Il concetto di sfida

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a cura di Krauron

Nei processi evolutivi, specialmente sociali, spesso i più duraturi cambiamenti non si manifestano in un unico accadimento, ma nascono in sordina e maturano in maniera proporzionale alla popolarità raggiunta. E’ accaduto nei format televisivi, nell’avvento di Internet e, immancabilmente, anche nel mondo videoludico.In particolar modo quest’ultimo ha avuto un tale livello di innovazioni e migliorie nel tempo che pare aver bruciato ogni tappa pronosticata.Tra i tanti cambiamenti, discussioni, e rivoluzioni è fondamentale sottolineare un percorso intrapreso dalle software house che stanno conducendo, in maniera pericolosamente protettiva, il nostro medium comunicativo preferito verso una globalizzazione delle meccaniche di gameplay ed una conseguente “immortalità” del nostro alter ego. Ma come è cambiato il concetto di sfida nel tempo?

L’elisir di lunga vitaFin da quando i videogiochi hanno emesso i primi vagiti, il tasso di difficoltà riscontrabile in varie produzioni ha seguito passo passo quelli che erano i dettami e le aspettative dei vari contesti storici di appartenenza. Quando il videogame era solo un semplice passatempo era impensabile discutere su quanto un titolo ci richiedesse tempo e fatica, perché doveva ancora delinearsi un metro di giudizio. Solo con l’avvento e la diffusione delle sale giochi si è cominciato a creare un piccolo raffronto, purtroppo molto poco obiettivo in quanto settato verso l’alto. In fondo i cabinati erano malefiche macchine aspiramonetine, che per ingordigia di queste ultime obbligavano il povero giocatore a delle prove di riflessi oltre le umane possibilità. Non contava quanto il nostro eroe fosse armato o quale fosse il suo scopo. Non si verificava ,in poche parole, il rapporto tra le sue capacità e le avversità di turno. C’era semplicemente un must: doveva morire. Il concetto di morte, sul quale vogliamo focalizzare la nostra attenzione, era all’epoca soverchiante, distruttivo, e il fortunato che riusciva a terminare l’odissea, magari anche con un punteggio alto, era osannato a dismisura. In fondo c’era la sua bravura contro il Game Over, senza nessun intermediario benefico a mettersi in mezzo. Il primo vero alleato del giocatore, nonché coriaceo rivale per la morte videoludica, prende il nome di salvataggio. Salvando una partita da un punto specifico, il fruitore sa che tutto quello che esisteva prima di quel punto è archiviato, catalogato e magari anche trasformato in ricordo. Nessuna entità crudele poteva metterci mano. Così inizia un processo di fiducia e di rilassamento cerebrale: il nostro alter ego morirà pure, ma risorgerà in un punto precisato della partita. Tanto che, in alcuni giochi, si entra nella spasmodica ricerca di Save Point che possano mettere la parola fine alle avversità incontrate in precedenza.Ma il caro nostro amico (è il caso di dirlo) “Save Point” ha in serbo un alleato ancora più micidiale: il Checkpoint. Ora non solo si potrà risorgere magari ad inizio quadro, ma addirittura all’interno dello stesso. In questo modo l’intero livello veniva ancor di più spezzettato e questo permetteva di affrontare a cuor leggero ogni imprevisto. Tanto il trapasso sarebbe stato sostenibile, considerato che il prezzo da pagare era solo ripetere una manciata di sezioni.Questo è il punto di non ritorno, l’affermarsi di una mentalità leggera ed impavida, dove l’errore è sempre rimediabile e che ogni strategia appositamente curata va a farsi friggere a favore di una maggiore impulsività. Ad esempio prendete un platform qualunque. Se è noto che nel gioco ci sono determinate difficoltà da affrontare e tra un checkpoint ed un altro ve ne sono solo una ridottissima parte di queste, è ovvio che ogni salto lo si affronta con estrema nochalance. Tanto, anche nei peggiori dei casi, è sempre meglio che iniziare il gioco dall’ultimo salvataggio o addirittura ex-novo. Ovviamente ci sono le apposite eccezioni alla regola e per fortuna è ancora viva e presente una filosofia dura e cruda di titoli che non perdonano nulla, nemmeno la più piccola incertezza. Tuttavia è sempre da questo momento che andrebbero distinti due fattori all’interno del concetto di sfida: quella positiva è quella in cui ci si richiede al giocatore delle giuste competenze per poter andare avanti, fornendogli gli strumenti adatti e chiedendogli solo in cambio il giusto impegno. Quella negativa invece, dove per errori di programmazione o per semplice incompetenza, si mette a dura prova l’integrità psichica dei videogiocatori con pretese oggettivamente assurde e sezioni evitabili in quanto frustranti. Sta di fatto che in qualunque caso, questa facilitazione dei compiti accade dal momento in cui il medium videoludico sente l’esigenza di narrare qualcosa. Qualcosa che vada oltre il semplice sincronismo stimolo-risposta e che cominci anche a toccare altri ambiti ed altri sensi. Con l’avanzare delle generazioni questo fattore prende svariati nomi: intrecci narrativi, potenza grafica, potenza sonora. Insomma, il videogioco diventa esteta e conscio delle proprie capacità. Sarebbe un crimine non poterlo farlo apprezzare pienamente e quindi, via alla semplificazione del globale a favore del particolare e allo stesso modo via alla distinzione tra due categorie diametralmente opposte: da un lato il noto elemento hardcore, che quasi masochisticamente viviseziona il gioco in ogni sua parte, attento ad ogni suo dettaglio, ma di mentalità chiusa verso ogni cosa che valichi o offenda i suoi principi videoludici, dall’altro il casual, colui poco pratico ed esperto, forte della partita random e della saltuaria applicazione. In un senso o nell’altro, per alcuni sviluppatori è assolutamente improponibile che vinca la morte (virtualmente parlando), in quanto il giocatore deve assaporare l’intero titolo dall’inizio alla fine senza che mai gli passi per la testa di volerlo mollare. Ma è proprio giusto pensarla così?

