Recensione

White Day: A Labyrinth Named School, recensione del remake dell'horror coreano

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Uscito nel 2001 solo in Corea, White Day è uno degli antesignani degli horror moderni dove si è sprovvisti di armi e ci si può solo nascondere o scappare via per sfuggire alle minacce. Prima ancora di Penumbra, Amnesia e Outlast, il survival horror di Sonnori mescolava questi elementi a una struttura di gioco classica e schematica, dove la risoluzione di enigmi e un’avanzamento accorto erano fondamentali per arrivare incolumi alla fine dell’avventura. A sedici anni di distanza, arriva il remake del piccolo cult horror, comprensivo di alcuni cambiamenti di ammodernamento. Basteranno per un pubblico nuovo e più esigente di allora?
Back to school
Il White Day è una festività che tutti gli anni, il 14 marzo, si celebra in Corea del Sud, Giappone e Cina. Simile al San Valentino occidentale, durante questa particolare giornata gli studenti sono soliti regalare dei dolci di cioccolato bianco alle ragazze di cui sono innamorati, ricambiando il dolcetto di cioccolato fondente ricevuto il mese prima, gesto inequivocabile di una volontà non espressa verbalmente. 
In White Day: A Labyrinth Named School, il nostro protagonista si intrufola di notte nella scuola per restituire il diario smarrito della ragazza di cui si è invaghito e lasciare il dolce regalo nel suo armadietto, ma come è prevedibile, l’idea non si rivela delle migliori: la scuola diventa d’improvviso una prigione e oltre a lui, nell’edificio sono intrappolate altre quattro ragazze, con solo una di essa che potrà fuggire dall’istituto sana e salva. Come è facile intuire, i finali di White Day sono molteplici e le risposte che daremo durante le scene intermezzo determineranno tanto la condotta dei personaggi, quanto gli sviluppi che condurranno ai diversi epiloghi, ben ramificati e in grado di offrire un buon grado di rigiocabilità. Non aspettatevi però una sceneggiatura complessa o grandi possibilità di scelta: nonostante le evidenti migliorie, nuovi scenari e un pizzico di elaborazione nella scrittura, si tratta pur sempre di un gioco vecchio, ancorato a un passato che i nostalgici apprezzeranno senz’altro, mentre gli altri un po’ meno. 
D’altra parte, chi giocò il titolo originale all’epoca non impiegherà più di quattro o cinque ore per portarlo a termine, mentre chi lo giocherà solo oggi ne trascorrerà almeno il doppio. I motivi dipendono dalla struttura di gioco, dagli enigmi non sempre immediati, da una buona dose di frustrazione e da alcune scelte di game design atroci. Di tutto ciò, ne parleremo più avanti. È importante adesso focalizzarsi sulla narrazione, che oltre al troncone principale e alle vicende della scuola maledetta, crea una sua mitologia che pesca a piene mani dal folklore locale, adattandolo ai racconti legati ai fantasmi che infestano la scuola superiore Yeondu. Ciascuno degli spiriti maledetti avrà una storia macabra che toccherà a voi scoprire, attraverso dei file di testo che metteranno in luce sia il background delle anime rancorose che ancora aleggiano tra quelle mura, sia parte del mistero che verrà svelato solo nel finale. Aspettatevi un in tal senso una serie di cliché tipicamente orientali, pochi scarejump e un’atmosfera di buon livello, come quella che un paio di generazioni fa era lieta consuetudine e che oggi si è andata irrimediabilmente a perdere.
Nella transizione tra vecchio e nuovo, il forte sapore orientale di White Day è rimasto piuttosto marcato, ed è chiaro che non c’è stato l’interesse da parte della software house di adattarsi ad alcune consuetudini moderne. Questo, per A Labyrinth Named School, è sia un vanto, sia un fattore da non prendere sottogamba per chi è poco avvezzo alle dinamiche primordiali del genere.
Scappa, c’è il bidello!
Sebbene in questo remake siano state apportate importanti modifiche alla visuale, al sonoro, alla gestione del gioco, all’interfaccia utente e ad altri dettagli non trascurabili, si nota una congenita legnosità nei movimenti e soprattutto nell’interazione con gli elementi dello scenario. Il gioco è tutto ambientato all’interno di una grande scuola, pertanto i punti d’interazione sono grossomodo sempre gli stessi. Eppure, interagire è un processo macchinoso, che richiede spesso più di un’azione per scandagliare a fondo un cassetto o ruotare la telecamera affinché la zona d’interesse sia controllata nella sua interezza. Spesso non è nemmeno necessario agire così, perché il cursore a forma di cerchio (che dovremo direzionare) dovrà includere al suo interno il punto che risponde alle nostre sollecitazioni. Farlo in momenti di panico, naturalmente, è impossibile. Al di là di ciò, che è in fin dei conti solo un retaggio del passato, è necessario puntare il dito contro delle scelte di game design poco lungimiranti e davvero al limite della frustrazione, che vi costringeranno a ripetere le sezioni ben più di un paio di volte.
