Recensione

Leatherface, la recensione del prequel di Non Aprite Quella Porta

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Dopo ben sette film dedicati alla lunga saga di Non Aprite Quella Porta, con un primo indimenticabile capitolo e altre pellicole che sarebbe meglio dimenticare per sempre, il lavoro della coppia di registi francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury non era affatto semplice. Ultimo film a vedere il nome del compianto Tobe Hooper in veste di produttore esecutivo, Leatherface è il prequel del capolavoro uscito nel ’74, in grado di influenzare un’intera generazione di addetti ai lavori e lasciare un segno indelebile all’interno del genere. Raccontare la storia di Faccia di Cuoio significa rispettare la visione originale dei propri creatori, ricalcando le linee guida ormai immediatamente riconoscibili dai fan di vecchia data; eppure, nonostante una buona aderenza ai fatti e un’attenzione ai dettagli degna di nota, la sceneggiatura si prende qualche libertà di troppo.
La vita di un mostro
In questo prequel viene raccontata la storia di quattro adolescenti scappati da un ospedale psichiatrico, i quali rapiscono un’infermiera e la portano con sè in fuga da un poliziotto squilibrato (Stephen Dorff) determinato a vendicare il nome della figlia uccisa dalla famiglia Sawyer, qui al gran completo e quando la fattoria era ancora al suo antico – seppur malsano – splendore. Uno di questi ragazzi verrà segnato per sempre dagli eventi che si verificheranno per tre quarti del film, diventando colui che è conosciuto oggi come Leatherface. 
Nonostante la storia funzioni molto bene, sia soddisfacente e spieghi senza ombra di dubbio quali siano stati gli elementi scatenanti – fisici e psicologici – per la follia del protagonista, c’è un’evidente reinterpretazione della mitologia di Non Aprite Quella Porta. Sebbene l’idea originale dietro il ritardo mentale e il viso sfigurato di Faccia di Cuoio sia legata al fatto che il bambino è stato frutto d’un terribile incesto, i produttori hanno optato per un’idea nuova che può senz’altro andare bene per chi si è appena avvicinato alla saga, ma che tradisce irrimediabilmente i fan.
Al di là di ciò, e non si tratta di certo di un dettaglio da poco, Leatherface è un film migliore di tutti quelli usciti dopo il terzo capitolo e riesce a far combaciare alla perfezione tutti gli altri elementi narrativi che compongono il grande mosaico della famiglia Sawyer. 
I registi hanno giocato molto su chi, tra i ragazzi evasi dall’ospedale psichiatrico, potesse infine essere il mostro che conosciamo oggi. Hanno volutamente speculato sulle più ovvie associazioni visive che un fan dell’ultima ora avrebbe avuto durante la visione del film, ma hanno anche fatto il grossolano errore di svelare chi sia a chiamarsi Jed, ossia Jedidiah Sawyer, a dimostrazione del fatto che questo prequel è in sostanza un prodotto che vuole avvicinare un pubblico nuovo senza tuttavia trascurare le aspettative degli appassionati.
E ci riesce piuttosto bene, perché viene tracciato un arco storico che parte vent’anni prima rispetto agli eventi di Non Aprite Quella Porta, per poi fare un salto in avanti di dieci anni, tratteggiando dunque una parte dell’America più problematica e marcia a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
Becoming Leatherface
Nel 1955, lo stato del Texas istiituì un programma di assistenza per bambini a rischio. Durante il primo anno di attività, circa cinquanta bambini furono portati via da case in cui criminalità, malattie genetiche o comportamenti sconvenienti erano la norma. I personaggi sono ancora bambini e si capisce che alcuni tra loro hanno subito dei maltrattamenti; sono violenti, allo sbando, incontrollabili. La storia, in tal senso, ha una dimensione psicologica non da poco, e mostra al contempo in che modo potremmo aver fallito come società e come tutto ciò abbia conseguenze nette in seguito.
Nonostante il buon ritmo, il film indugia un po’ troppo sui personaggi di contorno, mettendo in scena una prima parte più avventurosa e incentrata sulla dissolutezza dei quattro giovani, con momenti non necessari che diluiscono la durata più del dovuto. Ma d’altra parte Leatherface non è solo un film horror nel senso più stretto del genere, perché di fatto non vuole terrorizzare e ha al suo interno solo un paio di scene cruente; è un film sui rapporti umani deviati, sui legami e sulle conseguenze di quelli sbagliati o che finiscono d’improvviso. 
La struttura è insolita, per un film della saga, e si avvicina in un certo senso allo stile della “new wave of french horror“, puntando però su elementi più adatti al grande pubblico. 
Da rivedere è anche la scelta dell’attore che interpreta Leatherface, fisicamente inadatto al ruolo, mentre perfetta è Lili Taylor nei panni di Verna, la matriarca che ha un’influenza determinante sul figlio/nipote, a cui non resta che agire con furia cieca alle pressioni psicologiche e obbedire agli ordini che gli vengono impartiti.
Ottima la fotografia e l’uso dei filtri, con le scene negli interni che non possono non ricordare con forza l’ultimo Resident Evil, che a sua volta si rifà per larghi tratti proprio alla pellicola originale di Hooper. E non manca nemmeno una buona dose di fan service, con una breve scena d’inseguimento nel bosco o quando la telecamera indugia su quella parete del mattatoio improvvisato non ancora completamente tappezzata di teschi umani e di animali. Per quello, dovremo aspettare il ’74, quando Leatherface crescerà e si trasformerà definitivamente nel mostro che tutti conosciamo.

– Buon racconto della storia di Leatherface…

– Non mancano le scene cruente, in pieno stile french horror

… Che però scontenterà i fan per via di qualche libertà di troppo

– Indugia più del dovuto su personaggi poco rilevanti

– Esplicito ma non terrorizzante: ammorbidisce alcuni elementi per concentrarsi sulla storia

7.0

L’intenzione del produttore Les Weldon era chiara sin dall’inizio “Leatherface era l’occasione per affrontare in modo nuovo e diverso la mitologia di Non Aprite Quella Porta”. Accettare lo snodo fondamentale della trama significa soprassedere sulla vera storia del mostro creato da Henkel e Hooper (e molto influenzata dalle libertà interpretative di Gunnar Hansen) e accettare la nuova verità che il duo francese alla regia vuole presentarci. Se riuscirete a mandar giù queste libera reinterpretazione, il film riuscirà a catturarvi e incuriosirvi, accontentando solo in parte i fan di vecchia data. Chi invece si avvicina per la prima volta alla serie, si troverà davanti un buon film, che prende però le distanze dalle atmosfere del capolavoro di Hooper.

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7