Ghost in the Shell

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a cura di DjPralla

Già nel 1995, subito dopo la proiezione nelle sale del film d’animazione diretto da Mamoru Oshii, le voci per un adattamento holliwodiano hanno iniziato a rincorrersi. Addirittura i fratelli Wachowski proponendo Matrix alle varie case di produzione iniziavano il discorso con “vorremmo fare questo ma con attori veri”. L’ostacolo, se così lo si vuole chiamare, che ha impedito la realizzazione di questo film per più di venti anno, è dovuto allo status di caposaldo indiscutibile dell’animazione giapponese, ma più in generale della narrativa sci-fi, che Mamoru Oshii ha costruito fotogramma dopo fotogramma andando a spulciare le pagine disegnate da Masamune Shirow.
Di nuovo in azione
Il Ghost in the Shell, che arriva nelle sale cinematografiche nel 2017, è un prodotto che vuole portare questo visionario mondo futuristico a tutta l’utenza americana e non solo. Ovviamente il tutto deve essere ribilanciato e ridistribuito per funzionare al meglio nella nuova dimensione. In quest’ottica il passato purtroppo non ha portato grandi esempi di prodotti riusciti e di alta qualità, quindi è logico che lo spettatore più hardcore si approcci alla pellicola con un minimo di diffidenza, anche per via dei lavori precedenti del regista, Rupert Sanders, che non fanno certo sperare nel miracolo. E invece la sceneggiatura, nonostante negli anni sia rimbalzata di mano in mano, alla fine riesce a costruire un prodotto con un’identità a sé stante e una dignità. Molte delle tematiche presenti nel manga e nei lungometraggi d’animazione sono state ridimensionate, altre giusto accennate ed alcune eliminate per fare spazio ad un incedere più facilmente leggibile. Il risultato è una narrazione che sì, va a lambire argomenti importanti e pressanti con cui l’umanità dovrà confrontarsi da qui ai prossimi anni (ma già anche ora), ma non mette lo spettatore nella difficile situazione di dover approfondire altrove per trovare una risposta. Se Oshii puntava tutto sul domandarsi quale sia la differenza tra un umano e un’intelligenza artificiale, attraverso una Motoko Kusanagi che cerca disperatamente di trovare una sua identità all’interno di un corpo che non le appartiene, Sanders invece si chiede cosa sia l’umano, ma soprattutto quanto i ricordi e le esperienze reali plasmino il suo essere. La storia del Maggiore (interpretata da una Scarlett Johansson molto coinvolta nel personaggio), ora identificata con il nome Mira Killian (non per motivi di white washing, ma per risvolti narrativi ben precisi) è quella del primo essere umano che subisce, citando Maccio Capatonda, il trapianto del resto del corpo, innestando un cervello vivente all’interno di un corpo sintetico, costruito dalle macchine e dall’ingegno dell’uomo. Questa sua vita incerta da essere senziente, che cerca di capire quanto di umano ci sia in lei studiando chi le sta accanto, inizia a vacillare in maniera ancora più pressante con l’arrivo di Kuze, una figura che va a mescolare ed unire sotto un unico nome diverse identità presenti nel franchise. Senza entrare troppo nel campo degli spoiler, non stiamo però parlando di un’identità creatasi spontaneamente all’interno del mare di informazioni con cui è composto internet, ma comunque di un umano che cela un passato in comune col Maggiore e che porterà a risvolti inediti.
Retrofuturo
Come detto, Ghost in the Shell nella sua versione americana ha un’identità e una dignità perché riesce a creare un suo mondo, pur pescando a piene mani da tutto ciò che i giapponesi hanno prodotto sino ad ora. Per tutti i centoventi minuti della pellicola si alterneranno costantemente scene che gli appassionati sapranno ricondurre ad uno dei due film di Oshii, alle serie TV Stand Alone Complex, ma anche all’ultimo e bistrattato filone narrativo dal sottotitolo Arise. Queste scene sono prese di peso e ricreate con gli attori, ma differiscono dalle originali per quanto riguarda i testi e le implicazioni a livello di trama. L’impressione è che lo staff che ha lavorato ha questo film abbia voluto dimostrare fino all’ultimo quanto fossero anche loro appassionati e conoscitori di tutte le storie che girano attorno alla Sezione 9. Certo, dall’altra parte, alcuni spettatori potrebbero superficialmente lamentarsi di aver pagato un biglietto per vedere un remix di scene già presenti all’interno della propria videoteca, ma in questo caso il risultato riesce comunque ad essere unico e diverso. In generale siamo di fronte ad una pellicola che sa intrattenere con scene d’azione molto enfatizzate e ben costruite, con anche scelte registiche che non scadono nel banale, ma che cerca comunque di ritagliare dello spazio in cui porre dei quesiti allo spettatore. Spostando tutta la narrazione in un futuro comunque pervaso dalle migliorie cibernetiche, ma ancora ai primi stadi con gli innesti di cervelli all’interno di corpi cibernetici, la morale è più spostata sul potere delle autorità, di come le multinazionali possano disporre del mondo che costruiscono per conto dei governi e soprattutto di quanto l’indole di un singolo individuo si perda all’interno della massa nonostante le legislazioni. Se la nostra è plasmata esteriormente dal nostro aspetto ed interiormente dai nostri ricordi, cosa succede se qualcuno è in grado di modificare il nostro corpo e le nostre esperienze? Quanto resta dell’individuo precedente e quanto deve essere considerato attendibile il nuovo? Il film di Sanders non vuole soverchiare lo spettatore con quesiti, ma nella sua pellicola sono comunque presenti degli spunti da cui poter prendere ispirazione e da approfondire.
New Old Port City
A fare da contorno alle vicende c’è una New Port City che invece di ispirarsi alla fatiscente e sporca versione vista nel ‘95, cerca di reinventarsi in chiave Blade Runner con ologrammi sparsi ovunque. Per molti versi è un passo indietro rispetto a quanto già solo la città fosse in grado di parlare durante i lungometraggi d’animazione, ma riesce comunque ad essere presente e di peso in diverse inquadrature che vanno a cercarne gli ambiti meno in vista e meno scintillanti. Se in generale l’interpretazione dei vari attori è più che sufficiente, anche per via del basso minutaggio dei personaggi secondari, resta comunque un peccato vedere un Takeshi Kitano che sembra quasi faticare nel muoversi e che incomprensibilmente mantiene la sua voce giapponese sottotitolata, per lo meno nella versione americana.

La visione americana di Ghost in the Shell nasce con i giusti presupposti, ma cresce dovendosi adattare all’utenza di riferimento per arrivare al successo finanziario. Se da un lato ci sono infiniti e continui richiami alle opere di Oshii e Production I.G., dall’altra c’è la voglia di raccontare una storia diversa con implicazioni, quesiti e risposte differenti da quelle già viste. Per chi si approccia per la prima volta al franchise questo film rappresenta un ottimo trampolino di lancio fatto d’azione ben girata ed una narrativa che cerca di alzare l’asticella senza eccedere. Per i veterani, invece, c’è il rischio che entrando in sala con eccessivo integralismo non si riesca ad apprezzare un taglio differente di questo criptico mondo.