Recensione

Into the breach - Recensione di un incrocio tra Starship Troopers e scacchi

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a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Steam è un coacervo di prodotti, dalle dimensioni ed ambizioni più disparate, che spaziano dalle produzioni tripla A, che danno spesso la paga alle controparti console, ai titoli indipendenti più piccoli, spesso opera di team ristrettissimi, quando non di una singola, brillante mente. Into the breach, ultima fatica degli stessi autori dell’ottimo FTL – Faster Than Light, pesa meno di centocinquanta mega, e cioè meno di un aggiornamento di una delle applicazioni presenti sul vostro smartphone: eppure basta ed avanza per diventare una delle droghe da cui dipenderete nei prossimi mesi. Poi non dite che non vi avevamo avvisati.

Maledette locuste…ah no.

Il pianeta Terra, per come lo conosciamo noi, è andato: una razza di insettoidi di origini aliene, emersa dalle viscere della terra e chiamata Vek, lo ha progressivamente distrutto, annientando ogni forma di vita senziente e prosciugando le risorse naturali per i propri scopi. Eppure no, non siamo in uno spin off della saga di Gears of War: per quanto asciutta e non esattamente originale, la narrativa di Into the breach riesce ad avvolgere il giocatore in un bozzolo di fantascienza, amore per i mech, viaggi nel tempo e nemici con un numero di zampe variabile da quattro a dodici. L’unica salvezza del genere umano è rappresentata da un manipolo di coraggiosi soldati capaci di viaggiare nel tempo, che irrompono sui campi da battaglia pilotando enormi mech da guerra, ognuno con le sue peculiarità e la sua arma in dotazione.

Nonostante la presenza di una delle penne più brillanti ed acute dell’attuale panorama videoludico, quella dello sceneggiatore americano Chris Avellone, la natura stessa del prodotto, con missioni, terreni di scontro e personaggi generati casualmente ad ogni partita, non favorisce né l’immedesimazione né la partecipazione alle vicende del gioco. Nondimeno, l’atmosfera che si respira, complice anche una colonna sonora d’eccezione, ha dell’incredibile: sentori di X-Files, scene che sembrano tratte da Starship Troopers, momenti kaiju che nemmeno il fan giapponese più ardito ed echi di Xcom si susseguono senza soluzione di continuità, contribuendo a creare un universo che sopperisce con il carisma e l’elevato livello di sfida all’inevitabile eccesso di familiarità. Di certo non giocherete all’opera di Subset Games per il suo intreccio o per la profondità dei personaggi, eppure siamo pronti a scommettere che le mappe ristrette ed il design tanto dei mech quanto dei repellenti nemici vi rimarranno impressi nella mente a lungo.

Sacrificio per un bene superiore

Quando si scende in campo, Into the breach è precisione, pianificazione, pensiero laterale, uniti alla capacità di utilizzare al meglio le scarse risorse a disposizione. Il prodotto Subset Games è quanto di più vicino agli scacchi abbiamo mai esperito in ambito videoludico: il fattore casuale è limitatissimo, per non dire quasi assente, e ad ogni mossa corrisponde, in maniera inequivocabile ed irrimediabile, una contromossa. Il giocatore schiera i suoi mech su una griglia otto per otto, sulla quale inizialmente ci sono solo parte dei nemici che ci si troverà ad affrontare: gli altri emergeranno dal sottosuolo turno dopo turno, a meno di non posizionare un’unità al di sopra del punto di emersione, così da bloccarne l’ascesa al costo di un punto ferita.

I movimenti e le azioni dei nemici nel turno successivo sono chiaramente evidenziati, consentendo di pianificare fin nei minimi dettagli le mosse successive: a queste condizioni, appare evidente come i numerosi fallimenti cui si andrà incontro saranno sempre e solo colpa di un movimento azzardato o di una strategia inefficace da parte del giocatore. Il fattore rng è associato solamente alla generazione casuale delle mappe, che, come in tutti i roguelike, riserva determinate run leggermente più complicate di altre, e alla possibilità che un edificio resista ai danni portati dai Vek, con probabilità scandite da un valore numerico comunque sempre a schermo, che può essere aumentato portando in battaglia certi piloti invece di altri.

Per il resto, le battaglie di Into the breach premiano il giocatore capace di prevedere i turni successivi, proprio come farebbe uno scacchista scafato, quello pronto a sacrificare uno o più mech per salvare i suoi edifici e quello che, piuttosto che infliggere il colpo di grazia a un nemico morente preferisce rinculare e proteggere una centrale idroelettrica di grande importanza strategica. Senza soffermarci sul gran numero di mech a disposizione, da quelli a corto raggio a quelli dotati di cannoni balistici, possiamo descrivere in due righe i cardini del gameplay: il posizionamento è decisamente l’elemento più importante del gioco, visto che moltissimi colpi, oltre ad infliggere danni, spostano di una o più caselle il ricevente, impedendogli, così, di portare a sua volta il colpo programmato.

Nella stragrande maggioranza dei casi, allora, giocare a “carambola” con le unità nemiche, scagliandole l’una contro l’altra e causando loro danni collaterali, si rivela la strategia più fruttuosa: l’obiettivo delle missioni, data la soverchiante inferiorità numerica, non è mai quello di annientare l’armata nemica, quanto piuttosto quello di difendere l’integrità degli edifici, con tutta una serie di obiettivi secondari da soddisfare. Questi ultimi non sono necessari per il completamento delle singole missioni, ma portarli a termine consente di guadagnare punti reputazione, da spendere poi per migliorare il proprio esercito, guadagnando, nel processo, preziosi punti esperienza.

