Cappuccino e Videogioco, grazie – Prototype

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Bentornati a Cappuccino e Videogioco, la rubrica per scoprire (e riscoprire) i videogiochi con cui accompagnare queste uggiose giornate autunnali. Passato il dark fantasy, l’Antica Roma e i draghi con accelerometro, c’è stato spazio anche per i mostri tascabili più famosi del mondo. Oggi torniamo sulla console casalinga per parlare di una proprietà intellettuale ormai caduta nel dimenticatoio, ma che ai tempi di PlayStation 3 e Xbox 360 entusiasmò più del previsto. Un free-roaming supereroistico esagerato, eccessivo, che mirava a offrire al giocatore l’essenza più autentica di quello che si può definire “il potere”. Fate in modo che il cappuccino sia bollente e con un sacco di schiuma, oggi si parla di Prototype.

Da Miami a New York il passo è (stranamente) breve

Ai tempi, la Radical Entertainment (nata nel 1991) è reduce da una stagione PlayStation 2 abbondante. Ha infatti sviluppato, tra gli altri, The Simpsons Road Rage e The Simpsons Hit & Run (la licenza poi sarebbe passata a EA: ne abbiamo parlato qui). Il consolidamento avviene tuttavia solo nella seconda metà degli anni Duemila: con PS2 agli sgoccioli, lo studio si accaparra i diritti su Crash Bandicoot. Ne risultano Crash Tag Team Racing (2005) e la coppia Crash of the Titans e Mind Over Mutant (2007 e 2008). Se il primo è un tentativo riuscito a metà di rievocare il mai dimenticato Crash Team Racing, gli altri due sono un tentativo di reboot del peramele arancione, che per quanto fatti con competenza non vengono bene accolti dal pubblico. Le cose vanno leggermente meglio con Scarface: The World is Yours (2006), videogioco che da un seguito alle vicende del film con Al Pacino e che ne vede anche la collaborazione. È da quell’impostazione free-roaming e sopra le righe che lo studio decise di ripartire per l’esordio su PS3 e Xbox 360. Arriviamo così al 2009, quando esce appunto Prototype.
Vestiamo i panni di Alex Mercer, un trentenne che si risveglia in un obitorio di Manhattan senza alcuna memoria a parte il nome. La città infatti è stata contagiata da un misterioso virus, tanto da richiedere l’intervento dell’esercito e la sua messa in quarantena. Alla ricerca di risposte, capirà ben presto che quello stesso virus che sta divorando l’isola gli ha conferito forza e abilità sovrumane. Radical si butta a capofitto in un universo grigio e truculento, dove non ci sono “bene” e “male” ma solo interessi convergenti. Nei diciotto giorni di infezione in cui è distesa la vicenda Alex verrà aiutato dalla sorella, finendo col portare alla luce una cospirazione lunga quarant’anni. Se le trentuno missioni principali mantengono sempre un altissimo ritmo, di contro la narrazione generale finisce col non far capire certi nessi, specialmente nel finale.

Hamburger da mezzo chilo di potere videoludico

Ma più che la vicenda principale, il gioco si concentra ovviamente sul protagonista e sulle possibilità che gli vengono date. Il virus ha infatti trasformato il corpo di Alex Mercer in un ricettacolo evolutivo, capace di adattarsi fulmineamente a ogni situazione. La prima abilità fondamentale sono gli spostamenti, che sfruttano il tasto di salto e lo “scatto” (gilletto destro) per far muovere l’uomo nei canyon di cemento di Manhattan. Oltre che molto intuitivi, questi movimenti “simil-parkour” sono resi in una maniera così dinamica e ben pensata da non essere invecchiati di un giorno. Il secondo  invece riguarda il combattimento: Alex può trasformare il proprio corpo in terribili strumenti di offesa (artigli, martelli, massa muscolare, frusta e lama) e difesa (scudo e armatura a scaglie). Qui Prototype ne esce peggio: le combo sono abbastanza basilari, e il caos preponderante delle battaglie non dà praticamente mai il tempo di provare qualcosa di appena più elaborato. Perché non si può negare che in questo videogioco l’azione sia elemento dominante: Alex infatti è ricercato praticamente da chiunque a Manhattan. I primi a volere la sua testa sono i militari: la diffusione del virus ha infatti richiesto l’intervento dei Blackwatch, unità segreta dell’esercito contro le minacce biologiche. Questi soldati in uniforme nera e maschera antigas, apparentemente senza coscienza o morale, saranno i nemici umani principali dell’avventura. Sono deboli anche in gruppo, ma hanno la spietatezza di ordire minacce sempre differenti. Tutti i poteri, una volta ottenuti, potranno essere potenziati a piacimento nel menu di pausa, spendendo i Punti Evoluzione (PE). Praticamente qualunque azione fatta ci garantirà un quantitativo proporzionato di PE, che agiranno quindi in funzione di puro gameplay. Le ultime due componenti di tale “pacchetto” sono Consumo e Camuffamento. Ogni essere vivente del gioco è infatti afferrabile e consumabile: un assorbimento fisico dall’animazione cruenta, il cui effetto immediato è il ristoro dell’energia vitale. Non è tuttavia l’unico vantaggio: Mercer è infatti in grado di assumere istantaneamente l’aspetto delle persone che consuma. In questo modo può accedere a aree riservate, imparare a comandare veicoli oppure migliorarsi nell’uso delle armi. Oltre alle competenze, il consumo garantisce anche l’acquisizione dei ricordi del malcapitato, accumulati nello schema della “trama degli intrighi”. Cardine di questo schema sarà la misteriosa Elizabeth Greene, un’apparente diciannovenne che comanda gli Infetti come un’ape regina.

