Regalerebbe un coltello a suo figlio?

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a cura di LoreSka

Le polemiche legate al mondo dei videogiochi sono sempre le stesse: i videogiochi rendono violenti, i videogiochi causano il deficit dell’attenzione, i videogiochi rovinano l’infanzia. Le madri, spesso preoccupate, riversano le proprie perplessità nei blog e si rivolgono ad associazioni che mantengono spesso posizioni estremiste. Di norma, sia i giornalisti videoludici che i lettori sono abituati a questo genere di polemiche, che finiscono nel dimenticatoio dopo i soliti passaggi sui social network. Questa volta, però, abbiamo deciso di rispondere a un articolo firmato dalla pediatra Sabrina Salvadori sul blog “La 27a Ora” del Corriere della Sera, quotidiano generalmente aperto al mondo dei videogiochi e con cui collaborano firme del calibro di Stefano Silvestri.
Nell’articolo, che potete leggere qui, una madre preoccupata spiega di essere venuta a conoscenza dei contenuti del videogioco Grand Theft Auto V, chiedendosi come fosse possibile che un tale videogioco venisse commercializzato, ed esprimendo la propria preoccupazione in merito al fatto che i figli potessero scaricarlo da internet, sfuggendo al controllo dei genitori.
L’articolo ci è parso così pieno di inesattezze, imprecisioni e inutili allarmismi da spingere chi vi scrive a rispondere. Le righe che seguono sono il copia-incolla originale (con un paio di refusi corretti e l’aggiunta delle immagini) della risposta inviata al blog La 27a Ora, attualmente in fase di approvazione dai moderatori del Corriere della Sera.
Regalerebbe un coltello a suo figlio?
Cara Sabrina,
mi chiamo Lorenzo Mosna, sono laureato in scienze della comunicazione e in televisione, cinema e new media e da otto anni mi occupo di critica videoludica per uno dei più importanti siti web italiani dedicati all’argomento. Quando ho letto il suo articolo sono stato istantaneamente spinto a risponderle, perché nelle sue righe leggo un inutile allarmismo e una profonda ignoranza nei confronti di ciò che è il medium videoludico.
Dunque, partiamo dal principio: il videogioco è un medium, e come tale veicola diversi messaggi rivolti a pubblici eterogenei. Così come il cinema, la letteratura, la musica, il fumetto, esistono opere videoludiche create per pubblici di sesso, titolo di studio, età, estrazione sociale e gusti totalmente differenti. La tassonomia del videogioco è andata complicandosi in maniera parallela a quella del cinema postmoderno, cosicché oggigiorno abbiamo a che fare con videogiochi sempre meno classificabili entro schemi prestabiliti e di generi sempre più fusi e confusi. Il videogioco è un medium complesso, un audiovisivo interattivo aptico, che coinvolge vista, udito e tatto e che costringe il fruitore ad interagire con l’ambiente che gli viene presentato. 
Per sua natura, il videogioco è un medium immersivo, che richiede al giocatore di comprendere le regole che governano il mondo ricreato sullo schermo e di poterle utilizzare a proprio vantaggio. Il problema è che, come spesso accade, l’immersività non deve essere confusa con l’immedesimazione, e la comprensione delle regole di un mondo creato artificialmente non deve essere confusa con un presunto stato di straniamento dalla realtà. Così come avviene in un film, in un videogioco può capitare di provare empatia e di condividere con i protagonisti alcuni stati emotivi ma, esattamente come avviene con tutti gli altri medium, una volta esaurita l’esperienza di gioco il fruitore sa distinguere tra ciò che è avvenuto sullo schermo e ciò che avviene nella realtà. O, se preferisce, il giocatore sa perfettamente la differenza tra uccidere o morire in un videogioco/libro/film/fumetto e uccidere o morire nella realtà. Se ciò non avviene, il soggetto è evidentemente affetto da un grave disturbo psichico detto “alterazione onirica della coscienza”, che non si risolve con “l’educazione dei genitori” ma con una terapia psichiatrica. Ritenere che proprio figlio possa uscire di casa e uccidere una prostituta per rubarle i soldi dopo avere giocato a un videogioco significa credere che i videogiochi (o qualunque altro medium) possano trasmettere le malattie psichiatriche così come uno starnuto può trasmettere un raffreddore. Si renderà conto anche lei che un’affermazione del genere sarebbe totalmente priva di fondamento.
