Narrazioni nascoste

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a cura di Nick

“Un mondo ben costruito può raccontare la sua storia in silenzio”.
Queste parole di Hidetaka Miyazaki, divenute ormai famose, riassumono alla perfezione il concetto di narrazione che il game designer giapponese ha infuso nelle sue opere più famose: Demon’s Souls, Dark Souls e Bloodborne. A pochi giorni dall’uscita del terzo capitolo della serie di Dark Souls, proviamo a ricostruire un percorso, naturalmente incompleto, su questa particolare forma di storytelling. Un modo di raccontare storie che ci mostra come i videogiochi, talvolta, preferiscano restare in silenzio.
Praterie
La prima tappa di questo viaggio ci porta nelle terre desolate di Shadow of the Colossus. Chi ha avuto modo di giocare a questo titolo sa che Fumito Ueda, il suo creatore, non si perde mai in troppe chiacchiere. Il nostro scopo, qui, è riportare in vita una ragazza e per farlo dobbiamo trovare e sconfiggere sedici colossi. Non ci viene detto altro: nessuno con cui parlare, nemmeno il solito mercante desideroso di raccontarci la sua storia. Potrebbe essere facile considerare tutto questo una debolezza, un difetto, ma fate attenzione: a Shadow of the Colossus non manca una storia, manca solamente qualcuno che ce la racconti. Lo storytelling portato avanti dal titolo, infatti, non procede attraverso le cutscene o i dialoghi dei png. Shadow of the Colossus ci racconta una storia attraverso ciò che lo costituisce nel profondo: il suo mondo, la sua estetica; ma anche il nostro rapporto con il cavallo Agro o i pericoli che ci pone di fronte. Ma soprattutto lo fa attraverso tutti quei piccoli momenti in cui decidiamo di abbandonare la ricerca dei Colossi in favore di un’esplorazione più libera e disinteressata, ma proprio per questo ancora più nostra e in fin dei conti autentica.
Nebbia
Spostiamoci di qualche anno indietro e andiamo a visitare una delle cittadine infestate più famose d’America: Silent Hill. Nel secondo capitolo del noto franchise horror veniamo messi nei panni di James Sunderland, un uomo vedovo e solo. A richiamarlo a Silent Hill è proprio la moglie defunta, la quale gli scrive una lettera in cui chiede di raggiungerla nell’hotel che li aveva ospitati durante il viaggio di nozze. Anche in questo caso la trama di Silent Hill 2 non ci rivela molto sul significato del nostro viaggio. Lungo il percorso che ci porterà al Lakeview Hotel, incontriamo personaggi a dir poco problematici, e nessuno di questi è incline a spiegarci con esattezza quello che sta accadendo. Ma ancora una volta non dobbiamo cercare nei dialoghi o nel testo il vero valore della narrazione di Silent Hill 2. Al di sotto dell’apparente silenzio, gli sviluppatori hanno nascosto una verità più profonda. A uno sguardo acuto Silent Hill si rivela essere non tanto un luogo fisico, quanto un luogo mentale: un purgatorio, o forse più propriamente un inferno, in cui il nostro protagonista è giunto per espiare le proprie personali colpe. Gli angusti corridoi, gli innumerevoli letti di ospedale, le infermiere dai tratti distorti: tutto ricorda a James il terribile peccato che lo macchia. Non è un caso che il suo principale avversario, il famoso Pyramid Head, simboleggi alla perfezione il concetto di senso di colpa. Lento, cieco, ma non per questo meno terrificante, o soprattutto inesorabile.
Rovine
Terminiamo il nostro viaggio tornando a Hidetaka Miyazaki, colui che più di tutti , negli ultimi anni, ha incarnato questo tipo di narrazione “ambientale”. Chiunque abbia giocato ad almeno uno dei cosiddetti “Souls”, sa che Boletaria, Lordran, Drangleic e Yharnam sono mondi di eccezionale bellezza, permeati da un fascino decadente e desolato. Ma la loro grandezza non si ferma alla semplice cura estetica. Rispetto ai due titoli di cui abbiamo parlato poco fa, i “Souls” mettono in atto una diversa forma di storytelling. Se Shadow of the Colossus possiede un’ambientazione dai confini sfocati e Silent Hill 2 richiede al giocatore di comprenderne il simbolismo, i “Souls” adottano invece un approccio leggermente diverso. Qui la storia è infatti straordinariamente precisa e complessa, ma questa viene frammentata dagli sviluppatori, per poi essere occultata al di sotto della superficie. La narrazione esplicita è pressoché assente, relegata com’è al filmato introduttivo e ai pochissimi dialoghi dei png. Il resto è lasciato alla nostra libera volontà di indagare e approfondire. In questo senso, allora, la raffigurazione religiosa dipinta sullo Scudo dell’Arbitro, la strana foggia dell’armatura di Lautrec o la gabbia mentale di Micolash diventano altrettanti indizi, utili a ricostruire un universo narrativo incompleto, ma proprio per questo stratificato e apparentemente senza limiti. Miyazaki gioca con il suo pubblico, attuando quello che sembra essere a tutti gli effetti un giallo collettivo, in attesa di essere risolto. Non è un caso che la community dei “Souls” sia una delle più affiatate nel panorama dei gdr e una delle poche ad avere al suo centro proprio l’indagine sul “lore”.
Lost in translation
Lo stesso Miyazaki, in un’intervista, ci racconta un aneddoto illuminante. Quando era ancora un ragazzo, una delle sue passioni erano i romanzi fantasy occidentali. Il problema era che spesso questi testi non erano ancora stati tradotti in giapponese e l’inglese del giovane Hidetaka non doveva essere molto buono. Miyazaki si trovò così a dover riempire dei vuoti di senso, dei buchi narrativi, attraverso ciò che gli era più proprio: la sua immaginazione. Alla fine quei romanzi gli sembravano anche un po’ suoi. Questa esperienza rimase talmente impressa che decise di renderla il suo personale modo di raccontare attraverso i videogiochi.
In attesa di immergersi ancora una volta nei mondi creati da Miyazaki, un saluto e alla prossima.

Negli ultimi anni il concetto di “narrazione ambientale” si è fatto sempre più largo all’interno del mondo dei videogiochi. Raccontare non è solo questione di testo e di dialoghi. Ai più classici strumenti dello storytelling se ne affiancano altri: l’ambientazione, il gameplay, l’estetica.

A volte questi elementi bastano e avanzano, mostrandoci che si può raccontare una storia anche senza spendere troppe parole.