Già al livello Normale, quello impostato di default, a partire dalla seconda delle quattro isole conquistabili vi troverete a sudare sangue, tra calamità naturali che spazzano le mappe (come alluvioni o tempeste di fulmini), attacchi aerei coordinati e unità nemiche capaci di conferire bonus passivi a tutti i loro commilitoni. Al livello difficile, poi, la sfida diviene presto proibitiva: nemmeno la possibilità di piegare il tempo ai propri bisogni, riavvolgendo un singolo turno per partita, può salvare dall’ondata Vek, che si fa sempre più numerosa e aggressiva al salire del livello di difficoltà. Eppure, come per i giochi di Hidetaka Miyazaki, la sconfitta che Into the breach infligge non è mai fine a se stessa, crudele o frustrante: sbagliare aiuta a migliorarsi, a conoscere il modus operandi delle unità nemiche, a sperimentare tattiche inedite o a mischiare le carte all’interno del proprio esercito.

Questo, in termini ludici, si traduce in una formula assuefacente, che spinge a provare e riprovare, incolpando se stessi dei game over continui e, nel contempo, prendendosi i meriti per una strategia vincente, che si realizza dinanzi ai nostri occhi come la più diabolica delle trappole. Altre due carte vincenti sono la libertà di personalizzazione del proprio esercito e quella di approccio all’interno delle missioni: la prima si realizza in un grandissimo numero di unità, ognuna delle quali può essere modificata in valori come i punti vita, la distanza percorribile, il range di attacco e le abilità secondarie, mentre la seconda favorisce un utilizzo creativo delle sparute risorse elargite dal gioco, tra ambienti interattivi (l’acqua uccide i Vek, il fuoco li danneggia nel tempo ed attecchisce nelle foreste, la sabbia acceca le unità e così via) ed unità bonus. Tutto funziona come un ingranaggio perfetto, come l’opera somma di un fine orologiaio.

Parola d’ordine: essenzialità

Come per l’aspetto narrativo, con l’analisi del quale avevamo aperto questa recensione, anche quello tecnico ed artistico non può prescindere dal budget della produzione e dalla reale necessità, anche qualora i fondi fossero stati maggiori, di adoperare uno stile grafico più appariscente di quello scelto. Subset Games ha infatti optato, come abbiamo visto anche per le meccaniche cardinali di gameplay, per l’essenzialità e la chiarezza visiva, creando un motore grafico isometrico il più leggibile e semplice possibile, senza per questo sacrificare il mecha design e la qualità delle animazioni, che rimane di ottimo livello per una produzione indipendente.

Into the breach piacerà decisamente di più agli over trenta e a quanti abbiano iniziato la loro “carriera” videoludica da almeno dieci – quindici anni, con i suoi colori apparentemente smorti e il riciclo di alcuni modelli (tanto per i nemici quanto per gli alleati), ma, nondimeno, non può essere definito un prodotto brutto da vedere: nei loro momenti migliori, le mappe assomigliano a diorami di guerra, tra foreste in fiamme, mech danneggiati ed edifici ridotti in macerie, con piccoli tocchi di classe come le animazioni relative alla morte degli schifosi insetti (“l’unico insetto buono è l’insetto morto”, ricordiamolo) e alla loro emersione dal sottosuolo.

A rubare la scena, ad ogni modo, è la colonna sonora: Ben Prunty, già al lavoro sulle musiche di FTL, si è superato in questa circostanza, adeguandosi allo stile minimalista della produzione senza però abbandonare certe sonorità, sottolineando in maniera grave i momenti più critici (come la perdita di una o più unità o di un edificio) e sottolineando con una serie di marce militari la routine di combattimento.

Nonostante il numero di pezzi non sia esorbitante, e le ore passate in compagnia del gioco si siano susseguite abbondanti in questi giorni di test (e continueranno nei prossimi…), non abbiamo mai avuto la tentazione di abbassare o azzerare il volume (di default impostato sui valori massimi), a testimonianza della bontà del lavoro svolto sulla colonna sonora. Per finire, riteniamo impossibile quantificare la longevità del prodotto: se una singola run può portare via dalle quattro alle sei ore, a seconda della fortuna nella generazione delle mappe e della bravura del giocatore, la natura procedurale del titolo e la bontà del suo gameplay lo rendono potenzialmente infinito, com’era d’altronde anche FTL, che abbiamo giocato per mesi senza sosta.

Tanto semplice quanto profondo

Difficoltà sempre alta ma mai ingiusta

Altissimo livello di personalizzazione del proprio esercito

Grande colonna sonora

Potenzialmente infinito

Non tutti ne apprezzeranno lo stile minimalista

9.0

Owlboy, Night in the woods, Iconoclasts, e ora Into the breach: il bello di questo lavoro è che, accanto alle produzioni multimilionarie, che alzano l’asticella dell’intera industria, ci sono queste brillanti gemme indipendenti, capaci di calamitare la nostra attenzione per ore a fronte di una spesa modica.

L’ultima fatica di Subset Games è uno degli strategici a turni migliori che abbiamo giocato negli ultimi anni, un prodotto tanto semplice quanto efficace, dotato di un gameplay che funziona come un orologio svizzero e di una colonna sonora di altissimo livello.

L’esigua durata di un singolo match e la longevità potenzialmente infinita lo candidano prepotentemente al ruolo di nuova, dolce ossessione per i prossimi mesi.

Per quanto ci riguarda, si unirà ad Hearthstone nella nostra personale lista delle droghe irrinunciabili: difficile fargli un complimento più grande.

Voto Recensione di Into the breach - Recensione di un incrocio tra Starship Troopers e scacchi - Recensione


9