Recensione

Munin

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Un eremo scorgo, lontano dal sole, 
su Nåstrond si erge, le porte verso nord là vedo, 
attraverso fiumi infetti, uomini abietti, 
vili assassini, ladri che ruban virtù a mogli oneste
Queste poche righe, assieme ad altre presenti nelle schermate fisse prima di ogni mondo, rappresentano l’approccio narrativo di Munin, un puzzle game particolare che pesca dalla mitologia norrena per creare poco più che uno sfondo per i propri livelli bidimensionali. Munin era uno dei due corvi che informavano Odino su tutto ciò che accadeva a Midgard; qui, invece, assume le sembianze di una ragazza dopo che Loki l’ha privata delle ali, costringendola a vagare in lungo e in largo per recuperare le sue preziose piume nere.
Ruota il mondo
Considerando quanto ricca e complessa sia la mitologia a cui fa riferimento il gioco, è un peccato che le limitazioni narrative siano così evidenti. Munin è infatti incentrato unicamente sui rompicapo che bisognerà risolvere, senza essere capace di stimolare il giocatore dal punto di vista della trama, che è praticamente assente. Ci sono numerosi rimandi alle fantastiche immagini mitologiche della terra scandinava, ma rendersi conto che si tratta solo un’aggiunta accessoria che giustifica la realizzazione delle ambientazioni, fa un po’ male dentro. In effetti, Munin non pretende di essere qualcosa di diverso da un puzzle strutturato in livelli statici, né tantomeno prova a coinvolgere l’utente in modi alternativi. Vi ritroverete dunque all’interno di scenari suddivisi fisicamente da grosse caselle ruotabili, che permettono di raggiungere zone altrimenti fuori portata. La difficoltà principale è esattamente questa, perché bisogna avere intuizione, logica e talvolta anche prontezza di riflessi, in un sistema di gioco che è figlio di ottime intuizioni, ma anche di qualche scelta di game design decisamente poco convincente. 
Se cambiare i connotati dei livelli risulta semplice durante i primi minuti, ben presto le cose cominciano a farsi più complesse, soprattutto perché ruotare un quadrante significa automaticamente ruotarne anche altri in punti spesso divergenti. Per questo motivo, un livello con molte caselle può a primo impatto mettere in crisi anche il più paziente e ottimista degli utenti, ma bisogna dire che con un po’ di attenzione e con la capacità di saper immaginare la nuova estetica di uno scenario, si riescono a padroneggiare le logiche che stanno alla base del titolo sviluppato da Gojira. Non è possibile ruotare la casella in cui si sosta, pertanto aprirsi una nuova strada diventa un’operazione da eseguire fuori dal perimetro della zona, e talvolta anche “al volo”, perché molto spesso bisogna stare attenti agli elementi di disturbo che possono cancellare in un attimo la vita di Munin. Il compimento di questa disgraziata ipotesi, vi fa automaticamente ricominciare il livello da capo, e fidatevi quando vi diciamo che morire a causa di motivi molto stupidi non è esattamente il massimo della gioia, soprattutto quando ci avete messo un quarto d’ora buono per far incastrare ogni casella con attenzione, cercando una coerenza architettonica che non balza immediatamente all’occhio.

La blackster triste
In sostanza, non prendere in considerazione la presenza di checkpoint intermedi è una scelta a tratti sin troppo punitiva, in particolar modo perché le movenze di Munin sono goffe e dunque poco adatte ad evitare una prematura dipartita. In un mondo, per esempio, ruotare delle caselle significa attivare dei grossi massi che servono a raggiungere posti sopraelevati; ma non accorgersi delle conseguenze dei propri atti e vederseli rotolare addosso senza poter fare nulla, è frustrante. E accade anche con la lava.Il nostro personaggio può solo camminare e saltare, ma piuttosto lentamente rispetto alle esigenze che effettivamente ha. Senza contare che la responsività, oltretutto, non è esattamente tra le migliori viste.
Ogni mondo ha una piccola diversificazione alla formula che viene reiterata per tutti i livelli. Ecco dunque che oltre ai massi troviamo degli interruttori mobili attivabili con la forza di gravità, o dei laser che complicano un po’ il tutto. La parte più interessante è però rappresentata dal mondo in cui si ha a che fare con l’acqua, la fisica dei liquidi e il principio dei vasi comunicanti: qui si nuota, si svuotano interi corridoi e si riempiono aree per riuscire a raccogliere quelle piume che sembravano proprio irraggiungibili. Tranquilli però, non affogherete e soprattutto, l’unica punizione che avrete dalla morte è la ripetizione dello stesso livello. 
A lungo andare, non potrete fare a meno di avvertire un certo sbilanciamento nella difficoltà, perché la verità è che Munin ha dei grossi problemi che lo fanno fluttuare tra l’eccessiva semplicità e la brutale difficoltà, spesso senza vie di mezzo. Va da sé che si tratta di un gioco adatto solo a chi ama mettersi in discussione coi puzzle, e non a tutti gli altri, che potrebbero farsi accalappiare da un aspetto grafico che adesso va tanto di moda tra gli indie. Cercare la particolarità in una cosmesi che fa il verso alla pittura dei Macchiaioli poteva andare bene ai tempi di Braid, ma oggi risulta essere qualcosa di artefatto e poco originale. E poi, diciamolo pure: l’acqua sembra realizzata con Paint.

– Puzzle ben congegnati

– Discretamente impegnativo

– Sullo sfondo, la mitologia norrena…

– … Mai approfondita narrativamente

– Difficoltà decisamente sbilanciata

– A tratti sin troppo punitivo

6.0

Munin è un buon puzzle game, che soffre però di grossi problemi di sbilanciamento nella difficoltà. Gli scenari che vogliono dare uno spaccato della mitologia norrena sono evocativi e d’effetto, ma da soli non bastano a convincere, soprattutto se non supportati da una trama vera e propria che possa evitare un esagerato sfilacciamento del concept di base. Discretamente impegnativo e con qualche buona idea, Munin avrebbe dovuto prendersi del tempo in più per uscire allo scoperto. Così com’è, ha effettivamente qualche problema di troppo.

Voto Recensione di Munin - Recensione


6