Cambiamenti e nuove correnti di pensieroGiusto o errato che sia il fattore economico sicuramente ha inciso in un certo cambiamento e purtroppo involontariamente, la vera stangata al concetto di difficoltà l’hanno data alcune recenti produzioni, o meglio, gli alti introiti monetari collegati al successo di prodotti che in altri periodi sarebbero stati giudicati dal pubblico sotto un altro punto di vista. Titoli come Wii Sports o Wii Play hanno riscosso un tale successo da affermare una vera e propria filosofia riassumibile nel “permetti a chiunque di poter giocare ed apprezzare ciò che sta provando”. Ciò non solo ha favorito i sopra citati “giocatori casuali” ma ha aperto le porte a nuove leve che mai avrebbero immaginato di rapportarsi ad un videogame. Tutto questo non può che far altro che bene, in quanto è solo attraverso le masse che si può ottenere quel tanto agognato riconoscimento artistico e culturale del nostro medium preferito ed evitare di essere continuamente al centro di luoghi comuni scontati e poco veritieri circa il valore dei videogames. Tuttavia c’è un risvolto negativo della medaglia, che sarebbe davvero inopportuno trascurare. Questa cosiddetta globalizzazione del videogame sta infatti coinvolgendo pericolosamente la mentalità con la quale vengono sviluppati i nuovo titoli, o magari sequel di marchi affermati. Ci sono sempre più nuovi giochi baroccheggianti e sontuosi nella forma e nel contenuto, ma incredibilmente facili anche settandoli alle massime difficoltà. E’ come se per dare il benvenuto alla massa ignara di questo mondo (ma assolutamente remunerativa), i vecchi abitanti siano bistrattati o del tutto ignorati. Proprio coloro che hanno affermato e riconosciuto le potenzialità del videogioco in senso assoluto, che si sono districati in situazioni impervie e che magari hanno fatto le ore piccole davanti alla tv con enorme gioia e soddisfazione, ora non rappresentano più quel campione di pubblico da rappresentare e tutelare come in passato, con produzioni di elevato spessore. Non si tratta di favoreggiamenti del casual a discapito dell’hardcore, ciò va oltre questo dualismo, prende in considerazione i giocatori di vecchia data che non si riconoscono più in dei titoli che non gli lasciano lo sfizio della sfida vera, quella con la S maiuscola. Prendete ad esempio l’ultimo episodio di Prince of Persia. Già i capitoli apparsi per precedenti i sistemi avevano mostrato un sonoro stop alla sconfitta, con la possibilità di tornare indietro nel tempo di qualche secondo per rimediare ad una brutta fine, tuttavia li gli enigmi e le acrobazie erano così numerosi e ben congegnati che un piccolo aiuto ci poteva anche stare.Al giorno d’oggi però il principe non ha nemmeno senso che abbia a che fare con Ahriman, visto che in partenza ha sconfitto il nemico più temibile, la sempre citata Morte. Almeno fino ad ora abbiamo parlato di risurrezioni, ora introduciamo il concetto di immortalità. E la sua eterna giovinezza ha un nome: Elika. La ragazza ha superato anche la potenza dei Save e Check Point, permettendo di vivere una storia senza ripetere alcuna sezione. Non solo. Come se non bastasse, corregge il giocatore in alcuni salti, colpisce i nemici, ed addirittura gli indica il percorso da seguire. Le manca solo di essere la sola protagonista (anche se, ufficiosamente, lo è già), camminare e muoversi senza i nostri comandi, ed ecco che a morire sarà la voglia del videogiocatore visto che si ritroverà di fronte ad un vero e proprio film.Ciò che rimanda alla pellicola è anche l’ultima tendenza di poter superare con un solo tasto determinate sezioni di gioco qualora fossero particolarmente ostiche. Non vi ricorda molto il tasto fast forward del vostro telecomando? Non sarebbe forse meglio rendere il livello di difficoltà graduale a seconda delle abilità del videogiocatore (come già hanno fatto alcune produzioni) invece di creare meccaniche così accondiscendenti?Insomma, dopo tutto se abbiamo deciso di intraprendere una avventura, dateci almeno il brivido del fallimento.

Ciò che auspichiamo un po’ tutti è che si riesca ad arrivare ad un punto di accordo comune che soddisfi tanto le nuove leve che i fans di vecchia data. La difficoltà di un gioco e lo stesso concetto correlato di morte, sono fattori che vanno assolutamente considerati con la giusta importanza, perché mettono in gioco la nostra propensione verso gli ostacoli e la volontà di superarli, un po’ come accade nella vita. Se invece dovesse consolidarsi questa tendenza, con una provocazione verrebbe da vendere console e giochi e con il ricavato acquistare monetine per i cabinati sotto casa. Perchè in fondo i coin-op , come descritto ad inizio articolo, saranno anche impegnativi da completare, ma almeno possono testare davvero le capacità di un giocatore navigato e qualcosa ci dice che più di un gamer agirebbe così. Solo il tempo potrà dire quale strada prenderà il mercato.