The Witcher, l’epopea del Lupo Bianco – Parte 3

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Bentornati alla retrospettiva su The Witcher, la trilogia dark fantasy che a pari merito con i Souls ha contribuito a far arrivare alle masse questo genere. La storia di Geralt di Rivia, il witcher (cacciatore di mostri professionista) dai capelli bianchi è nata dalla prosa caustica e ironica di Andrzej Sapkowski nei grigi anni Ottanta polacchi, per poi passare negli anni Duemila a quel gruppo di “ribelli” di rosso vestiti chiamati CD Projekt RED. Le origini della saga videoludica di Geralt sono state una grande scommessa, una possibilità travestita da speranza. Uno sforzo immane che è stato fortunatamente premiato, con la possibilità di un secondo capitolo divenuta concreta. Il sequel, The Witcher 2, è venuto alla luce con difficoltà ma era ancora pregno di quella volontà di osare e continuare a raccontare una storia. E nonostante avesse a sua volta una conclusione molto “organica”, era evidente che non tutto era stato detto e non tutte le vicende avevano ricevuto giustizia. Per i CD Projekt RED era il momento di dare l’addio definitivo al Lupo Bianco.
Prima di dipingere servono i bozzetti preparatori
Per quanto indirettamente, anche The Witcher 3 ha subito gli strascichi del periodo incerto vissuto da CD Projekt a fine anni Duemila. Se infatti le intenzioni iniziali erano di produrlo in simultanea con The Witcher 2, i lavori dovettero essere per forza di cose spostati al 2011.
Sorprendentemente, in quegli anni Andrezej Sapkowski torna a parlare della sua creatura dopo molto silenzio. Già interpellato qualche anno prima in occasione di The Witcher 2, lo scrittore polacco ammette il valore del Geralt dei CD Projekt, ma allo stesso modo ribadirà che solo lui, essendone il creatore, può autenticamente decidere del destino del Lupo Bianco. Già da queste parole trapelavano però le intenzioni dei “ribelli rossi”: quella di dare una conclusione a quanto iniziato nel 2007.
Pareri del creatore originale a parte, l’ultima avventura di Geralt è esigente, tanto da richiedere quasi quattro anni e uno sforzo produttivo quasi decuplicato per il suo completamento. Se infatti i primi due capitoli della saga erano costati 10 milioni di dollari ciascuno, stavolta il budget raggiunse il totale di 80 milioni. Per fare qualche paragone basti pensare che il primo Red Dead Redemption ne ha impiegati 100 e che God of War III è costato circa la metà di quest’ultimo. Allargando lo spettro, la produzione di The Witcher 3 è costata mediamente come un classico Disney degli anni Novanta. Il lavoro è tale che CD Projekt è costretta ad accantonare la prossima IP, quel Cyberpunk 2077 che solo ora si sta riprendendo un po’ di attenzione. Ciò è probabilmente dovuto anche dalla volontà di estendere le ambizioni e pubblicare anche su console di ottava generazione. Un annuncio ufficiale arriva già nel 2013, con una prima data di distribuzione fissata al 2014. Fin dall’inizio il gioco viene circondato da un prevedibile (ma anche giusto) entusiasmo, tanto che il gioco sarà per molti la ragione principale per fare il cambio generazionale (PS4 e Xbox One sono in arrivo alla fine del medesimo anno).
Di nuovo però il carico di lavoro è troppo oneroso e l’uscita viene spostata al febbraio 2015. Nel frattempo la casa di Iwinski e Kicinski deve far cassa con qualche prodotto “collaterale”. Uno di questi è The Witcher Adventure Game per PC, Mac, Android e iOS, pubblicato a novembre 2014. Altro non è che una conversione videoludica di un omonimo gioco da tavolo, sviluppato in partnership con Fantasy Flight Games. A questo si accompagna però un’altra brutta notizia: The Witcher 3 subisce un nuovo posticipo, da febbraio a maggio 2015. La motivazione è che il gioco, a causa della sua vastità, è ancora troppo oberato da bug. Cercando tenere calmi i fan, a gennaio 2015 i CD Projekt pubblicano un altro spin-off: The Witcher Battle Arena. Ospitato stavolta solo in ambito mobile (Android, iOS e Windows Phone) si tentò la strada del MOBA sperimentando con microtransazioni e controlli touch. Tanto Adventure Game che Battle Arena sono evidenti prodotti “di passaggio”, che a livello di critica non riescono a andare oltre la sufficienza. Gli stessi server online di Battle Arena vengono spenti a dicembre, a neanche un anno dal lancio dell’app. Perché, essenzialmente, il loro compito era assolto: The Witcher 3 Wild Hunt era finalmente in distribuzione.
