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The Last of Us Parte II

Autore della recensione: beachild

Se il cinema è stato da tempo sdoganato come “settima arte”, entrando di fatto nell’elenco di attività creative che possono vantare la classificazione di arte vera e propria, per il videogioco la strada è ancora colma di ostacoli. Una differenza che non si spiega, soprattutto alla luce di quanto abbiamo visto negli ultimi vent’anni, dal momento che in moltissimi casi le produzioni videoludiche sono film a tutti gli effetti, con il valore aggiunto sul piano del coinvolgimento, dato dalla possibilità di prendere decisioni in prima persona come se ne fossimo i protagonisti. Il livello di trama e regia in alcuni titoli non ha niente da invidiare ai lungometraggi con attori in carne e ossa. Soprattutto, il videogioco riesce in moltissimi casi a svolgere al meglio una delle funzioni distintive dell’arte: emozionare, commuovere e talvolta trasmettere messaggi dal valore universale che possono persino rivestire una funzione sociale ed educativa.

Parlando di videogiochi che possono lasciare il segno, non è possibile non fare riferimento a quel The Last of Us che negli scorsi mesi è stato eletto gioco del decennio sia dagli utenti del PlayStation Blog che da quelli, meno di parte, di Metacritic, superando per distacco un’altra opera mastodontica come The Legend of Zelda: Breath of the Wild. È inutile tornare sui motivi che hanno reso il capolavoro di Naughty Dog un titolo così universalmente apprezzato, sia a livello tecnico che a livello narrativo/emozionale, ma è necessario riallacciarsi alla sua importanza per capire quanto alta potesse essere l’attesa per il seguito. A distanza di sette anni dal primo capitolo, The Last of Us Parte II è finalmente arrivato sulle nostre console e, dopo averlo portato a termine, pur con qualche alto e basso che analizzeremo a breve, verrebbe voglia di correre sulla vetta più alta del mondo per gridare a tutti che sì, il videogioco è arte!

Era necessario un seguito per The Last of Us? Secondo Neil Druckman, la mente dietro al gioco, un sequel era imperativo, anche se non c’era bisogno di correre per soddisfare le attese dei fan, bensì di sedersi e riflettere in modo da dare una conclusione degna e sensata alle avventure di Joel ed Ellie. Dopo i fatti narrati nel primo capitolo, la curiosità di sapere come sarebbe continuata la vita dei nostri due amati protagonisti e, soprattutto, che cosa sarebbe accaduto nel caso Ellie avesse scoperto la verità sugli eventi dell’ospedale, era alle stelle. La stessa Naughty Dog ci conduce con dolcezza verso la seconda parte della storia riallacciandosi alla prima con alcune scene iniziali ambientate negli stessi anni, prima di passare all’oggi in cui Ellie, ormai cresciuta, è radicata nella comunità di Jackson sia a livello affettivo che sul piano più strategico delle spedizioni di avanscoperta nei territori limitrofi.

È un incipit volutamente e giustamente lento quello di The Last of Us Parte II, in netto contrasto con le scene cariche di tensione dell’inizio del primo capitolo. Gli sviluppatori non vogliono cercare la lacrima facile, ma desiderano costruire un contesto e una routine capaci di calarci nella storia, prima di sferrare un violento colpo emotivo il cui effetto, a quel punto, risulta amplificato dal coinvolgimento raggiunto. Non è una sorpresa che l’avventura di Ellie sia una storia di vendetta e sangue, come hanno confermato tutti i trailer e le informazioni rilasciati negli anni, eppure nessuno potrebbe aspettarsi ciò che accade a schermo e che lascia, dopo le prime ore di gioco, con un nodo alla gola e con un pieno, rabbioso, sostegno alla causa della ragazza. Un colpo di scena alla George R. R. Martin, ci verrebbe da dire, che spezza le gambe e dà un sapore e un colore tutti nuovi alla lunga storia che ci apprestiamo a vivere.

Una storia che, nel corso delle oltre venti ore necessarie a giungere ai titoli di coda, ci conduce, forse come nessun titolo prima d’ora, a bordo di una carrozza delle montagne russe che sfreccia in un su e giù continuo di emozioni contrastanti, legate sia ai contenuti della storia che, alle caratteristiche intrinseche del gameplay. Tra aspetti ormai noti e riconoscibili, novità a livello di meccaniche e gestione dei punti di vista, tematiche più o meno scomode e ritmo altalenante, non si riesce mai ad avere un quadro completo di ciò che il gioco significa per noi. Si è continuamente messi alla prova da ciò che accade a schermo, tanto che un momento potremmo gridare al capolavoro e il momento successivo lamentarci per una soluzione che non ci ha convinto. In pochi casi prima di The Last of Us Parte II ci si è ritrovati così in difficoltà nell’esprimere un giudizio definitivo, anche perché le emozioni provate a caldo sembrano svilupparsi a console spenta, le idee si riorganizzano nella nostra mente e tutto assume un significato diverso, salvo poi modificarsi ancora.