La carta intorno al panino

Descritto così il videogioco Radical sembra la cosa più bella del mondo. Effettivamente di primo acchito è esattamente questa la sensazione. Sembra una versione estremizzata di Assassin’s Creed: una città immensa completamente aperta dove scatenare il caos più totale, spostandoci alla velocità della luce. Ma poi ci ricordiamo che siamo nel 2017, e occorre ragionare a mente decisamente più fredda. E ci accorgiamo di tutti i limiti del pargolo in questione.
Anzitutto è comunque da lodare come Manhattan sia realizzata molto bene, e appare evidente lo studio accurato da parte degli sviluppatori. Le scene di massa funzionano egregiamente, e il motore calcola senza fatica quantità smodate di elementi a schermo. Tale assoluta fluidità (che ha pure il lusso di fare rallenty ad altissima frequenza di fotogrammi) viene però pagata con una resa visiva piuttosto povera. Non tanto per l’estetica, quanto piuttosto il numero di poligoni e la realizzazione degli ambienti. Edifici e grattacieli paiono parallelepipedi con sopra la carta da parati, i colori sono slavati, soldati e cittadini sono poco differenziati e manca quasi del tutto qualunque sistema di luce dinamica. Una cosa che si riflette tristemente pure sulle meccaniche di gioco: il camuffamento è basico a dir poco, complice anche il fatto che i militari hanno una memoria cortissima. Fino all’assurdo: potremo consumare uno di loro, fuggire dietro l’angolo per far cessare l’allerta, prendere le sembianze della vittima e poi passar loro di nuovo accanto senza che reagiscano. Ugualmente, la già citata “trama degli intrighi” finisce con lo sparpagliare inutilmente la vicenda, non riuscendo a far esaltare i colpi di scena (altrimenti notevoli). Infine, la confusione per le strade finisce presto con l’intaccare anche una meccanica ben pensata come la guerra tra infetti e militari, in cui dedicarci alla distruzione degli alveari infetti o delle basi militari che torchiano la popolazione.

E il fast food?

C’è da dire che il gioco fu una sorpresa un po’ per tutti. Il suo personalissimo modo di “osare” nel genere del free roaming supereroistico gli fece guadagnare numerosissimi estimatori, ottenendo un successo commerciale ben oltre le stime di Activision. Ma forse proprio per questo la Radical divenne troppo sicura di sé: ottenuta carta bianca dal publisher, sfruttò il finale (aperto ma compiuto) del gioco per osare ancora di più, finendone tristemente travolta. Per capire cosa è successo dobbiamo proprio partire dalla trama di Prototype stesso. L’avvertimento è il solito: uno spoiler è sempre tale, dunque se non volete rovinarvi la sorpresa non leggete quanto segue e passate direttamente al commento finale.
A tre quarti di storia, si scopre che Elizabeth Greene altro non è che l’evoluzione personificata. Una madre terribile e spietata, la cui unica regola è adattarsi e sopravvivere. La Blackwatch l’aveva tenuta prigioniera per quarant’anni, tentando di estrarle virus a uso bellico. Lavorando per la Gentek, multinazionale genetica collusa coi Blackwatch, Alex Mercer era un genetista che aveva scoperto e isolato dalla Greene il virus DX-1118. Chiamato anche Blacklight, altro non è che il parassita che sta infettando New York. Ma quando la Gentek aveva deciso di insabbiare tutto, Alex aveva cercato di sfuggire alla purga; i Blackwatch lo avevano però intercettato a Penn Station. Il trentacinquenne aveva allora infranto a terra la fiala col virus, prima di venire ucciso e precipitarvi sopra. Il Blacklight appena rilasciato si era quindi legato al suo corpo morente, utilizzandolo come veicolo di sopravvivenza. Mercer quindi non è un uomo infettato dal virus, ma il virus stesso che ha preso forma di uomo.
Da questo i Radical ripartirono per il sequel, che arriva nel 2012. In Prototype 2 si impersonava James Heller, un ex sergente che, dopo aver perso la famiglia a seguito di una nuova epidemia Blacklight, si sarebbe trovato ad avere come nemesi proprio Mercer, convintosi nel frattempo che la razza umana non meritasse altro che lo sterminio. Nonostante questo sequel fosse migliore sotto praticamente qualunque aspetto (dalla trama più organica alla città finalmente “viva”, in tutti i sensi) lo stravolgimento del personaggio di Mercer e il cambio di protagonista non gli fecero replicare il successo dell’esordio. Fu così che Activision si vide costretta a declassare Radical a team di supporto senza più la possibilità di intraprendere progetti propri. Un ennesimo futuro stroncato, dentro un’industria a volte inutilmente satura.

Prototype è un fumettone, ma nel senso buono del termine. Di quelli che sotto l’apparente “ignoranza” nascondono in realtà equilibri assai difficili da raggiungere per un free-roaming. Un videogioco che ha palesi difetti, ne è perfettamente consapevole e anzi li ritiene sacrifici accettabili per offrire un intrattenimento che sia accessibile e per tutti. Un prodotto rozzo ma con quell’onestà intrinseca che solo chi fa le cose con passione ci sa mettere. Metaforicamente, è come un hamburger da mezzo chilo: ipertrofico ma dal fascino perverso. Nonostante sia palesemente “povero”, è pure vero che mangiarlo dà una soddisfazione viscerale, impagabile. Bevete il cappuccino e concedetevelo oggi a pranzo… Ma solo su old gen.