Le chat in-game e le parole che nessuno vorrebbe mai sentire

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Sto giocando a Rainbow Six Siege con un amico, uno dei tanti che compongono il mio gruppo di gioco abituale. Ci ritroviamo a giocare in classificata e veniamo messi in squadra con due francesi (anche loro in lobby) ed un tedesco.L’inizio è stranamente amichevole per la media delle lobby pre-partita. Ci si chiede il paese di provenienza, e due di loro, uno dei francesi ed il tedesco, iniziano addirittura a scherzare. “Sei il mio nuovo migliore amico” dice in chat vocale pubblica il teutonico. La partita comincia, la prima è 1-0 facile. Ottimo, sono di squadra con gente brava e coordinata, giocatori che sanno il fatto loro, bene così. Arriva il 2-0, poi il 2-1 e il 2-2. “Nessun problema, la vinciamo”, dice in un inglese strascicato e dal fortissimo accento francese uno dei compagni. Ed è 3-2, “Chiudiamola con la prossima”, scrivo io in chat. Poi è 3-3 e si va ai supplementari. Il clima si scalda, volano le prime parole pesanti, niente di più grave di “fucking noob”. Comincio ad alterarmi ma sono abituato, non è la prima volta che succede e ora basta vincerne due di fila ed è fatta. Arriva il 4-3 in un round sofferto dove rimaniamo in inferiorità numerica e ribaltiamo con una gran giocata di uno dei francesi, lo stesso che, ancora una volta, dà ancora agli altri dei “fucking noob” perché è stato costretto a risolvere tutto da solo, a suo dire. Round atroce, non ricordo se fossimo in difesa o attacco, ma veniamo annientati in fretta: 4-4. Ormai si è perso completamente il controllo, il clima disteso e rilassato è stato completamente annientato, iniziano gli “oh my god” urlati nel microfono. Alla fine perdiamo 4-5.Volano gli insulti pesanti, ma pesanti davvero da parte dei due francesi e del tedesco nei confronti di chiunque altro in squadra, compresi me ed il mio amico. Il tutto finisce con una frase, scandita perfettamente in un inglese seppur storpiato dalla provenienza parigina: “Spero che tu muoia di cancro”. Un ragazzo francese, probabilmente più giovane di me dalla voce, che a fatica scrive in un inglese scolastico e con altrettanta difficoltà nasconde le vocali e le consonanti storpiate dalla sua madrelingua, riesce comunque a dirmi: “I hope you die for cancer”.Ho le spalle larghe (fisicamente e figurativamente), una trentina d’anni da compiere tra poco più di un mese, una vita passata davanti ai videogiochi e parte di essa online, con discussioni a cadenza quasi giornaliera su argomenti più o meno futili online, ma nonostante tutto ho avuto un mancamento.L’ho sentita proprio la proverbiale vena staccarsi, il cervello pompare sangue e svuotarsi, diventare più leggero, e la voglia di urlare nel microfono contro questo giocatore francese incapace (l’altro, non quello della giocata spettacolare di prima) che, a fronte di una prestazione penosa piena di errori e valutazioni errate, mi augura di morire di cancro. In quella frazione di secondo ho pensato agli insulti più feroci che avrei potuto vomitargli addosso, traducendoli altrettanto in fretta in inglese nella mia mente. C’era poco tempo perché si sarebbe scollegato dalla lobby a breve, mi dovevo sbrigare a rovinarlo.Invece ho placato la bestia. Ho combattuto i bassi istinti ed ho semplicemente cliccato su “torna al menù”, maledicendo solamente il fatto di non riuscire ad avere mai una squadra completa per giocare in classificata a Rainbow Six Siege.