Dopo una lunga serie di considerazioni, si giunge alla conclusione che fosse proprio questo l’intento di Naughty Dog: creare un’opera che non desse niente per scontato, che non si abbassasse al mero fan service e non sforasse nell’iperbole videoludica di una storia non verosimile. Quanto sperimentiamo nei panni della protagonista rientra sempre nel realistico, o meglio nell’accettabile, anche se lo fa posizionandosi in una zona nei limiti massimi consentiti dal nostro spirito critico. Da qui derivano l’incapacità di mettere a fuoco con lucidità gli eventi e le loro conseguenze, le tematiche e i significati nascosti tra le righe, e la necessità di concedersi una riflessione sul lungo termine per estrarre tutto quel che c’è di buono da uno dei giochi più profondi e ambiziosi che si siano mai visti.

Senza scendere nello specifico, è doveroso basare l’analisi sull’esposizione di ciò che convince e ciò che non convince in The Last of Us Parte II. Un approccio che in larga parte richiede di suddividere l’aspetto cinematografico/narrativo e quello puramente videoludico dell’esperienza. Sebbene Naughty Dog si dimostri maestra indiscussa nel fondere queste due componenti in un tutt’uno senza soluzione di continuità, ci sono momenti in cui l’una o l’altra componente non riesce a dare il meglio.

Partendo dal gameplay, è chiaro che molte delle meccaniche si rifanno a quanto visto in The Last of Us e lo migliorano in diversi modi. Avremo a che fare con fasi di esplorazione, volte sia a individuare risorse, materiali, armi e documenti che approfondiscono la lore del gioco, che a trovare la via per proseguire con la storia, con fasi di combattimento vero e proprio. Tornano gli scontri con gli infetti da Cordyceps, che si arricchiscono di nuove creature ancor più temibili e pericolose, le quali possono essere approcciate con un atteggiamento più furtivo e silenzioso, o a viso aperto, sfoderando la forza di fuoco.

Tornano, soprattutto, gli scontri con altri gruppi di sopravvissuti, che nello specifico ci vedono in opposizione al gruppo del Washington Liberation Front, e ai membri del culto dei Serafiti. È questa, a dire il vero, la peggiore delle minacce che riguarderanno la nostra protagonista. Come nel primo titolo, l’impressione, qui portata ai massimi livelli, è che sia l’uomo stesso il vero nemico dell’uomo, in una interpretazione videoludica dell’homo homini lupus di plautina memoria. Molto più che runner, clicker, stalker e altri infetti, i quali si configurano più come ostacoli di cui sbarazzarsi senza alcun rimorso, e che sono essi stessi vittime più che pericoli. A fare paura sono gli altri individui sani, che però soffrono di un male molto più distruttivo: l’odio.

In ogni istante del gioco la domanda che ci poniamo è una soltanto: perché? Perché l’uomo continua a odiare il suo simile, persino in un momento difficile nel quale una catastrofe ha messo a repentaglio l’intera sopravvivenza dell’umanità? Oltre che rimanere senza risposta nel gioco, lo stesso quesito esce dallo schermo e frulla nelle nostre menti, insinuandosi fino ai recessi della nostra coscienza, la quale ci costringe a fare i conti con l’amara verità che conferma che questa tendenza all’odio e alla distruzione esiste davvero e, nella remota possibilità di una catastrofe apocalittica simile a quella del gioco, le cose non andrebbero in modo molto diverso da quanto descritto.

A dire il vero, il quesito non resta del tutto senza risposta. In realtà ogni individuo ha un suo perché, una sua motivazione apparentemente inattaccabile, comprensibile e accecante per fare piazza pulita senza alcuno scrupolo di altri esseri umani. La stessa Ellie, la ragazzina che abbiamo imparato a conoscere quando impersonavamo Joel, si trasforma sin dalle prime battute in un’inarrestabile portatrice di morte e distruzione. Per come si mettono le cose, nessuno di noi arriva a biasimarla, anche quando si rende responsabile dei delitti più efferati e impensabili e con le modalità più cruente che si possano immaginare. Continuiamo a fare il tifo per lei perché condividiamo la sua storia, la sua tragedia e il suo desiderio di vendetta, al punto che risulta difficile capire alcune scelte che farà alla fine del gioco e alcuni rimorsi che sembra provare quando è costretta a superare i limiti che la sua coscienza continua a imporle.

