Recensione

L. A. Noire, recensione della riedizione current gen

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Rockstar ci ha sempre abituati a prodotti d’azione, a uomini cinici ma determinati e a narrazioni ironiche ma graffianti, sapientemente intinte nell’action puro, criminale. Prodotti di qualità altissima, dal successo altrettanto astronomico. Le 85 milioni di copie di GTA V sono lì a dimostrarlo. Eppure, spesso si dimentica che non c’è solo il crimine virtuale e satirico nella loro storia.
Era il 17 maggio 2011 quando sulla precedente generazione di console vide la luce un titolo differente da tutto questo: un amaro, ombroso poliziesco. L.A. Noire fu questo: l’esperimento audace di voler fondere narrazione e interattività a un livello più intimo. Ambientarono questa missione-feticcio dell’età matura di PlayStation 3 e Xbox 360 in un’America appena vincitrice dell’ultima guerra mondiale. Un titolo che (paradossalmente) vendette poco per gli standard di Rockstar, ma con una “gloria postuma” sufficiente a garantirgli una riedizione sulla corrente gen. Sei anni dopo eccoci quindi di nuovo qui, a cercare di capire l’opera di Brendan McNamara. Di nuovo nella sua Los Angeles del 1947, a guardare oltre la nostalgia di una foto color seppia.
L’eroe di guerra diventato poliziotto
I panni che ci ritroviamo a vestire sono quelli di un semplice uomo di nome Cole Phelps. Egli è uno dei tanti militari che ha combattuto contro i giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Al congedo, ha cercato di lasciarsi alle spalle quel terribile trauma con una carriera in polizia. Dalla fase di semplice agente di pattuglia (che fa da tutorial) fino ad approdare alla sezione investigativa, il suo talento emerge con prepotenza e le promozioni arrivano senza grossi intoppi. Fino a quando l’ingerenza del dipartimento e il suo passato bellico non torneranno a rovinargli una serenità faticosamente costruita.
Mai come in questo caso andare oltre nella trama e nei suoi colpi di scena sarebbe imperdonabile. Il titolo Rockstar propone una storia compiuta e verosimile, oltre che drammatica e amara. Se Phelps occupa il presente nel portare a galla il marcio della Los Angeles degli anni d’oro, i suoi trascorsi come militare saranno dosati in flashback dalla fotografia verdognola. Apprenderemo ben presto il suo tormento, nascosto in perfetto noir sotto il suo rigido senso della giustizia. In verità, la trama del gioco non cerca la linea netta tra bene e male, piuttosto invita a riflettere su come il vizio e la depravazione possano tristemente colpire chiunque. Lo stile è quello solito: graffiante ma non moralista, in ogni momento cerca di ironizzare tanto nei dialoghi quanto visivamente. La sceneggiatura inserisce nel suo 1947 gli echi dei nostri tempi, con dialoghi caustici su politica, guerra, vizio, corruzione, ipocrisia e chi vuole usare la giustizia per i propri scopi.
Oltre ai casi della trama principale (ventuno), questa edizione ovviamente propone tutti i contenuti pubblicati in digitale, dagli abiti extra ai casi aggiuntivi (cinque), incaricati di illuminare meglio alcuni retroscena della parabola del detective.
Un videogioco di attese, parole e sguardi
Per quanto normalmente classificato come videogioco d’azione, in realtà L. A. Noire è un interessantissimo ibrido tra il poliziesco e l’avventura grafica. Un gameplay che sembra battuto a macchina da scrivere per quanto è secco e preciso. Il gioco infatti insiste particolarmente nel proporre un’idea meno mitizzata dell’investigatore. Costui non è un svampito tutto sparatorie e lampi di genio, ma una persona razionale che indaga, esamina, interroga e deduce. Ed è esattamente quello che faremo per buona parte del gameplay. Ogni caso assegnatoci ci vedrà recarci sulla scena del crimine per esaminare gli indizi, raccogliere prove e sentire le testimonianze. Fulcro dell’attività di Phelps è il suo taccuino: lì saranno immagazzinate tutte le informazioni necessarie al caso, oltre che ai luoghi scoperti e le persone coinvolte. Sempre attraverso di esso passerà il sistema di interrogazione e raccolta delle testimonianze. Questi dialoghi erano e rimangono probabilmente la parte più riuscita della produzione: Phelps porrà delle domande ai teste, e starà a noi capire se la risposta è sincera o meno. L’unico modo per farlo sarà osservarli mentre parlano e aspettano, cercando di cogliere nelle loro espressioni e sguardi qualcosa di sospetto. Alla deposizione si può reagire in tre modi: assecondare la risposta, forzare la persona a dire tutto oppure smentirla, accusandola. Va da sé che quest’ultima possibilità richiede che si abbiano prove convincenti, pena il rifiuto a collaborare. In sé comunque il gioco non incentiva una condotta aggressiva, spingendo più al dialogo puro. In aiuto verranno i cosiddetti Punti Intuito: guadagnati salendo di livello, permetteranno di evidenziare gli indizi o facilitare gli interrogatori rimuovendo una risposta sbagliata.