Veniamo al gioco in questione: Grand Theft Auto V. Come giustamente scrive, in Grand Theft Auto si interpreta il ruolo di un criminale, il quale può compiere vari reati che vanno dal furto d’auto fino all’omicidio. Nel gioco si spara, si uccide, si assumono droghe, si fa sesso (a pagamento) e si ode la parola “negro” almeno un migliaio di volte. Potrei citarle almeno una cinquantina tra film e libri che trattano dello stesso argomento e presentano contenuti analoghi, e potrei anche farle notare che tutti questi libri e film sono stati realizzati e commercializzati esplicitamente per un pubblico adulto. Ebbene, anche Grand Theft Auto V è un gioco prodotto, realizzato e commercializzato per un pubblico adulto in maniera altrettanto esplicita. Vede, Sabrina, sulla copertina del gioco (di qualsiasi videogioco) venduto in Europa capeggia un numero, detto PEGI. Questo numero indica l’età minima consigliata per il gioco, mentre sul retro della copertina sono indicati i motivi per cui questo gioco è stato consigliato a tale fascia d’età, indicati con delle icone piuttosto intuitive. Nel caso di Grand Theft Auto V, il numero indicato sulla copertina è “18” mentre il retro mostra tre icone sotto le quali è possibile leggere, in lingua italiana, “linguaggio scurrile, violenza e droghe”. Lei, madre, comprerebbe a suo figlio Francesco di undici anni un prodotto che esplicitamente indica la presenza di contenuti per adulti, violenza, droghe e linguaggio scurrile? Davvero, non mi spiego come le madri dei compagni di classe di suo figlio abbiano potuto pensare che un prodotto del genere potesse essere adatto ai propri ragazzi. O, forse, me lo spiego: la maggior parte delle madri è totalmente incurante di ciò che finisce in mano ai propri figli.
Come scrivevo in apertura, dobbiamo tutti comprendere che il videogioco è un medium, e come tale veicola messaggi rivolti a diversi pubblici. Tutte le madri sanno che il film “Arancia Meccanica” non è un film da proiettare in prima media, che il libro “Cinquanta sfumature di grigio” non è letteratura per ragazze preadolescenti e che i fumetti di Milo Manara non sono una valida alternativa a Topolino. Allo stesso modo, una madre dotata di un po’ di sale in zucca dovrebbe istantaneamente rendersi conto che un videogioco sulla cui copertina si trovano tre uomini armati, una donna in bikini, un rottweiler inferocito e il cui titolo, tradotto in lingua italiana, è “Furto di veicoli” non è un prodotto per bambini, e questo senza nemmeno notare il “18” scritto in rosso  presente in copertina di cui parlavo qualche riga più in alto. Sabrina, lei si domanda come sia possibile che “esistano dei giochi simili, che delle persone possano inventare e programmare dei giochi così e che oltretutto questi giochi possano essere messi in vendita nei negozi”. Il motivo per cui esistono questi giochi è lo stesso per cui esistono i film nei quali un gruppo di adolescenti viene trucidato da un maniaco omicida, o per cui esistono le serie televisive in cui un mediocre insegnate universitario diventa un barone della droga: questi prodotti si rivolgono ad un pubblico che è interessato a questo genere di argomenti. Non mi sorprenderei se suo figlio undicenne avesse espresso interesse per film e serie televisive “per adulti”, e non mi sorprende il fatto che lo faccia per un videogioco.
In breve: non si può biasimare suo figlio che ha cercato di convincerla ad acquistare il gioco senza spingerla ad informarsi: quale bambino non vorrebbe giocare a un videogioco “da grandi” o vedere un film “da grandi”? Io stesso, cresciuto negli anni Ottanta, ho un vivido ricordo della videoteca del mio paese, e del fatto che desiderassi vedere “La Casa 4” anziché “La Storia Infinita”, ma il senso critico di mia madre e un po’ di attenzione la spinsero sempre ad affittare prodotti adatti alla mia età. Se lei è disposta ad acquistare a suo figlio un film/libro/videogioco senza prima informarsi dei contenuti, mi perdoni la franchezza, la colpa è sua, non di chi produce tali contenuti né di chi li commercializza. 