Tali riflessioni appartengono a quelle che si possono fare a freddo, perché il primo istinto di fronte ad alcuni atteggiamenti spinge istintivamente a dirci che è impossibile, che la scrittura del gioco è da rivedere, che manca coerenza tra il punto di partenza e quello di arrivo. Solo riflettendo a posteriori, immedesimandoci nella Ellie persona più che nella Ellie personaggio, analizzando alcuni aspetti della storia che sembrano di poco rilievo ma che sono inseriti proprio per dare una visione a 360° della personalità della ragazza e dei suoi turbamenti interiori, possiamo dare un senso a ciò che fa e riconoscere lo straordinario lavoro di ricerca psicologica e di maestria narrativa di Neil Druckman e soci.

Eppure qualcuno continuerà a criticare la piega che prendono gli eventi alla fine del gioco. Un gioco che è pervaso dal greve tema della vendetta, motore iniziale della storia, o meglio delle storie che si intrecciano in The Last of Us Parte II. Una vendetta che diventa ben presto l’unico scopo della vita di Ellie, la sua ragione d’essere e contemporaneamente la causa della sua autodistruzione, della perdita di se stessa e dell’allontanamento da tutto ciò che di buono le resta. Risulterà difficile, allora, accettare la sua decisione finale, a meno di non scavare più a fondo e di non comprendere i significati veri e nascosti delle sue azioni. Solo così si scopre che il gioco è una storia che inizia con la vendetta e finisce con la redenzione e solo così si può mettere a tacere la voce del fan acritico che alberga nelle nostre menti e che grida che qualcosa non va, che il gioco non è quello che doveva essere, che Naughty Dog ha fallito.

Una voce che, a dire il vero, potrebbe piuttosto prendersela con la critica specializzata internazionale, che ha premiato con piogge di voti perfetti un titolo che perfetto non lo è per niente. Un aspetto che non deve essere visto negativamente: i difetti sono ciò che ci rendono unici e, di fatto, la perfezione non esiste e non deve esistere. The Last of Us Parte II ha sì qualcosa che non funziona, ma è una serie di piccoli nei che lo rendono, per così dire, più umano e che esaltano, per contrasto, tutti gli aspetti in cui eccelle.

Il primo, enorme problema è legato al ritmo. Impossibile non fare spoiler in questa sezione e non fare riferimento alla lunga sezione giocata nei panni di Abby, da metà gioco in avanti. Dopo un incedere praticamente perfetto (quello sì, tanto che se il titolo si fosse concluso dopo la prima parte, avrebbe davvero rasentato il non plus ultra), si arriva a una vera e propria battuta di arresto, a un flashback che di “flash” non ha proprio niente e che ci costringe a mettere da parte Ellie e la sua storia per tuffarci in un punto di vista diverso. Naughty Dog, con una mossa ardita che molti non premieranno, inserisce a metà del nostro viaggio quello che vuole essere un approfondimento narrativo ma che assomiglia più a un corposo DLC non richiesto.

La sezione con Abby, costringendoci a rigiocare i tre giorni appena trascorsi nei panni di Ellie, non solo ci obbliga a familiarizzare con il nostro acerrimo nemico, ma rallenta in modo esasperante il ritmo frenetico mantenuto fino a quel momento. La linea di confine tra la presentazione dell’altro punto di vista, volta a suscitare ulteriori emozioni e riflessioni nel giocatore, e l’allungamento del brodo che incide negativamente sulla valutazione dell’intera esperienza è molto sottile. Per questo noi stessi abbiamo viaggiato a lungo a cavallo tra il disappunto per aver trasformato un gioco irresistibile in un’avventura che non vedevamo l’ora di portare a termine, e la razionale comprensione di ciò che Naughty Dog voleva trasmetterci con la sua decisione. Impossibile, a dire il vero, capire “come sarebbe stato se”, ossia sapere se il finale avrebbe avuto lo stesso impatto nel caso non avessimo capito meglio chi è Abby e che cosa l’ha spinta a fare ciò che ha fatto.

