Tomb Raider, ripercorriamo le origini della saga

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a cura di Marcello Paolillo

Senior Staff Writer

Ci sono personaggi belli. Che affascinano, coinvolgono e appassionano per tutta la durata di un videogioco, un film o un fumetto. Poi, ci sono i personaggi realmente indimenticabili. Vere e proprie icone, in grado di cambiare il corso della storia e del medium di appartenenza, ispirando con il loro carisma tutti coloro che tenteranno di avvicinarvisi. Lara Croft è sicuramente una di queste. Nata nel 1996 dalla mente di Toby Gard nel primo e indimenticabile capitolo della saga di videogiochi nota con il nome di Tomb Raider, la giovane archeologa – conosciuta all’inizio con l’imbarazzante nome di Laura Cruz – è diventata da subito un’icona pop di indiscutibile potenza, in grado di conquistare le copertine dei più importanti rotocalchi dell’epoca, e non solo. Con gli anni, complice anche l’uscita di una miriade di sequel sulle allora popolari console dell’epoca (ben cinque, da Tomb Raider II, Tomb Raider III, Tomb Raider: The Last Revelation, sino infine al capitolo chiamato Tomb Raider: Chronicles), Lara ha valicato i confini del piccolo schermo per approdare di prepotenza al cinema. Un’evasione che ancora oggi, in vista del film atteso fra pochissimi giorni nelle sale, diventa più attuale che mai.
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Lara Croft, dicevamo. Una donna in grado di superare il classico cliché della principessa in pericolo, imprigionata nel castello di turno. Lara non ha mai avuto, né avrà mai, bisogno di aiuto. A “salvarla” ci penseranno le sue due pistole, un Uzi e un fucile a pompa, tra rovine antiche, piramidi egizie e foreste ricche di insidie e pericoli. Oltre a un maggiordomo da rinchiudere nella cella frigorifera, si intende. Tutta questa potenza ha invaso il mondo del cinema a partire dal 2001, con il primo Lara Croft: Tomb Raider, film diretto da Simon West e interpretato dall’allora bellissima e statuaria Angelina Jolie. L’attrice si dimostrò assolutamente perfetta nel ruolo di Lara: grintosa, dalle curve e forme perfette e, soprattutto, armata fino ai denti. La trama, esattamente come la serie di videogiochi omonimi, era solo un pretesto: la setta degli Illuminati, in vista di un allineamento planetario che culminerà in un’eclissi solare, ha intenzione di mettere le mani su di un artefatto chiamato il “Triangolo della Luce”. Ovviamente, l’oggetto è legato a doppio filo al defunto padre di Lara Croft, intenzionata a tenere per sé il prezioso manufatto. Quello che ne consegue è un’avventura dai ritmi frenetici e concitati che non ama prendersi troppo sul serio, forte di un look tipicamente anni ’90 (come tradizione cinematografica impone), in cui la nostra Larangelina salta, corre e spara non negandosi qualche battutina al vetriolo di tanto in tanto, specie ai suoi due “colleghi” di lavoro, ovvero l’impacciato maggiordomo Hillary e l’esperto informatico Bryce.
Il successo della pellicola (parliamo di un incasso di oltre 274 milioni di dollari) viaggiò di pari passo ai vari sequel apparsi su console, sino al secondo film della saga uscito nei cinema nel 2003 grazie al regista Jan de Bont: Tomb Raider – La Culla della Vita. Anche questa volta, i toni del film sono una via di mezzo ideale tra la spettacolarità classica dei videogame e una classica avventura alla Mission: Impossible. Lara riceve questa volta l’incarico – forzato – da parte dell’MI6 di recuperare il Vaso di Pandora, il quale pare contenga un virus letale in grado di uccidere l’umanità intera, e sulle cui tracce si trova ovviamente uno scienziato pazzo sconvolto da presunte manie di grandezza. Miss Croft si imbarca quindi in un’avventura che la porterà in varie parti del globo, sino ad arrivare nel luogo ancestrale e dimenticato dal tempo dove pare si trovi la “Culla” della vita. Nonostante questo seguito sia a conti fatti molto migliore del primo film, questi si rivelò un brutto flop al botteghino, con un incasso che superò di poco i 156 milioni di dollari. Ciò scandì l’inizio di una discesa inesorabile per la nostra povera Lara.
