Fuori dai Denti - Addio a Silent Hills

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Addio, cara vecchia Konami.
Addio a una delle software house più importanti al mondo come l’abbiamo conosciuta fino a oggi: si chiude definitivamente un’era, e non nel migliore dei modi. Si riparte senza Kojima, che a meno di improbabili reunion a sorpresa o operazioni di marketing che ribaltano il concetto stesso di fiducia, lascerà per sempre l’azienda in cui è nato, cresciuto ed esploso professionalmente. Punto e a capo. Ma nel frattempo, Konami esce anche – volontariamente – dalla borsa di New York. Le quotazioni sarebbero scese rapidamente proprio perché il colpo sarebbe stato (e sarà) inevitabilmente duro da ammortizzare, ed è quindi giusto tutelarsi economicamente e correre immediatamente al riparo. Allo stesso modo, è giusto anche avvertire fan e utenti che lo show deve comunque andare avanti, che le serie di punta non cesseranno di esistere, e che probabilmente si andrà incontro alla loro serializzazione feroce, quella che prevede più capitoli immessi nel mercato in un tempo minore. E indovinate un po’? È la stessa cosa che fece Capcom quando andò via gente come Shinji Mikami, Keiji Inafune e Hideki Kamiya. I risultati sono davanti agli occhi di tutti.
Nebbie cupe sulla Collina Silente
Silent Hills non esiste più: Norman Reedus è stato congedato, Guillermo del Toro annuncia che la cancellazione del progetto spezza il suo grasso cuore, Konami conferma tutto, e Kojima continua a tacere perché probabilmente è meglio non gettare altra benzina sul fuoco prima dell’arrivo di The Phantom Pain. E questo, lasciatevelo dire, è un gran dramma. È un dramma anche perché è bastato un solo teaser giocabile per riaccendere la speranza nei cuori martoriati di chi adora Silent Hill, a dimostrazione del fatto che gli ultimi capitoli erano a loro modo dei piccoli disastri che non si avvicinavano minimamente alla qualità eccelsa dei primi due (facciamo anche dei primi quattro, dai). 
C’era, dopo anni di fallimenti, la possibilità di un rilancio in grande stile della serie: Norman Reedus era un ottimo richiamo anche per chi non aveva troppa familiarità col franchise, Kojima avrebbe assicurato una qualità narrativa fuori parametro, e la creatività di Del Toro avrebbe dato un apporto fondamentale per l’atmosfera da incubo malato che spetta di diritto a ogni Silent Hill. Il regista, oltretutto, tenta da anni di entrare in questo settore: ci provò già qualche anno fa con InSane (di cui sarebbe stato il direttore), ma l’ormai defunta THQ cancellò il progetto per motivi che non furono mai troppo chiari, e che in seguito vennero fatti risalire alla situazione finanziaria precaria della compagnia. Ricordo ancora un tweet di Del Toro poco dopo la “cassazione” di InSane, in cui veniva specificato che erano cominciati già i primi contatti per lo sviluppo di un titolo horror con una grande compagnia. Era Silent Hills. Ma questo diveniva chiaro solo quando – con smisurato tripudio – si riusciva a superare quel dedalo della mente che era P.T. Nessuno potrà più arrivare alla soluzione dell’enigma, adesso, perché il teaser è stato ormai rimosso dal PSN.
Evidentemente, è destino che Del Toro faccia solo cinema.