Per questo non riesco a capire come si possa difendere PewDiePie ed il suo recente gesto, l’ennesimo di una serie ormai considerevole di comportamenti sconsiderati dati dal successo. Perché diciamoci la verità, PewDiePie è diventato indifendibile.Ma un po’ di contesto per chi, fortunatamente, non ha seguito la vicenda. La storia è questa: durante una diretta su Twitch dedicata a PlayerUnknown’s Battleground, lo youtuber ha dato del “fottuto negro” ad un altro giocatore per aver fatto semplicemente ciò che il gioco richiede: uccidere un avversario per vincere. Il problema è che lo ha fatto in un modo o in un momento, vai a capire, non gradito allo youtuber. Le vicende di Felix Kjellberg hanno sempre una cassa di risonanza spaventosa, e la notizia è rimbalzata più veloce della luce. Qualcuno gli ha dato del disgraziato, altri hanno fatto appello al fatto che “insomma, a chi non capita almeno una volta?”, e c’è chi ha detto che in fondo è una bravata e lui è solo un ragazzo. Però il “ragazzo” è seguito da oltre 57 milioni di persone solo su YouTube, con tutto quello che ne consegue.La giustificazione che va per la maggiore tra i suoi difensori è che, in fondo, capita a tutti. È vero, anche a me spesso capita di insultare i compagni di squadra e/o gli avversari, sebbene non mi sognerei mai, neanche nell’ebrezza della rabbia, di augurare a qualcuno la morte. Ma soprattutto, so riconoscere il contesto. Augurare il cancro mentre si gioca ai videogiochi è un atteggiamento che fa riflettere. A costo di sembrare un pochino moralista mi chiedo: perché, e quando un videogioco smette di divertire per diventare un veicolo di frustrazione così potente? Gli sfottò ci stanno, le maledizioni e le ingiurie lanciate agli avversari, oppure agli alleati per delle giocate scandalose, ma sono cose che rimangono all’interno del contesto della partita. Augurare la morte ad un giocatore significa insultarlo a livello personale, una cosa che esce dal contesto e si trascina fuori ben dopo la fine della partita. Gli insulti alle madri sono, dalla notte dei tempi, un altro tormentone dei videogiocatori, ma se la madre in questione fosse morta da poco, magari in giovane età? Vi assicuro che non è piacevole.Non riesco a capire chi difende PewDiePie perché credo che ognuno di noi debba imparare a capire il contesto delle proprie azioni, soprattutto in questi casi perché, anche se a volte nella foga della competizione si tende a dimenticarlo, si sta giocando ad un giochino elettronico. Non è concepibile che un personaggio come lui si dimentichi della sua posizione, posto che lo fa anche spesso. Una delle tante vicende legate al personaggio risale a non molto tempo fa, quando la Disney annullò qualsiasi collaborazione con lo youtuber, cancellando addirittura il suo show personale che era in partenza, finanziato dalla multinazionale stessa. Questa vicenda, allo stesso modo, ha portato i creatori di Firewatch, Campo Santo, a riconsiderare qualsiasi tipo di partnership con PewDiePie. Sean Vanaman, co-creatore dello studio, ha dichiarato su Twitter di non volerne più sapere dello youtuber svedese per via dei suoi comportamenti, con tanto di richiesta di rimozione dei video di Firewatch dalla piattaforma.Lo youyuber aveva deciso di impostare come privato il video di Firewatch per “rispetto” nei confronti della posizione e delle volontà di Vanaman, Campo Santo ha deciso di proseguire comunque per vie legali. Le politiche di Google, tuttavia, mettono in serio pericolo l’attività di PewDiePie: al terzo copyright strike, infatti, l’account verrebbe eliminato per sempre, con il divieto di crearne di nuovi.La dichiarazione di Kjellberg al riguardo: “Che io le piaccia o meno Mr. Vanaman, queste leggi sono create per eliminare contenuti e ogni volta che c’è il potere per farlo sarà abusato. Specialmente quando le ragioni per eliminare i contenuti non hanno nulla a che vedere con il copyright. Penso che queste leggi siano importanti per proteggere il lavoro degli artisti e ciò che fanno ed è per questo che penso che sia molto pericoloso fare questo tipo di affermazioni e portare avanti questo tipo di segnalazioni a livello di copyright senza alcuna valida ragione”.A questo punto, difficile dire se Felix sia un nazista o meno nel suo tempo libero, ma di sicuro i suoi follower lo sono.

A seguito di questa dichiarazione, la pagina Steam di Firewatch è stata riempita di insulti e recensioni negative, con commenti che esulano completamente dalle qualità o meno del gioco. Una vera e propria vendetta da parte dei sostenitori di PewDiePie nei confronti di Vanaman e i suoi. Se pensate che sia una bravata (di nuovo) da niente, pensate a chi tra qualche giorno o settimana andrà a vedere la pagina di Firewatch, intenzionato magari a comprare il titolo, ignaro di tutta la vicenda come succede a buona parte del pubblico medio riguardo le vicissitudini delle webstar, e vedrà la media delle recensioni degli utenti, ora notevolmente abbassata. Per uno studio indipendente è devastante.E quindi, direte voi, cosa ne ricaviamo da questa storia? Ovviamente nulla, se non l’ennesima consapevolezza della potenza delle webstar. Qualcuno, da qualche parte, diceva che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, un messaggio che nel mondo dei talent del web annega ogni volta nell’oceano di celebrità che ogni giorno emergono dal nulla.PewDiePie si è ovviamente scusato con un successivo video, definendosi un idiota e deputando tutto quanto alla “foga del momento”. Ecco, è proprio questo il punto, non dovrebbe esserci una foga del momento. A rischio di scadere nella retorica, mi preme ricordare (anche a me stesso, perché nessuno è perfetto) che i videogiochi dovrebbero essere prima di tutto una valvola di sfogo, un momento di relax, ma comunque qualcosa che non deve in alcun modo permettere alla bestia di emergere. Anche quando la bestia ha fame, sta a noi scegliere la sua alimentazione, passatemi la metafora.

La recente, ennesima vicenda di PewDiePie mi ha fatto riflettere. Nessuno è perfetto e PewDiePie non è un demonio, come non lo è nessuno di noi. Però, nella sua posizione, è giusto che subisca la gogna mediatica, perché chi ha un seguito così numeroso come lui ha onori ma anche oneri, e questi passano anche per la cura dell’immagine pubblica. Non ci solo le partnership, le markette, e la capacità di influenzare le vendite di un prodotto.

Bisogna cominciare però a riflettere dopo queste vicende, perché è inutile che cerchiamo di elevare il medium videogioco a qualcosa di superiore, quando questi personaggi non fanno altro che continuare a far passare l’immagine che il videogiocatore medio è un bambino in preda all’ira facile. Cominciamo dai piccoli passi: iniziamo a contare fino a 10 quando la bestia reclama vendetta.