GameStop ha deciso di mettere la parola fine alla console war. E non lo fa con un articolo, un video o una dichiarazione spontanea, ma con un comunicato social confezionato come un meme aziendale.
“GameStop, in qualità di entità neutrale, dichiara la fine ufficiale della console war.”
Un annuncio tanto surreale (e po' cringe) quanto emblematico di ciò che è diventato oggi il mondo del gaming. La pace tra le console, sancita non da una rivoluzione tecnologica, ma da un post virale, da un’operazione di marketing che si finge gesto di fratellanza universale. Eppure, dietro quella patina ironica e da social manager in stato di grazia, si nasconde una verità che brucia: la guerra non è finita oggi.
È semplicemente morta da tempo, evaporata nell’indifferenza generale, svuotata di ogni significato in un’industria che ha trasformato l’identità in servizio e la passione in abbonamento mensile.
Chi ricorda la console war?
Una volta, la console war era qualcosa di serio. Davvero serio. Era l’adolescente che nel 2001 sceglieva il verde Xbox per poter giocare a Halo: Combat Evolved e sentirsi parte di qualcosa. Era il fan che difendeva la sua fazione nei forum, con lo stesso fervore di chi discute di calcio o politica. C’erano barricate digitali, slogan, identità. O eri con Sony, o eri con Microsoft, o (più raramente) eri con Nintendo. Era una lotta culturale prima ancora che commerciale.
Oggi, invece, tutto si dissolve. Halo sbarca su PlayStation, e nessuno grida al tradimento. Non c’è scandalo, non c’è indignazione. Anzi, si applaude la “visione” di Microsoft, la sua “apertura mentale”, la sua “inclusività”. Le stesse parole che il marketing ha svuotato di significato e trasformato in anestetici per ogni dibattito.
La narrativa ufficiale è che il gaming è di tutti, che i muri cadono, che le piattaforme dialogano. Tutto bello, tutto edificante. Ma anche tremendamente falso.
Perché la verità è che questa pace non nasce da un’evoluzione del medium, ma da una resa. Non è una vittoria dell’inclusione, è la fine dell’esclusività. E l’esclusività, piaccia o meno, era il motore stesso dell’identità di una piattaforma. Quando un titolo come Halo o God of War smette di essere il simbolo di un ecosistema e diventa un file da scaricare ovunque, il senso di appartenenza svanisce. Resta il prodotto, ma non l’anima.
La console war non è finita per mancanza di munizioni, ma per mancanza di soldi. Le guerre costano. Le esclusive costano. E il costo dello sviluppo moderno è diventato talmente mostruoso che perfino le colossali major non possono più permettersi di combattere. Un tripla A di oggi costa centinaia di milioni di dollari, richiede anni di lavorazione e rischia comunque di non rientrare dell’investimento. E allora le aziende, invece di sfidarsi, si abbracciano. Non per amore, ma per sopravvivenza.
Microsoft non porta Halo: Campaign Evolved su PlayStation per altruismo, ma per profitto. Sony non lo accoglie per fraternità, ma per necessità. Entrambe hanno capito che i confini non portano più denaro, e che la vera moneta oggi è l’abbonamento. Il giocatore non è più un fan, è un cliente ricorrente. E il campo di battaglia non è più la console, ma il servizio. Il logo non è più una bandiera, è un’icona su un dashboard pieno di app.
In questa nuova era, il concetto stesso di “guerra” diventa ridicolo. Chi combatterebbe, se può semplicemente collaborare e spartirsi il bottino? L’industria ha sostituito la rivalità con la coesistenza, l’ambizione con la sinergia. Tutto deve essere “cross-platform”, “multi-device”, “cloud-based”.
Parole che suonano progressiste, ma che in realtà descrivono un mercato dove tutto è uguale, tutto è accessibile, tutto è privo di carattere. È la pace del supermercato digitale, dove i prodotti sono infiniti ma l’esperienza è sempre la stessa.
La console war, quella vera, era un atto di fede. Oggi è un hashtag. Un tempo c’erano identità contrapposte, oggi c’è solo convergenza. Tutto deve piacere a tutti, tutto deve essere accettabile, condivisibile, “neutro”. Il gaming è diventato diplomazia, e la diplomazia è noia. Quando tutti vincono, nessuno si diverte più.
Questa non è una pace, è un’armistizio del marketing. È il trionfo della comunicazione corporate su ogni forma di passione autentica. L’industria ha deciso che la guerra non serve più, non perché sia sbagliata, ma perché non è più redditizia. E così, la sostituisce con un eterno presente di slogan conciliatori, con post ironici, con collaborazioni “storiche” che nascondono la paura di osare.
Il paradosso è che, mentre le aziende si dichiarano “neutrali”, i giocatori si ritrovano più divisi che mai, ma su questioni ben più futili. Non più su quale console sia migliore, ma su quale versione abbia più microtransazioni, quale patch pesi meno, quale servizio di cloud funzioni in modo decente. La rivalità si è spostata dal cuore al portafoglio, dalla passione al contratto di licenza.
In tutto questo, GameStop si muove come un prete laico che celebra il funerale della console war con tono solenne ma sorriso ironico. L’azienda sa perfettamente che non può più fare affidamento sui collezionisti o sui nostalgici. Sa che il retail è una reliquia. E allora trasforma la tragedia in commedia. Dichiarare la fine della console war diventa un atto performativo, un modo per restare nella conversazione. Perché, nel mondo dei social, chi parla esiste. Anche se non ha più nulla da dire.
E così, il meme di GameStop funziona. Fa ridere, fa discutere, fa engagement. Ma è anche un epitaffio. Il simbolo di un’industria che ha perso il gusto per la rivalità, per la differenza, per l’identità. Una pace di plastica, lucidata dal marketing e consegnata in confezione biodegradabile.
La quiete dopo la tempesta
Qualcuno dirà che è giusto così, che il progresso è inevitabile, che il futuro è cross-platform e che le esclusive sono un concetto antiquato. Forse hanno ragione. Ma resta una domanda: cosa ci rimane quando tutto è ovunque? Quando il confine scompare, scompare anche il senso di appartenenza. E senza appartenenza, il gioco diventa solo consumo.
In fondo, la console war era anche un modo per appassionarsi, per credere in qualcosa, per difendere una scelta. Era infantile, certo, ma era vera. Oggi, invece, l’unica guerra rimasta è quella tra algoritmi. Tra chi riesce a trattenerti più minuti sulla piattaforma, tra chi ti convince a rinnovare un abbonamento. È la guerra fredda del digitale, combattuta coi like.
Ecco perché la dichiarazione di GameStop suona così amara. Perché arriva come una barzelletta che chiude un funerale. Tutti ridono, ma nessuno osa ammettere che un pezzo di storia è morto davvero. Halo su PlayStation non è solo un evento simbolico: è la pietra tombale su un’epoca in cui le console avevano un’anima, un pubblico, una causa.
La console war è finita, sì. Ma non è la vittoria della pace. È il silenzio dopo la resa. È la normalizzazione del tutto, il livellamento verso l’indifferenza. È la vittoria dell’abbonamento sulla passione, del logo sulla fedeltà.
Benvenuti nella pace perpetua del marketing. Quella dove tutti sorridono, tutti applaudono, tutti vincono. Ma, alla fine, nessuno si diverte più.