Nonostante la grande libertà concessa e le diverse strade possibili per concludere ogni caso, il gioco è comunque disegnato in modo tale da non far rimanere mai bloccati o rendersi irrisolvibile. Volendo è una scelta di game design quasi simbolica, che pare affermare come ognuno abbia un qualche scheletro nell’armadio pur se magari è innocente per quel crimine per cui lo stiamo torchiando in quel momento. Lo script del gioco è quindi incredibilmente elastico, scritto appositamente per favorire la progressione. E per quanto funzioni eccellentemente anche dopo un lustro, certe volte ancora si avverte la sensazione di essere un po’ “spinti” in avanti, quasi in contrasto con la riflessività del gameplay.
Ulteriore elemento di vivacizzazione è rappresentato dai frequenti inseguimenti (a piedi come in auto) in cui acciuffare i colpevoli o i malviventi colti sul fatto. Gli scontri a fuoco sono ovviamente presenti, ma chi ne volesse di più dovrà per forza di cose dedicarsi alle missioni secondarie, dove sventare piccoli crimini passando all’azione. Nel caso di combattimenti con le armi, il gioco si rifà direttamente al sistema di coperture di prodotti suoi contemporanei come Red Dead Redemption. Molti degli incarichi secondari andranno trovati direttamente sulla mappa oppure rispondendo alle chiamate di volta in volta passate dalla radio della polizia.
Los Angeles, sei anni dopo
Se quindi il prodotto originale è ancora presente nella sua interezza e ispirazione, è anche inevitabile ribadire che siamo davanti a una rimasterizzazione. La riedizione ovviamente approfitta delle nuove console per stabilizzarsi tecnicamente. La città di Los Angeles appare quindi ben piantata e assolutamente verosimile: si rimane ancora adesso incantati dai neri della notte e dai riflessi sulle carrozzerie delle auto. I volti realizzati con il motion-capture non sono stati ovviamente toccati, e la loro estrema cura ancora oggi stupisce. Stesso vale per gli ambienti e le abitazioni, tratteggiati con estremo realismo.
Ma nonostante sia sensibile l’aumento di dettaglio e stabilità, è palese che siamo davanti a un prodotto del 2011. La linea di grattacieli e macchine appare oggi troppo “dritta” e squadrata (con aliasing e un po’ di pop-up), così come il poco dettaglio su vegetazione e terreno erboso. Ugualmente si nota il diverso dettaglio tra i volti che hanno ricevuto il motion-capture e quelli per cui non era necessario. Permane infine lo stacco notevole tra visi e corpi: i lineamenti appaiono ancora “incollati” a corpi rigidi. La potenza di PS4 fa quel che può a riguardo, ma un occhio attento se ne accorgerà sempre. Una cosa però va detta: la prova attoriale per ogni personaggio (a prescindere dal ruolo) è assolutamente encomiabile, e ancora adesso è quel fattore “in più” che dimostra quanto il titolo Rockstar fosse avanti per i suoi anni. La colonna sonora non è stata ovviamente toccata, nel suo combinare pezzi jazz d’epoca con i giusti archi nelle situazioni più tese. Ancora adesso rimane bellissima e familiare la coppia di note di pianoforte che il programma riproduce quando ci si avvicina a un oggetto che Cole può raccogliere o esaminare.

-Il noir poliziesco videoludico

-Intenso, atipico, unico

-Atmosfera ed espressività ad altissimo livello

-Tecnicamente si nota che è del 2011

-Nessun contenuto aggiuntivo oltre il 4K

8.0

Coloro che ai tempi decisero di dargli fiducia già lo sanno: L. A. Noire è un capolavoro. Lo è perché si allontana dalla sfrontata grandezza di altre opere Rockstar per un incedere più dimesso e riflessivo. Inseguendo e raggiungendo la cinematografia di genere, imposta un autentico poliziesco tanto nella storia quanto nel gameplay, che qui si fondono con rara naturalezza. C’è solo da essere felici che sia stato portato anche sulla corrente generazione. Per quanto assennata, la conversione mantiene comunque tutti i limiti (tecnici e non) dell’originale. Ma lasciateci dire che non è qualche imperfezione tecnica o compenetrazione che dovrebbero sconsigliarvi l’acquisto, se già non lo possedete. In quest’ultimo caso la riedizione non offre contenuti esclusivi, dunque non c’è veramente alcuna ragione (al di là del collezionismo o dell’amore per il 4K) per cui dovreste ricomprarlo.

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8