Recensione

L'alienista - Recensione della serie TV

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a cura di Redazione SpazioGames

A cura di Antonio Maria Abate

Trasmessa sull’emittente americana TNT per poi approdare su Netflix, L’alienista si basa su premesse accattivanti, trattando il caso di un serial killer quando la materia era ancora ben lungi dall’essere definita. Siamo nella seconda metà dell’800, periodo di transizione tra il lascito di una società che trae linfa dalla Rivelazione e la cultura che di lì a poco avrà il sopravvento, di stampo positivista. Per giunta siamo a New York, crocevia di popoli, tradizioni, un melting pot come mai se n’erano veduti fino ad allora. Dato lo status quo, dunque, non c’è altro modo di riferirsi a questi esperti se non con la dicitura di «alienisti», in quanto la loro specializzazione prevedeva lo studio di malattie mentali talmente atipiche che coloro che ne erano affetti venivano appunto considerati degli alienati – quella che poi sarebbe diventata la psicologia criminale, sulla cui “nascita” si allude molto bene in un’altra serie, ossia Mindhunter.

Nella Grande Mela caotica e sporca di quel periodo, una serie di omicidi si susseguono con un filo apparente che li lega: le vittime sono tutti ragazzini che lavorano in delle case di tolleranza, prostituti insomma, ai quali vengono esportati organi, tagliati alcuni arti o pupille. I corpi, lasciati in posti specifici affinché qualcuno li trovi, rappresentano l’unica cosa su cui il dottor Kreizler (Daniel Bruhl) può basarsi per risalire all’autore di omicidi, sebbene per lui non si tratti solo di consegnarlo alla giustizia; anzi, non si tratta affatto di quello. Per Lazlo Kreizler, studioso della mente, è l’occasione di avvicinare una persona capace di compiere crimini del genere, così da capire cosa l’abbia spinto a tanto, studiarne i processi, costruire una teoria, partendo dal presupposto che in tutto ciò ci sia molto più dell’alienazione e che questa forma di Male sia spiegabile anziché no.

L’intera stagione, dieci puntate in tutto, è attraversata, sebbene sottobanco, da questo contrapporsi tra il mistero e la scienza, tra un antico modo d’intendere la follia, quasi come possessione, allontanamento da Dio, ed un approccio che invece ritiene che l’uomo, qualunque uomo, agisca spinto da delle motivazioni, anche se spesso e volentieri sfuggono a lui per primo. È l’avvento della Psicoanalisi, che chiaramente qui non viene evocata in quanto di lì a venire nei decenni immediatamente successivi, pur tuttavia aleggiando anch’essa nella misura in cui ci si sofferma nemmeno troppo velatamente su Inconscio e affini. Ciò detto, The Alienist si serve di certe dinamiche nella misura in cui gli è utile per portare avanti un ben più accessibile thriller procedurale, in cui più persone sono coinvolte nell’investigazione.

Ovviamente, in corso d’opera, il pretesto di questo killer seriale fa buon gioco per approfondire meglio i profili di coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nella ricerca. Oltre a Kreizler, dunque, un ritrattista con dei problemi di alcolismo (Luke Evans), una segretaria che aspira ad un ruolo di rilievo presso il commissariato di polizia malgrado l’essere donna (Dakota Fanning) e due giovani detective di origine ebraica (Douglas Smith e Matthew Shear). Tutti accomunati, in fondo, dall’essere degli outcast, personaggi socialmente difettosi, vuoi per il sesso, per l’etnia, per l’eccentricità e via discorrendo.

Qui The Alienist un po’ si perde e di conseguenza ci perde: da una certa impostazione alla quale si rifà, di stampo psicanalitico se vogliamo, mutua questa sua visione per cui tutti, anche i cosiddetti “normali”, in fondo coltivano delle perversioni. Da ciò, suppongo, deriva uno dei limiti più evidenti, ossia l’impossibilità di prendere una posizione rispetto a certo squallore che tratteggia, va detto, anche in maniera piuttosto superficiale. Non si tratta di un appunto che guarda alla Morale, quanto proprio al modo di sottoporci tale squallore sia da un punto di vista grafico che da quello del racconto. Così come la perversione, in quanto tale, come traccia narrativa perde di spessore proprio perché non si vede altro in tutto e in tutti, così non si riesce a dare a pieno ragione di un contesto entro il quale avvengono cose turpi ma sostanzialmente forzate.

Lo squallore, certo laidume, dà perciò più l’impressione di essere un’esca, quell’escamotage nemmeno tanto difficile che serve per tenere incollato lo spettatore più che un elemento su cui improntare un discorso, per quanto subordinato allo spettacolo. Da questo punto di vista, infatti, lo spettacolo per l’appunto, la serie si dimostra attenta, addirittura sfarzosa per certi versi, una pulizia che quasi stona con tutto il resto e non perché, appunto, vi siano vere ragioni per cui alimentare tale contrasto. Costumi inappuntabili, scenografia di livello, fotografia e movimenti di camera addirittura sontuosi; tutti aspetti che servono per lo più a compensare la presenza di altre crepe ed in dipartimenti più rilevanti, come quelli sopra menzionati.

– Ricostruzione visiva curata…

– Regge, seppur mostrando qualche segno di fatica, fino alla risoluzione del caso.

– … pure troppo, non suggerendo il perché del contrasto con i temi trattati.

– Svariate le questioni evocate e con furba disinvoltura subito accantonate.

– Bruhl e Fanning deludenti.

5.0

C’è, per certi versi è innegabile, quell’abilità affabulatoria che ci porta a sgranocchiare i vari episodi se non altro per sapere chi sia l’assassino, forse pure, con Kreizler, per conoscere il perché di queste sue efferate scorribande. Il ritratto corale tuttavia appare debole, con svariate toccata e fuga su discorsi che, come in parte accennato, servono da gancio, salvo poi lasciare lì lo spettatore un attimo dopo averlo irretito con discorsi à la page che affondano quel tanto che basta su certe istanze sociali che forse stanno più a cuore a noi oggi che a quei personaggi ieri, giusto o sbagliato che sia. L’alienista conferma la maturità del mezzo televisivo quale più di mera alternativa al cinema: ci sono i mezzi, ci sono le voci, ci sono gli interpreti, ma soprattutto c’è un pubblico. Ecco perché, nel pieno di questo processo di maturazione, il suo farsi intrattenimento strizzando però l’occhiolino a chi si aspetterebbe qualcosina di più non può che ritorcersi contro. Se non altro perché costringe a constatare, per l’ennesima volta, l’esistenza di un prodotto dalla confezione pressoché impeccabile ma essenzialmente ben meno pregno una volta spacchettato.

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5