Portal 2

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a cura di Mugo

San Francisco – Non tutte le sessioni della Game Developers Conference hanno lo stesso richiamo sui molti partencipati alla kermesse californiana, a volere stilare una classifica degli eventi più frequentati, quello dedicato a Portal 2 vi entrerebbe senza difficoltà alcuna, vuoi per il grande successo della produzione Valve, vuoi per l’intrigante titolo della sessione: “Creare un seguito per un gioco che non ne ha bisogno”.Infatti, se dal punto di vista dei giocatori c’è sempre bisogno del seguito di un ottimo gioco, le cose non sono così immediate per chi i giochi li sviluppa, vediamo perché. 

Squadra che vince… 
Nell’ambiente musicale si dice che il secondo album di un artista sia la prova più difficile, soprattutto se il primo ha riscosso successo e ci sono da riconfermare le impressioni positive di pubblico e critica. Anche nel cinema i seguiti sono spesso un test per regista e sceneggiatori, ed è piena la storia delle cinematografia mondiale di seconde volte andate a rotoli e odiate da i fan. Nel mondo dei videogiochi la questione è diversa: l’architettura del primo capitolo di una serie richiede impegno per essere demolita, è infatti molto più facile costruirci sopra e mantenere quanto di positivo è stato già fatto, ma bisogna anche stupire i giocatori evitando di produrre solamente un capitolo 1.5. Così arriva il momento di scegliere cosa tenere e cosa no, e a leggere la lista di cosa gli sviluppatori volevano lasciare da parte nella produzione di Portal 2, quasi non ci si crede. 
Cosa mettere in valigia? 
L’unico punto fermo, quando è iniziato il lavoro concettuale alla base della progettazione di Portal 2, era Aperture Science, una delle fondamenta su cui poggiava solidamente il primo capitolo e che non poteva venire messa da parte.E’ vero che il lavoro d’ideazione di un’opera creativa è un turbinio di idee che si contaminano l’una con l’altra, ma è anche necessario darsi degli ormeggi stabili, e questi ormeggi non prevedevano nè Chell, nè Glados, nè i portali.L’idea iniziale era quella di ambientare Portal 2 negli anni ottanta, in una vecchia Aperture Science gettata a capofitto nella sperimentazione più spregiudicata e guidata da un amministratore delegato, il Cave Johnson che si può ascoltare nella versione finale del titolo, prototipo dell’imprenditore texano tutto sigari e cappelli da cowboy.Dopo circa tre mesi di sviluppo i risultati parevano avere tutte le carte in regola per creare la base su cui edificare un nuovo prodotto di qualità, ma, molto semplicemente, non erano adatti a Portal 2. E’ così che Valve ha messo da parte quanto fatto fino a quel momento, e deciso di tornare sui suoi passi, dopo aver capito che non si poteva fare a meno di Chell, di Glados e, soprattutto, dei portali. 
Giocatori e sfere 
Dopo avere scelto di mantenere invariate queste caratteristiche si è presentato un nuovo, complicato, problema: conservando così tanti elementi, chi avesse già giocato al primo capitolo si sarebbe trovato a partire da un livello diverso da quello di chi si fosse perso il primo Portal, obbligando apparentemente a scegliere tra l’annoiare i primi con un tutorial, o lo spiazzare i secondi omettendolo.Non potendo fare a meno di spiegare le meccaniche di gioco, l’idea è stata quella di inserire nella scenografia dei livelli del materiale diretto ai giocatori già esperti, così da strizzargli l’occhio dicendo: “Hey, lo so che sai già tutto!“. Da qui nascono le versioni in rovina delle sezioni già viste in Portal, e i video che scorrono mentre si è in ascensore.Non ci sono, però, solo i problemi più ovvi dal punto di vista del gamedesign, ce ne sono altri che nascono direttamente da alcune convinzioni autoindotte degli sviluppatori che si rivelano infondate quando guardate dall’esterno.L’aggiunta di Wheatley è servita per creare fin dai primi momenti di gioco un legame tra il giocatore e il software, visto che non era possibile ripetere paro paro la relazione con Glados. L’intoppo, dunque, è arrivato con la decisione di farlo morire, creando così un vuoto narrativo che doveva assolutamente essere colmato. Per farlo sono state tentate diverse opzioni (tra cui un’esilarante Sfera-Morgan Freeman, estremamente saggia e flemmatica, ma esperta solo dei venti metri quadrati in cui è sempre stata) fino ad arrivare alla scoperta del proverbiale uovo di Colombo, niente vietava di far riapparire Wheatley con solo qualche graffio in più. 
Quando meno te lo aspetti 
Decidere il finale di un gioco non è certo facile, lo è ancora meno se il livello della sceneggiatura è particolarmente alto e si ha portato il giocatore ad aspettarsi qualcosa di insieme epico e ironico. Decidere come terminare Portal 2 è stata una delle sfide più complicate per il team di sviluppo, sfida che ha visto nascere, tra le altre, il concetto dei finali sparsi.Ci spieghiamo meglio: per un certo periodo di tempo, durante lo sviluppo, Portal 2 non ha avuto un solo finale, ma neanche i classici finali alternativi, erano infatti sparsi per tutto il gioco alcuni punti precisi in cui il giocatore poteva, con le sue azioni, attivare una delle tante sequenze conclusive. Il primo di questi momenti era stato programmato dopo appena due minuti di gameplay, mentre un altro consisteva nel permettere di aprire un portale sulla Luna attraverso una piccola fessura sul soffitto, così da far morire Chell sul satellite terrestre. Proprio questa idea si è evoluta nel finale che conosciamo adesso, a dimostrazione del percorso tortuoso che a volte si deve fare per arrivare a grandi risultati. 

E’ possibile sviluppare il seguito di un gioco che non ne ha bisogno? Ma è poi vero che Portal stesse bene anche per i fatti suoi? La risposta ad entrambe le domande è sì: l’ottimo livello di Portal 2 ci dimostra che se si ha qualcosa da dire di interessante è un bene farlo, anche se magari la prima opera che si ha prodotto è talmente curata da non necessitare apparentemente di ulteriori rifiniture o evoluzioni.