White Day: A Labyrinth Named School ha i salvataggi limitati e bisogna raccogliere dei pennarelli prima di andare nei pressi delle poche bacheche disponibili per salvare i progressi (pensate ai nastri d’inchiostro dei vecchi Resident Evil per farvi un’idea ancora più chiara). Ci sono però anche dei salvataggi automatici, e quando morirete più e più volte (ma occhio alla difficoltà selezionata, perché le cose cambiano e non poco) potreste continuare un po’ più indietro del solito. Il problema principale, però, è l’antagonista principale del gioco: il bidello impazzito della scuola, che vi rincorre per i corridoi per prendervi letteralmente a randellate. Il vostro nemico “spawna” quasi sempre nei punti d’interesse o nelle intersezioni cruciali per l’avanzamento di gioco, per seminarlo dovrete correre all’impazzata e sbattergli le porte in faccia e spesso, nonostante facciate tutto il possibile per aggirarlo, potrebbe spuntare fuori di sorpresa mettendovi fuori gioco con un paio di colpi. Nelle sezioni iniziali eravamo al colmo della frustrazione, ma quando abbiamo capito come sfruttare alcuni limiti del gioco (che imparerete a notare anche voi), la situazione è leggermente migliorata. La pessima gestione però rimane, ed è probabilmente il problema peggiore in assoluto di White Day, che vi para davanti un nemico implacabile che non fa paura e che sa solo essere fastidioso. 
Inconcepibili, invece, sono le apparizioni degli spiriti che dal nulla vi vengono incontro e vi dimezzano l’energia. Se è un modo per spaventare l’utente, ci possiamo anche stare; ma visto che è anche un mezzo bieco per metterlo in difficoltà senza dargli l’occasione di evitarlo, non possiamo far finta che sia qualcosa di accettabile o corretto verso il giocatore. 
Un’altra scelta di game design assai controversa è rappresentata da alcuni enigmi a tempo, dove durante i primi tentativi vi muoverete a caso, annaspando alla ricerca dei giusti oggetti da trovare o delle giuste azioni da compiere per risolvere ciò che il gioco non vi chiede mai in maniera esplicita.
Sono meccaniche che non funzionano, rallentano, intralciano di proposito e allungano i tempi di gioco in modo artificioso.
A school named damnation
White Day è un survival horror hardcore, vecchio stile, intransigente e certamente non adatto a coloro che hanno poca pazienza e sono stati abituati alle facilitazioni. Tuttavia è impossibile non constatare quanto certe problematiche vadano ad inficiare quella che è la godibilità del titolo. Rimanere abbassati e sostare dietro i banchi di scuola o i mobili non è quasi mai d’aiuto e le routine comportamentali del nemico sono problematiche all’inizio, e imbarazzanti dopo qualche ora; recuperare gli oggetti curativi presso i distributori automatici è invece un elemento che abbiamo apprezzato, perché vi costringe prima a trovare le monete, poi a recarvi in dei punti prestabilii, costringendovi a una certa parsimonia soprattutto alle difficoltà più elevate.
Ci sono sono insomma delle meccaniche interessanti, in White Day, forse più perché rimembrano quelle di diverse generazioni fa, quando i giochi non prendevano per mano l’utente e gli ponevano anzi delle buone sfide. Eppure, il peso dell’età si fa sentire e una certa tendenza masochistica tipica dei giochi asiatici affiora a più riprese.
Tecnicamente il lavoro di restyle è buono e i modelli dei personaggi hanno fatto un bel salto di qualità, stessa cosa per quanto riguarda gli ambienti di gioco, ma con qualche riserva dovuta allo stacco netto di qualità tra i diversi elementi dello scenario. Capita infatti di vedere pessime texture in alcune zone e texture discrete in altre, e lo stesso si può dire per la modellazione poligonale, davvero altalenante. Se i suoni sono poco puliti e soffocati, le musiche sono invece molto buone e contribuiscono a creare un’atmosfera molto particolare, mentre la sensazione pressante di essere osservati da spiriti malevoli si presenta a più riprese e non vi abbandonerà più.

– Diversi miglioramenti grafici

– Aggiunto un nuovo personaggio

– Finali multipli e ottimi enigmi

– Survival horror old school e senza compromessi

– Frustrante, con scelte di game design pessime

– Il nemico principale arreca solo fastidio ed è gestito in maniera imbarazzante

– Qualità grafica altalenante

– Survival horror old school e senza compromessi

7.0

White Day: A Labyrinth Named School è il buon remake di un surival horror discreto, con una struttura di gioco che scricchiola in alcuni punti e subisce un po’ il peso dell’età. Alcune pessime scelte di game design si fanno purtroppo notare e pesano non poco sulla valutazione finale e sul grado di godibilità dell’opera. I nostalgici lo accoglieranno a braccia aperte, pur coi suoi difetti marchiani, mentre le nuove generazioni potrebbero avere qualche perplessità di fronte a un’offerta di gioco poco morbida, intransigente e molto old school.

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7