I ragazzini hanno sempre avuto accesso a materiale inadatto alla loro età, e con l’era di Internet questa possibilità si è semplicemente fatta più ampia. Mi creda se le dico che a 12 anni avevo già visto il primo “giornaletto sconcio” della mia vita, che qualche compagno di classe aveva avuto da un fratello più grande e che ci passavamo fra i banchi delle medie. Mi creda se le dico che 12 anni  fra i maschi della mia classe si parlava delle dimensioni delle tette della Laura, che stava seduta due banchi più avanti. Eravamo adolescenti, perdiana, è normale. I miei genitori sapevano che avevamo un giornaletto sconcio e che guardavamo le tette della Laura anziché studiare matematica? No. Lo avrebbero impedito se lo avessero saputo? Certo che sì. Le posso anche dire che, quando io facevo la terza media, si era diffuso un videogioco chiamato Carmageddon nel quale lo scopo del gioco è investire con la propria auto i pedoni. Ci abbiamo sempre giocato di nascosto, perché i nostri genitori ce lo avrebbero impedito. Sono passati quasi diciotto anni dall’uscita di quel videogioco, e le posso assicurare che né io né la generazione di bambini nati tra il 1980 e il 1985 siamo diventati pirati della strada con tendenze all’omicidio di massa. All’epoca, inoltre, non esistevano sistemi di classificazione come il PEGI, né vi era la possibilità di documentarsi su Internet come avviene oggi, e i miei genitori avrebbero fatto molta più fatica a comprendere i contenuti del videogioco senza osservarmi direttamente all’opera (e io ben mi guardavo da utilizzare tale gioco in presenza di mamma e papà). 
Poiché lei ha un blog e la consapevolezza del medium, sono certo che alla richiesta di suo figlio di acquistare Grand Theft Auto V avrebbe avuto le competenze e la possibilità di inserire il nome del gioco in un motore di ricerca e scoprire da sé la vera natura di questo videogioco. O, in alternativa, avrebbe potuto chiedere a un negoziante al momento della prenotazione. O, ancora, avrebbe potuto guardare la copertina e leggere il PEGI. O, infine, con una conoscenza della lingua inglese da quinta elementare avrebbe potuto capire che “Grand Theft Auto” parla di furti di automobili, facendole scattare un campanello d’allarme.
Purtroppo, Sabrina, il problema di cui parla esiste: vi sono prodotti inadatti ai bambini a cui i bambini possono avere facilmente accesso. Ma sono convinto che, altrettanto facilmente, qualunque genitore possa controllare quale videogioco stia acquistando al proprio bambino e/o a quale gioco stia giocando. Sono certo che lei si curerà di sapere cosa guarda suo figlio in televisione, quali siti web visita e quali compagnie frequenti: allo stesso modo, lei come qualunque altro genitore dovrebbe essere a conoscenza dei videogiochi a cui suo figlio sta giocando.
Nel suo articolo, lei si lamenta dell’esistenza stessa dei videogiochi violenti. Ecco, trovo questo punto alquanto ipocrita: se suo figlio gioca a un videogioco violento, la colpa non è certo del videogioco. La colpa è di chi ha messo questo videogioco in mano a suo figlio o, più precisamente, di chi ha permesso che egli vi potesse giocare. Per usare una similitudine, lei si sta lamentando con l’esercito svizzero perché suo figlio a Natale le ha chiesto un coltellino. Nel 2014 lei e tutti i genitori hanno i mezzi per comprendere quale sia un prodotto inadatto al proprio bambino: così come non regalerebbe un temperino affilato a un bambino di cinque anni, oggi le vengono fornite tutte le possibilità per comprendere quali siano i videogiochi adatti e inadatti a un ragazzino di undici anni. 
Più che dell’industria videoludica, mi preoccuperei dell’esercito di madri che hanno comprato Grand Theft Auto V ai propri figli o che non hanno controllato cosa il figlio abbia scaricato da internet. Loro sono il problema, non il videogioco.
Cordiali saluti
Lorenzo Mosna