Altra piccola segnalazione riguarda il gameplay vero e proprio. Sebbene si siano notati straordinari passi in avanti per quanto riguarda l’approccio a tutte le sezioni di combattimento, in particolare per quanto riguarda la visibilità dei comprimari da parte dei nemici (non ancora perfetta, ma molto migliore rispetto a The Last of Us) e il level design che garantisce approcci diversi e assolutamente realistici, permangono alcuni difetti sparsi. In primo luogo è fin troppo evidente l’alternanza tra esplorazione, cutscene e “arene” di combattimento, un pelo nell’uovo che vale la pena segnalare solo perché parliamo di un gioco tanto curato che risulta difficile vederlo.

Secondariamente, non è stata mantenuta in pieno la promessa, su cui gli sviluppatori erano tornati in diverse occasioni e con molta enfasi, di una gestione più umana dei nemici, tale da suscitare in noi il rimorso per le uccisioni. Ci sono animazioni più curate ed effetti audio disturbanti per sottolineare ogni omicidio, così come abbiamo riscontrato l’utilizzo dei nomi propri tra nemici che si chiamano tra loro e che si disperano per la morte di un compagno, ma nel complesso l’”effetto-rimorso” non ha funzionato, e ogni sezione di scontro si gioca con la stessa indifferenza e sete di sangue di qualunque altro action. Solo in un paio di occasioni, legate all’uccisione di personaggi chiave, si provano disgusto e senso di colpa e ci si immedesima alla perfezione nel dolore e nella paura di Ellie. Restando sul gameplay, risulta invece meraviglioso il realismo di alcune situazioni, in particolare per quanto riguarda la gestione delle corde con cui arrampicarsi, il miglioramento delle armi, le animazioni legate al combattimento corpo a corpo o alla fuga. Anche la già citata maggiore estensione delle aree di gioco permette di vivere in modo personalizzato l’avventura, studiando un piano di attacco, sfruttando nascondigli o vie secondarie, e garantendosi un vantaggio con la gestione della verticalità degli edifici.

Dal punto di vista prettamente videoludico, insomma, The Last of Us Parte II diverte come un qualunque gioco, a tratti anche di più ma con qualche soluzione meno convincente, che comunque non mina troppo la bontà del lavoro.Provando a trarre le conclusioni, sarebbe ipocrita non dire che il gioco è un’opera mastodontica, meravigliosamente imperfetta e dolorosamente vera, e che qualunque giocatore che si dica tale dovrebbe provare, anche solo per cultura videoludica. Sulla valutazione complessiva la decisione finale spetta ai singoli individui, perché quello che per qualcuno è un difetto incorreggibile potrà essere un pregio per altri, senza contare che le tematiche in ballo sono tante e tanto varie, al punti che basta che una sola vada a cozzare con i sentimenti di un giocatore per ingrigire la sua opinione complessiva sul titolo. Inutile nascondere, infatti, che il tema dell’identità sessuale è centrale, e che molti non gradiranno determinati esiti e determinate rivelazioni.In ogni caso, Naughty Dog ha dimostrato che è possibile creare opere straordinarie, longeve, tecnicamente incredibili, divertenti e profonde al punto da stimolare emozioni e ragionamenti che iniziano davanti alla console e continuano sotto alle coperte, o in ufficio il giorno dopo. Un videogioco capace di raggiungere simili picchi merita di entrare nella storia e di ottenere il riconoscimento economico e storico che, ne siamo certi, The Last of Us Parte II raggiungerà nel giro di pochissime settimane e manterrà per gli anni a venire.

+ Tecnicamente impeccabile,
+ Realistico a livelli impensabili
+ Storia profonda e disturbante
+ Divertente nelle sezioni di combattimento…
– … ma poco coraggioso nella varietà di situazioni
– La piena comprensione del gioco richiede una certa decantazione dopo il finale
– La sezione centrale è troppo lunga e spezza un ritmo perfetto

9.0

The Last of Us Parte II è arrivato e, come il suo predecessore, segna l’apice massimo raggiunto con PlayStation 4. Nessun altro gioco fonde così egregiamente gameplay e narrazione, e pochi altri titoli riusciranno a farvi sentire così indecisi sul giudizio finale che vorreste dar loro. Giocata superficialmente l’avventura di Ellie ha un significato, analizzata a fondo ne assume uno completamente diverso e memorabile. A fare la differenza sarà la predisposizione di ogni giocatore, per quello che, comunque, è uno dei migliori giochi di questa generazione, oltre che una delle pietre miliari del mondo videoludico.