Il grande affresco
Non staremo qui a rimarcare il grandissimo successo che ne è scaturito, perché è già noto. The Witcher 3: Wild Hunt è il più grande, ambizioso ed elaborato videogioco mai fatto da CD Projekt RED. Un’avventura immensa in un mondo altrettanto esteso, che vede Geralt ripartire da Kaher Morhen per una ricerca stavolta più personale, quasi intima: ritrovare Ciri. La portatrice del Sangue Antico, la Rondine che salverà il mondo e che ha salvato Geralt stesso dalla morte nei libri è infatti tornata nella suo piano di esistenza d’origine. Il Lupo Bianco dovrà quindi ripercorrerne le peripezie, facendosi raccontare ciò che Cirilla ha fatto e i ricordi (negativi e positivi) che ha lasciato alle persone che hanno avuto a che fare con lei. Per via dei suoi poteri praticamente illimitati, Ciri è inevitabilmente contesa da chiunque abbia anche la minima influenza sulla società, non ultima la misteriosa Caccia Selvaggia. Tuttavia Geralt la cerca per un altro motivo: fin dai libri, Cirilla è per lui una vera e propria figlia. Tale trovata narrativa è ovviamente la scusante perfetta per introdurre praticamente tutti i personaggi (vecchi e nuovi) e sviluppare l’esplorazione delle aree. A livello strutturale il gioco è infatti diviso in tre macro-mappe: il villaggio di Bianco Frutteto, il continente del Velen-Novigrad e le isole norrene di Skellige, più altre sezioni minori dalla funzione prevalentemente narrativa. Ciascun luogo è stato curato in ogni dettaglio, dalle strutture all’organizzazione urbana, passando per flora, fauna e cittadinanza. Dalle città commerciali dominate da malavita e predicatori esaltati fino alle parlate dialettali dei paesini e delle locande, tutto restituisce un’apparenza magniloquente. Il mondo virtuale appare sorprendentemente “vivo”, e ancora dopo anni è palpabile la sensazione che restituisce esplorarlo e assistere al cambio graduale e verosimile delle giornate, dei luoghi e dei paesaggi. L’orizzonte muta progressivamente dalle regioni selvagge con gli alberi che si diradano, l’erba che lascia il posto ai campi e alle fattorie, e le strade divengono lastricate mentre le mura fortificate delle città si fanno sempre più vicine. Il RED Engine 3 srotola tutto questo (interni ed esterni) in tempo reale, con ben pochi caricamenti. L’unico vero peccato in tal senso sono le conversazioni: attivarle porta a un taglio sul nero dell’inquadratura, che anche dopo molte ore di gioco ad alcuni potrebbe apparire come fin troppo “brusco”.
Quadri grandi e piccoli
The Witcher 3: Wild Hunt è prima e soprattutto trama. I racconti di Geralt hanno come narratore fuori campo un invecchiato Dandelion, il quale si occupa anche dei brevi raccordi narrativi che introducono il caricamento di ogni salvataggio. Inoltre, anche nelle versioni per console è data la possibilità di simulare un salvataggio di The Witcher 2. La cura è tale che i dettagli da fornire per suddetto salvataggio simulato sono integrati nella trama stessa, ovvero durante un breve questionario a cui lo strigo viene sottoposto prima dell’udienza con l’imperatore Emhyr var Emreis. Allo stesso modo tornano le scelte multiple, che rendono ogni run profondamente personalizzabile dal punto di vista della trama. Se Geralt e Ciri riusciranno in ogni caso a riunirsi, il loro destino ultimo contro il Bianco Gelo e la Caccia Selvaggia dipenderà totalmente da chi tiene in mano il pad. Il Lupo Bianco dovrà capire e dare una propria interpretazione su cosa vuol dire essere padre.
Una tale attenzione alla narrativa ha però portato anche a dei difetti. La caratteristica che nel 2015 più ha infastidito critica e utenza è il sistema di combattimento, accusato di essere poco profondo. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i nemici non avevano una IA particolarmente acuta. Un altro punto controverso era il rapporto tra le possibilità offerte dal giocatore e il livello di sfida. Il gioco ovviamente non lesinava in cose da fare, segreti da scoprire e oggetti da creare, ma certe parti più tattiche (come l’alchimia, la creazione di bombe e la forgiatura) erano troppo legate al livello di difficoltà. Il risultato è che intere fette del design potevano essere tranquillamente ignorate dal giocatore, facendo perdere qualunque stimolo ad aumentare la difficoltà anche solo di una tacca. Fuori da qualunque paragone improprio, è evidente quindi che i CD Projekt si siano concentrati prima di tutto sulla componente dialogica e dialettica, forse per riflettere “l’età della ragione” di Geralt. Ormai lo strigo è stufo di finire coinvolto negli affari più o meno biechi del potere, piuttosto si focalizza sul trovare un punto fermo nella sua vita da poter chiamare “casa”, dopo tutto il fango e lo squallore in cui ha arrancato per anni.
