Un videogioco con ghiaccio, grazie - Puntata 3

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Benvenuti al terzo appuntamento di Un Videogioco con Ghiaccio, la rubrica settimanale alla scoperta (e riscoperta) di videogiochi con cui trascorrere l’estate. Dove nella puntata precedente avevamo parlato di un’opera di nicchia ma assai stimata, oggi torniamo a qualcosa di più vicino al primo episodio. Way of the Samurai 3 è infatti un titolo controverso, in cui ispirazioni inaspettate si alternano a insensate voragini. Un titolo che, forse più di altri, smuove dettagli e ricordi a chi scrive. Era l’anno di Total War Shogun 2, in cui avevo speso centinaia di ore alla conquista del Giappone feudale. In cerca di altre esperienze videoludiche ambientate in tale periodo, mi imbattei nel videogioco di oggi in una calda giornata di fine luglio 2011. Ancora risentito dal fatto che Yakuza Kenzan non fosse stato pubblicato in Occidente, decisi di dargli una possibilità. Dopo la fatica iniziale, scoprii il piccolo grande mondo di Way of the Samurai 3.
L’albero delle trame
L’anno da tenere in considerazione è in realtà il 2010. È infatti in tale anno che il gioco viene pubblicato, segnando l’esordio del franchise sulla settima generazione di console. I primi due episodi infatti erano stati sviluppati su PlayStation 2, e il cambio di generazione non ne ha stravolto la struttura. Ci troviamo a vestire i panni di un giovane samurai che, a seguito di uno scontro, si ritrova da solo in una regione sconosciuta. In questo caso il luogo si chiama Amana, ed è una terra contesa tra tre clan (i dominanti Fujimori, i decaduti Ouka e i contadini Takatane). Le classi umili sono vessate dalle tasse per mantenere il lusso dei padroni, i quali hanno ugualmente decimato la gioventù locale per i loro insensati conflitti.
Queste le (solite) premesse, ma da quel punto la trama può variare enormemente a seconda di quello che decidiamo di fare. C’è infatti molto libero arbitrio, e il nostro intervento influirà sul destino di Amana e dei suoi abitanti. Nei fatti, il nostro personaggio non è altro che una scusante narrativa per mettere in scena numerose sottotrame e altrettanti comprimari. Sono infatti questi ultimi il punto di forza principale della storia. Ciascuno parte da uno stereotipo (il contadino, il bambino insolente, il feudatario spietato, l’idealista) per poi ricevere notevole caratterizzazione. La maggioranza delle trame così diviene decisamente drammatica, con non pochi finali tragici.
I punti esclamativi
Ma in tutto questo, come si inserisce il gameplay? Essenzialmente muoveremo il nostro samurai nelle otto aree in cui è suddivisa Amana, facendolo interagire con l’ambiente e i personaggi. Gli snodi delle trame saranno indicati sul menu come dei punti esclamativi, ma starà essenzialmente a noi capire dove queste scene si attiveranno. Un compito che comunque non richiederà particolare fatica: le aree sono infatti molto ristrette.
Già di per sé questo potrebbe essere un difetto, ma c’è dell’altro. Ogni volta che moriremo verremo ricompensati con un titolo e un certo numero di Samurai Points (sono cumulativi e sbloccano bonus e contenuti). Potremo inoltre tenerci le armi e gli oggetti unici trovati nel corso della “passeggiata”.
Tale termine non è utilizzato a caso: specialmente le prime partite si ridurranno proprio a quello. Il gioco infatti soffre di una cronica criticità: ci fa creare il personaggio per poi abbandonarci completamente da soli. Nessun tutorial né suggerimento su come proseguire o che cosa fare. Cosa che si traduce in momenti ciechi e più morti di quanto sarebbe lecito. Se nell’era PS2 era solo una sfida in più, ora altro non è che un sofismo inutile, un tritacarne della giocabilità. Il meccanismo di dover passare per il menu principale a ogni morte (anche accidentale) e l’ansia di dover salvare costantemente per non perdere i progressi fatti rende tutto molto frustrante.