Sorprendere, spaventare, confondere
Per quali motivi lo scioglimento di questo dream team ha conseguenze terribili per Konami, la sua immagine, e il futuro di Silent Hill? Le spiegazioni sono abbastanza semplici, e si ricollegano tutte alle origini della saga, che non ha mai voluto sposare fino in fondo l’estetica del raccapriccio poiché ha sempre deciso, con grande coraggio pionieristico, di sondare la putrida marcescenza della psiche umana. Lo storico Silent Team faceva esattamente questo; tendeva a minimizzare le soluzioni horror di quart’ordine come i jumpscare, mettendo il giocatore al centro di un mondo dove l’angoscia era costante, un continuo tormento dal quale era impossibile fuggire anche dopo aver pagato il proprio debito di sangue. Le storie turpi di protagonisti e comprimari, la dannazione quasi depressiva per i sensi di colpa, e le proiezioni mentali di un male interiore – profondo e irrecuperabile – erano le basi su cui venivano costruiti i primi capitoli. Il giocatore era confuso e messo al muro da così tanto orrore, temeva la discesa nell’inferno della mente che si concretizzava con la presenza dell’abominevole Otherworld, ed era infine sorpreso continuamente dagli sviluppi narrativi (e metanarrativi) che venivano messi in scena e appena dietro le quinte. C’era di fatto una struttura narrativa che si andava ramificando anche alle spalle dell’utente, un albero malevolo che con la sua massa deforme di fronde ritorte e tossiche cresceva fino a spingere il giocatore in un baratro senza fondo. P.T. agiva esattamente allo stesso modo, usando però nuovi strumenti. Vi chiudeva in un lungo corridoio ad angolo e vi faceva girare in continuazione come un topo in trappola. O come un uomo incapace di superare la propria autoinflitta condanna, perché “l’inferno è ripetizione” e il loop della coscienza perduta è interminabile. 
Basti pensare che tuttora, con grande zelo, gli utenti di mezzo mondo continuano a sfornare teorie affascinanti e plausibili su P.T., con picchi di illuminazione che hanno azzardato addirittura l’ipotesi di una storia legata a doppio filo col progetto MK-ULTRA, il programma (clandestino e illegale) della CIA che aveva il fine ultimo di influenzare e controllare il comportamento di alcuni esseri umani. Ha senso in P.T.? Assolutamente sì: Kojima con queste cose ci campa, il contesto storico-sociale coincide alla perfezione e i riferimenti sono disseminati praticamente ovunque. È bastato insomma un solo teaser giocabile di un gioco che non esiste più per far parlare a lungo la community, ben più di quanto siano riusciti a farlo gli ultimi capitoli messi insieme.
La serie continuerà, ma in che modo?
Come per i film e per i libri, il successo di un videogioco è in gran parte dato dalla sua capacità di continuare a comunicare anche dopo aver concluso il suo periodo di fruizione. La storia di un medium si crea anche così, attraverso echi che continuano a propagarsi e che non scemano mai d’intensità. Se Silent Hill è (stata) una serie di assoluto rilievo a partire dal 1999, è proprio per questo motivo: è un autentico pezzo di storia ed è tuttora un metro di paragone difficilmente eguagliabile. Sono passati anni affinché se ne comprendesse fino in fondo il significato, e ne passeranno ancora prima di capire cosa è passato per la testa a Konami quando decise di sciogliere il Silent Team. 
Dopo The Room cominciò una parabola discendente che affossò lentamente la saga, sempre più incapace di eguagliare la brillantezza maligna degli albori. La serie venne subappaltata a società esterne poco costose e talvolta prive di esperienza, che sfornarono episodi mediocri e decisamente poco convincenti da tutti i punti di vista. E chi afferma il contrario mente a se stesso sapendo di farlo, perché è chiaro che non può bastare qualche buona trovata per tirare avanti la carretta quando hai alle spalle il paradigma dell’horror. Abbiamo visto fino a oggi dei blandi tentativi di imitazione, qualche sperimentazione decisamente fuori contesto, e dei ricicli in cui le buone idee non fioccavano praticamente mai. Konami aveva effettivamente preso atto di questa situazione e stava per rilanciare la serie come si deve, ma qualcosa pare essersi rotto definitivamente. Si ritorna quindi a subappaltare, o a lavorare internamente su un gioco che non sarà più Silent Hills, ma qualcosa di completamente diverso. Si deve continuare a correre e non ci si può fermare, è vero, ma come si fa ad arrivare di nuovo primi quando vengono a mancare d’improvviso entrambe le gambe?

Silent Hills è diventato una promessa infranta, un sogno svanito alle prime luci dell’alba, un’illusione che lascia davvero tanta amarezza. Konami, senza Kojima, dovrà pensare seriamente a come riorganizzare gli assetti aziendali. L’addio del maestro, se confermato, sarà un terremoto di proporzioni catastrofiche, e non è detto che l’azienda nipponica riesca sul serio a rialzare la testa.