Piuttosto simbolicamente il gioco ha un’estetica più “accesa” e dai colori definiti, in contrasto con le tonalità più “sporche” del predecessore. Una cosa che si ripercuote anche a livello narrativo: la trama ha una vocazione meno smaccatamente “politica” rispetto a The Witcher 2, in cui le scelte facevano letteralmente cadere o sopravvivere interi regni. La stessa componente erotica è meno ostentata, e il giocatore si troverà a dover scegliere a Geralt se Yennefer o Triss Merigold. Una scelta che se vogliamo è anche qui simbolica: Yennefer è stato il suo amore nel corso della saga letteraria, mentre Triss lo ha assistito e curato dal suo risveglio nel primo videogioco. Volendo si può anche fare il doppio gioco, ma in maniera sorprendentemente “realistica” in The Witcher 3 chi vuole troppo potrebbe finire col non conservare alcunché…
La tela aggiuntiva e l’ultimo arazzo cavalleresco
Il RED Engine 3 regge un mondo così aperto in maniera quasi stoica, qualcosa di assolutamente rispettabile considerando che nel mondo videoludico raramente è successo alla prima volta (ce l’hanno fatta Rockstar e pochi altri). Se aggiungiamo che per CD Projekt si tratta anche del primo debutto “serio” su console, a The Witcher 3 è andata anche troppo bene. Ma nonostante gli sforzi e i rimandi, anche alla pubblicazione il pargolo soffre ancora di un bel po’ di bug. Le patch correttive si susseguono per molti mesi, e CD Projekt vi affianca astutamente ben sedici DLC gratuiti. Nessun contenuto veramente trascendentale: costumi alternativi, contratti da witcher extra e poco più, tutte cose comunque piacevoli da ricevere e supportare. Tuttavia bisogna effettivamente capire come rendere giustizia e “chiudere definitivamente” la saga di Geralt. La risposta è arrivata con Hearts of Stone e Blood and Wine, due espansioni pubblicate rispettivamente a ottobre 2015 e maggio 2016. Si tratta di due trame indipendenti ma entrambe collocate nella storia principale. Hearts of Stone è accessibile appena Geralt arriva nel Velen ed è un’avventura parallela, mentre Blood and Wine è ambientato qualche anno dopo il finale della trama principale. In Hearts of Stone il Lupo Bianco dovrà aiutare il nobile Olgierd von Everec, che è finito coinvolto in un terribile patto faustiano con l’inquietante ingannatore soprannaturale Gaunter O’Dimm. Per quanto ben ricevuta da pubblico e critica, è con Blood and Wine che viene sparato l’ultimo fuoco d’artificio. Qui Geralt verrà contattato dalla bellissima regina Anna Henrietta (già comparsa nei libri e amante di Dandelion) per indagare su una serie di efferati omicidi che stanno sconvolgendo la classe governante del suo regno. L’espansione aggiunge un nuovo luogo, il reame cavalleresco di Toussaint, chiaramente ispirato alla Francia idealizzata delle leggende arturiane e cavalleresche. Un po’ parodia e un po’ omaggio, Toussaint pare riassumere tutto ciò che è stato The Witcher nei suoi dieci anni di vita: intrighi, enigmi, tornei, dialoghi, ironia, metafora del mondo di oggi. Entrambe le espansioni sono pubblicate in edizioni speciali, ciascuna contenente due set (di 77 carte ciascuno) con cui assemblare e giocare nientemeno che il Gwent, il popolare minigioco di carte collezionabili inventato sempre per Wild Hunt.
E’ proprio da quest’ultimo minigioco che deriva l’ultimo ingresso nell’universo narrativo del Lupo Bianco è Gwent: The Witcher Card Game. Il gioco è attualmente in open beta sulle principali piattaforme. Una sua versione completa dovrebbe arrivare nel 2018. È nei fatti uno spin-off, ma tutto sommato è anche giusto non insistere ancora sullo stimato witcher di Rivia: una parte del pagamento di Blood and Wine consiste nell’usufrutto di Corvo Bianco, una piccola tenuta con vigna. In qualunque modo deciderà di risolvere la missione di Anna Henrietta, alla fine Geralt troverà ciò che ha sempre cercato: la tranquillità di una casa e la compagnia delle persone a cui tiene.

In questo speciale in tre parti abbiamo ripercorso integralmente l’epopea di The Witcher. Una storia che si è intrecciata con le vicissitudini di un gruppo di sviluppatori coraggiosi e di un personaggio prima letterario e poi videoludico. Grazie al videogioco Geralt di Rivia, il Lupo Bianco, ha potuto essere conosciuto a tutto il mondo e portare uno dei più autentici esempi di quello che è il dark fantasy. In The Witcher 3: Wild Hunt egli è divenuto un personaggio maturo, che ha dato modo ai giocatori di visitare e vivere il suo universo. Pur con i suoi difetti, la forza del terzo capitolo sta nella sua intrinseca armonia: il suo saper intrecciare e stratificare tante storie grandi e piccole, che tutte insieme formano un grandioso mondo, che pur se immaginario è costruito con una cura meticolosa che lo rende (paradossalmente) reale. Geralt di Rivia ha avuto la sua degna conclusione e, per quanto ora i tempi siano maturi per dedicarsi al futuro, difficilmente lo strigo verrà dimenticato. Perché le belle storie sono come i vecchi amici: ogni tanto fa bene tornare a trovarle.