Tutto quello che è perso deve essere ritrovatoL’insuccesso nel 2003 del primo episodio della serie sull’allora popolarissima PlayStation 2, Tomb Raider: The Angel of Darkness, segnò a tutti gli effetti la “morte” di Lara – oltre che del team di sviluppo storico, i Core Design – prima considerata un’icona in grado di muovere milioni di dollari al solo passaggio e ora definita un personaggio “scomodo” e difficile da gestire. Solo nel 2007, con un primo timido tentativo di far tornare Miss Crot sotto ai riflettori grazie al remake del primo capitolo della serie (il discreto Tomb Raider: Anniversary), il franchise tornò lentamente a splendere di luce propria, proprio come fosse un manufatto dimenticato da Dio recuperato ora dalle avide mani dell’uomo. Ma è solo nel 2013, con il reboot ufficiale chiamato semplicemente Tomb Raider, che la serie sale nuovamente agli onori della cronaca. Il perché di questo successo è presto detto: un impianto di gioco più snello e flessibile, con un importante occhio di riguardo all’aspetto cinematografico, rende il ritorno della serie un prodotto per tutte le fasce di videogiocatori, sia coloro che ricordano la vecchia Lara con una punta di nostalgia, sia quelli che non hanno mai sentito parlare della temeraria Lady Croft, poiché forse troppo giovani per ricordarsela. Ma è anche la nostra iconica protagonista ad essere profondamente cambiata, non più l’eroina tutta d’un pezzo e dotata di un’arsenale di fucili e granate, bensì una giovane ragazza insicura e sofferente (forse anche un po’ troppo), armata esclusivamente di arco e frecce, oltre a una giusta dose di forza di volontà. Questo nuovo aspetto estetico, decisamente straniante per tutti coloro che sono cresciuti con la Lara Croft statuaria e predominante di fine anni 90, ha in ogni caso ottenuto i favori del pubblico, sino anche alla pubblicazione nel 2015 del sequel diretto, Rise of the Tomb Raider, che ha dimostrato la volontà dei Crystal Dynamics di raccontare le “origini” di Lara, sino alla consacrazione del mito. Un mito, che si appresta ora a tornare nuovamente sul grande schermo con un film diretto da Roar Uthaug e basato proprio sull’omonimo videogioco del 2013. Non più Angelina nei panni di un’archeologa con il vezzo di rischiare la pelle, bensì una fragile Alicia Vikander (premio Oscar per The Danish Girl), slanciata ma dal viso acqua e sapone, finita suo malgrado su di un’isola misteriosa ricca di insidie e pericoli. Nel momento in cui scriviamo, a pochi giorni dall’uscita del nuovo lungometraggio, abbiamo potuto vedere davvero poco, che pur dimostrando una volontà di intenti ben definita (ossia quella di replicare in tutto e per tutto il look del reboot videoludico), deve ancora mostrarsi e dimostrare tanto. La domanda che dunque ci poniamo – e vi poniamo – è questa: la maledizione dei film tratti dai videogiochi è forse destinata a continuare, o finirà come a ricominciare dalla rinascita che ci ha portato qui? Sicuramente, è presto per dare una risposta chiara ed esaustiva. L’unica cosa certa è che Lara Croft sta tornando anche al cinema, che vi piaccia oppure no.

Le impressioni avute finora riguardo al prossimo lungometraggio dedicato a Tomb Raider sono che Warner Bros. Pictures abbia scelto la via della fedeltà visiva, prima ancora che concettuale. Alicia Vikander appare infatti come una Lara Croft fedele a quella di nuova concezione, all’interno di un contesto tremendamente simile agli ultimi due videogiochi della saga, ma allo stesso tempo piuttosto embrionale. Perché nonostante il fatto che ad interpretare Lara ci sia “un premio Oscar”, ciò non deve distrarre dal presupposto che per interpretare un’icona immortale come Miss Croft serve innanzitutto carisma da vendere, prima ancora che talento recitativo. Oltre a due belle pistole nella fondina.

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