Perché la massificazione di Final Fantasy ha avuto un senso

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a cura di Gottlieb

Avrei potuto aprire questo articolo con uno dei tanti aneddoti raccolti tra le mura di Square-Enix o in questo lungo biennio alle calcagna di Final Fantasy XV, con una storia da raccontare, ma piuttosto che tediarvi con vicende personali che non interessano a nessuno dei lettori giunti qui perché attirati dall’argomento trattato, vi darò un paio di capisaldi sui quali si baserà quanto di seguito andrò a trattare. Final Fantasy, in primis, è sempre stata una saga di nicchia, una di quelle più nascoste, nonostante il brand sia indubbiamente, adesso, tra i più noti. L’operazione compiuta da Square-Enix nel tempo è assolutamente da premiare, perché Squaresoft, un tempo, così come Hironobu Sakaguchi, non pensavano affatto di poter conquistare una generazione videoludica proponendo al mercato dei titoli che hanno suscitato grande hype: la loro idea era quella di perseguire una filosofia, quella nipponica, che potesse dar loro un modo come un altro per riemergere da una palustre situazione economica. La sua forte nicchia ha portato, per anni, soprattutto nel decennio del ’90 e nei primi anni del 2000, a riunire persone appartenenti a questa nicchia e a creare conglomerati piccoli, ma resistenti, sostanziosi, formati da persone che si riunivano sotto la medesima egida: Final Fantasy.

Venias ne me mori faciasPrima di addentrarci in altri discorsi, vorrei portare alla luce alcuni dati di vendita sul franchise nipponico, paragonati ad altri grandi titoli che hanno impreziosito recentemente il mercato videoludico. The Witcher 3: Wild Hunt, al luglio dell’anno scorso, aveva venduto 10 milioni di copie, Call of Duty Black Ops III ha venduto più di 20 milioni di copie, Modern Warfare 3 più di 30 milioni, Fifa supera ogni anno i 15 milioni. Final Fantasy, invece, per quanto il franchise si attesti tra i più remunerativi della storia del videogioco, ha visto il suo più grande successo con il settimo capitolo, capace di arrivare a 10 milioni di copie, tante quante The Witcher 3, ma in un lasso di vita ben più ampio dell’ultimo lavoro di Cd Projeckt RED. Final Fantasy X, che segue in classifica e che giovò del fatto di essere il primo titolo della saga su PlayStation 2, riuscì a vendere 8 milioni di copie in tutto il mondo, di cui gran parte proprio in Giappone. Risultati che se paragonati ad altri grandi colossi, chiaramente sminuiscono quasi la bontà del prodotto, ma che non fanno altro che confermare quanto ci stiamo dicendo da qualche riga: Final Fantasy è un prodotto di nicchia. O almeno, lo è stato. E’ stata una parentesi fantastica dell’industria e dell’aggregatore di community, ha creato argomenti di discussione, ha aperto le porte su un universo tutto suo: ricordo eventi più unici che rari, tra cui il concerto di Nobuo Uematsu alla Fortezza da Basso di Firenze, al quale – nonostante fosse qualcosa di irripetibile e di inimmaginabile fino a quel momento – parteciparono in non più di trecento persone, nel 2008. Ricordo la presentazione di Final Fantasy VII: Advent Children a Venezia, con Tetsuya Nomura, al quale non si diede grande importanza e che non ebbe la considerazione che forse avrebbe meritato, in quel momento storico, con un film in GC che tanto avrebbe fatto discutere. Senza dimenticare, tra l’altro, tutti gli eventi sul web, tutte le piattaforme di aggregazione, dai forum fino ai siti dedicati esclusivamente a Final Fantasy, che si rincorrevano fornendo guide, soluzioni, news, traduzioni, recensioni delle versioni giapponesi (come con Final Fantasy XII, per esempio) e un meraviglioso primo tentativo, riuscito, di social game, il MegaQuiz di FFOnline, che dal 2005 in avanti ha tenuto incollati allo schermo del PC migliaia di fan. Esperimenti di coesione, di unione, di riunione di tanti individui legati da una sola grande passione, espressa sottoforma di cosplay, di fan-fic, di eventi come quelli poc’anzi elencati, presidiati da pochi appassionati, ma tutti a seguito dello stesso vessillo. Final Fantasy, in questo suo esser stato nicchia, è una parabola del videogioco e del modo in cui si è sviluppato nel nostro Paese, da entertainment per pochi, a intrattenimento per tutti, ad argomento trattato in ogni dove e in ogni modo, da YouTube alla stampa generalista, dalla specializzata – che state leggendo in questo momento – alla televisione, limitatamente alle competenze che a quest’ultimo medium siamo costretti ad affibbiare. Ora anche Final Fantasy è pronto a spiccare il volo.