La rozzezza tecnica
Non giriamo attorno all’ovvio: graficamente questo gioco è pessimo. I poligoni sono pochi, le aree ristrette e le animazioni legnose. La resa degli effetti atmosferici è poco incisiva e il tutto manifesta pure problemi di fluidità. I personaggi principali godono di un maggior dettaglio, mentre gli NPC sono tutti uguali tra loro e dall’intelligenza artificiale rozza.
Tutto sembra fermo all’era PS2 di cui sopra, ma c’è qualcosa che non convince. Il fatto che, nonostante tutti questi difetti, il gioco sia immersivo. Amana è un perfetto “non luogo”, un posto che sta dovunque e da nessuna parte, che ha il solo obiettivo di rievocare in videogioco il feudalesimo giapponese. E a parte gli ovvi stereotipi, ci riesce con una sincerità imbarazzante. Il design sobrio ma puntuale, le strutture realistiche, il sole opprimente e il grigio dei temporali. Una rappresentazione malinconica di un feudalesimo straccione fatto di sangue, sporcizia, onore, opportunismo, giustizia, vendetta. Ma proprio per questo, più vero e umano. 
Un’atmosfera aiutata da tanti accorgimenti, grandi e piccoli: la colonna sonora è veramente bellissima e ispirata, fatta di strumenti tradizionali e chitarre malinconiche. La stessa Amana gode di una capacità di adattamento non comune: ad esempio gli NPC ci riconosceranno qualora entrassimo a far parte di una fazione. E nonostante la loro ristrettezza, paradossalmente ci si può perdere nelle aree del gioco, alla ricerca di ogni minuscolo segreto tanto serio quanto faceto.
Combattimento e adattamento
Non sarebbe un videogioco a tema feudalesimo giapponese se non vi fosse anche un sistema di combattimento. Senza scendere in dettagli tecnici, si rivela rigido ma ben piantato: potremo estrarre la katana in qualunque momento. L’ingaggio dei nemici è sempre uno contro uno, fatto di passi laterali, fendenti e contromosse. La lotta diviene ragionata, in quanto dovremo fare i conti con la fragilità della lama e le mosse dell’avversario. Potremo anche personalizzarla presso un apposito fabbro (Dojima, personaggio ricorrente nella serie).
Ma specialmente all’inizio, la condotta diplomatica sarà sempre la scelta migliore. Un po’ perché non avremo ancora recuperato equipaggiamenti dignitosi, un po’ perché spinti dalla voglia di vedere ogni possibile variazione delle vicende. Questo perché la struttura del gioco è un altro punto controverso: andando in direzione ostinata e contraria all’industria, Way of the Samurai 3 si fonda sulla rigiocabilità estrema. Questo vuol dire che è possibile giungere a un finale tra le tre fazioni in due o tre ore di giocato al massimo. Un incentivo a passarci tutta l’estate, a patto di avere una buona comprensione dell’inglese.

Way of the Samurai 3 è un videogioco mostruosamente particolare: il ghiaccio potrebbe non abbinarsi bene. La sua è un’esperienza di nicchia, e pertanto adatta solo a un certo tipo di giocatori. Dice poco di sé, il gameplay è rigido e la grafica abbozzata e approssimativa. Ma allo stesso tempo vi traspare un sincero amore per il contesto, l’epoca storica e l’idea stessa di samurai. Narrativo e teatrale, sporco ma efficace, il titolo Acquire si fregia di una colonna sonora meravigliosa e di un incedere riflessivo. Gli appassionati avranno già deciso di dargli un’occhiata ancor prima di arrivare a leggere queste righe, ma se siete quelli che al sentire “samurai” pensano agli stuzzicadenti… Allora lasciate perdere, ci sono altre nicchie.