soggetto a molte interpretazioni, alcune delle quali finite addirittura nella guida strategica ufficiale. Il drago trasformato in pietra è stato pensato come un monumento eterno al sacrificio di Martin Septim, come un sostituto della barriera magica dei Fuochi di Drago. Altri pensavano che fosse lo spartiacque tra la Tamriel “mitologica” e quella storica, ovvero un’epoca dove le forze divine non avrebbero potuto più interferire in maniera così brutale con la storia umana. E infine, altre idee più estreme vedevano il drago come il simbolo di come gli umani non avessero più bisogno di miracoli, amuleti divini e imperatori teocratici per proteggersi dal male. Sono tutte interpretazioni e in quanto tali con il loro margine di soggettività; tuttavia il finale di Oblivion potrebbe avere anche un significato metavideoludico: Bethesda cercava l’impresa di dare la prima, autentica sensazione di “mondo virtuale vivo”, che parlasse non solo alla nicchia. E volendo c’è riuscita: dopo Oblivion le cose nella videoludica di ruolo occidentale sono cambiate e non sono state mai più le stesse.

Alla fine, con The Elder Scrolls IV Oblivion Bethesda non ha fatto che il suo solito: un azzardo. Ma il voler “fare il passo più lungo della gamba” pare a volte necessario perché accada qualcosa di grande. Perché con Oblivion l’impresa non è riuscita, perlomeno non del tutto. Ma fermarsi a questo significherebbe ignorare tutto l’amore racchiuso nel dare vita a questa terra fatta di pennellate e “vita virtuale”. Quindi, se a Skyrim va riconosciuto il merito di aver portato gli Elder Scrolls al grande pubblico, Oblivion ha avuto il ben più ingrato compito di dare al pubblico una visione che non fosse solo ambiziosa ma anche lussureggiante e splendente. E tale è rimasta, pure con tutti i suoi limiti. Benvenuti o bentornati a Cyrodiil.

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