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Excitate vos e somno, liberi fataliHajime Tabata, oltre al sogno che abbiamo già definito transmediale nella nostra trattazione di Kingsglaive, ha dimostrato come nessuno fino a ora, come nemmeno Testuya Nomura e Yoshinori Kitase hanno saputo e voluto fare negli anni passati, di voler massificare il franchise e portarlo a un livello successivo. Senza far perdere quegli elementi che esaltano il suo essere un individuo ben distinto nel panorama videoludico, forte delle ambientazioni fantasy e di argomenti sempre votati a conflitti armati tra città e vicende che pretendono la salvaguardia dell’umana stirpe, il director di Final Fantasy XV ha cercato una strada che potesse dare più lustro a Square-Enix: rendere Final Fantasy un titolo per tutti. Dopo gli scialbi tentativi del tredicesimo capitolo, uno scivolone troppo grande per non essere ritenuto un flop del franchise, era più che fondamentale puntare a un obiettivo più aulico, al portare il brand nelle case di tutti. Il battle system più dinamico e immediato, lontano da barre ATB, da sistemi a turni, da strategie con gambit o job set; la selezione delle armi con i tasti direzionali, quasi come se avessimo una ghiera a nostra disposizione; la conferma dei mostri visibili sull’overworld, sempre più distanti dai dettami old school, un aspetto che ha tediato l’esperienza jRPG per tanti anni; la personalizzazione dei personaggi dal punto di vista del vestiario e l’inserimento di mezzi di trasporto: tutti elementi che mirano a una miglioria non indifferente, condizionata e rimpinguata anche dall’open world messoci a disposizione nella prima parte dell’avventura. La libertà, che non era stata propria degli ultimi titoli e nemmeno dei primissimi nonostante la world map, si pone al centro dell’esperienza, che si lascia andare anche in numerosi minigame, dal pescare al pinball, forse ridondanti, ma in ogni caso facenti parte dell’esperienza finale. Final Fantasy XV ha indubbiamente strizzato l’occhio al presente, al futuro, si è spogliato di quella veste da nicchia ed è andato avanti, con buona pace degli affezionati alla nostalgia, che probabilmente non hanno fatto i conti col mercato.

Suteki da ne. Final Fantasy XV, d’altronde, è stato il crocevia di Square-Enix, è il bivio dinanzi al quale l’azienda di Shinjuku è andata a sedersi e a meditare. Sulla destra è riposto il successo, il trionfo in fatto di numeri e di vendite, oltre che di critica: con essi, poco più avanti, c’è stata la possibilità di tornare a ragionare in grande, di rimettersi in piedi e pensare al futuro, che si chiama Kingdom Hearts III e, sicuramente prima, Final Fantasy VII, che fin quando il quindicesimo capitolo della loro saga più longeva non avrà emesso il proprio canto del cigno non penso avranno grandi novità da raccontarci. Sulla sinistra, invece, attendevano le tenebre, attendeva l’incertezza di quello che sarà e che verrà, condizionata da un fallimento che potrebbe essere davvero la fine di una saga ultraventennale, incapace oramai di dire più la sua. Final Fantasy XV è stato un capitolo controverso, è vero: da un lato la critica lo ha premiato, per tanti aspetti che sarebbe inutile tornare qui a ripetere, ma dall’altro lato c’è stata una vasta pletora di videogiocatori che ha deciso di deriderlo, bocciarlo, denigrarlo, tanto per i contenuti offerti quanto per la modalità, che ha costretto il team di sviluppo a rilasciare numerosi DLC nel supporto post-lancio. Final Fantasy XV è stato, però, un titolo di cui si è parlato ovunque, e la direzione è cambiata: Square-Enix ha affidato a Tabata il compito di immettere il loro franchise di punta sul mercato e farlo con un grande rimbombo mediatico. E come d’altronde lo stesso director ha confermato nelle numerose interviste che ci ha concesso, il suo obiettivo era, oltre al creare il miglior Final Fantasy di sempre (che ce l’abbia fatta qui è soggettivo), renderlo aperto a tutti, aprirlo alla fruizione del mercato totale, massificarlo. 

Non vogliamo ridurre l’intero discorso a un “basta che se ne parli”, ma è chiaro che Final Fantasy XV è finito sulla bocca di tutti e ha permesso a moltissime persone di conoscere la saga. L’operazione svolta da Tabata ha massificato la conoscenza del brand e – non nascondiamolo – ha condotto i vecchi Final Fantasy a una nuova primavera, tra chi ha fatto nascere in sé il desiderio di recuperarli e chi, invece, ha voluto riscoprirli, magari perché ancorato a un ideale nostalgico che ha cozzato con il quindicesimo capitolo. È inevitabile che Tabata – per sua stessa ammissione – abbia pubblicato un prodotto non finito, che andava ancora rivisto e riadattato, ma che allo stesso tempo il coraggio del game designer nipponico è stato tanto: ha accettato la sfida più ardua, trasformare una nicchia in un prodotto massificato. Ce l’ha fatta: adesso di Final Fantasy si parla ovunque. E la massificazione, a volte, ha davvero un senso.