Breath of the Wild è lo Zelda definitivo?

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a cura di Nicolò Bicego

Redattore

Faccio una dovuta premessa: questo articolo non vuole essere una seconda recensione o un commento sulla qualità del nuovo Breath of the Wild. Questa vuole essere solamente la riflessione di un fan di lunga data di questa serie, una riflessione che forse altri fan sono giunti a fare giocando l’ultimo titolo della serie. Tranquilli, non ci saranno spoiler: indipendentemente dal punto in cui vi trovate della vostra avventura. 
La nascita di una leggenda, 1986
Shigeru Miyamoto non ha mai fatto mistero di prendere ispirazione dalla vita di tutti i giorni per lo sviluppo dei suoi giochi. L’aneddoto che sta dietro alla nascita di Zelda racconta più o meno così: “Quando ero un bambino, andai a fare un’escursione e trovai un lago. Fu una sorpresa per me scoprirlo per caso. Quando viaggiavo per le campagne senza una mappa, cercando di trovare la strada giusta, incontrando cose stupefacenti lungo il tragitto, capii come ci si sente ad affrontare un’avventura del genere”.
Per chi ha giocato al primo The Legend of Zelda, basterà tornare con la memoria ai primi momenti passati su quel titolo. Senza una mappa definita, senza un’idea precisa di dove andare, il giocatore si trova, nei panni di Link, ad esplorare il mondo che lo circonda. Un mondo fiabesco, popolato da creature mostruose, maghi, principesse, fate, castelli e tutto quanto può scaturire dall’immaginazione di un bambino. Quello che Miyamoto voleva trasmettere era la sensazione di essere perso nei boschi, una sensazione che chi è cresciuto fuori dalla città può forse rivivere nei ricordi della sua infanzia: quei boschi, quelle caverne, quel lago che il giovane Miyamoto aveva incontrato da piccolo, si sono trasformati nel mondo di quel primo The Legend of Zelda. Le porte scorrevoli della sua casa a Sonobe, che gli davano l’impressione di essere in un labirinto, sono diventate i dungeon. Le creature che esistono solo nella fantasia prendono vita sotto forma di pixel, e l’avventura che una volta era solo immaginata iniziava a muoversi magicamente sullo schermo. Questo era quello che Miyamoto voleva far provare ai giocatori: in quello che è forse un fil rouge nella carriera del maestro, l’intento era quello di riportare il giocatore alla propria infanzia, a quella sensazione di stupore che solo un bambino può provare, meravigliandosi delle piccole cose incontrate nelle sue peripezie.
I capitoli successivi di Zelda abbandonarono in parte questo obiettivo. Il percorso da seguire divenne mano a mano più definito, andando a perdere lo spaesamento del primo capitolo. Questa non è da intendere come una critica alla qualità dei capitoli successivi: anzi, per la maggior parte, i capitoli successivi sono invecchiati molto meglio del primo Zelda. Questo non cambia, però, che l’originale intento di Miyamoto era stato messo da parte. Almeno fino all’arrivo di Breath of the Wild.
La stessa leggenda, trent’anni dopo
Che Breath of the Wild fosse un capitolo speciale, lo si sapeva da tempo. Più che in passato, Aonuma, il director che ha preso le redini della serie, sembrava puntare su questo titolo in particolare per andare a proporre quello “Zelda definitivo” a lungo inseguito. Le lunghe sessioni di gameplay mostrate durante i Treehouse, l’enorme attenzione data al gioco durante le varie conferenze si sono rese comprensibili appieno solamente nel momento in cui abbiamo messo le mani sul gioco: Breath of the Wild è un titolo maestoso, che merita tutto il tempo che Nintendo gli ha dedicato, tanto nello sviluppo quanto nel pubblicizzarlo.
Come avevo detto, però, non voglio parlare della qualità di Breath of the Wild, o meglio, non solo. La recensione del nostro Buddybar mi pare più che sufficiente. Devo ammettere che, quando mi disse di quanto gli stava piacendo il nuovo Zelda, io stesso faticavo a credergli. Poi, però, ho avuto anche io il gioco, e mi sono ritrovato a condividere in tutto e per tutto la sua opinione. The Legend of Zelda: Breath of the Wild è lo Zelda che tutti aspettavano da anni. Non solo, ma riesce ad essere anche una lezione da imparare a menadito per tutto il mondo videoludico, in generale. Quello che qui mi interessa, però, è mostrare come Breath of the Wild non sia soltanto l’apice qualitativo, ma sia anche la realizzazione di quello che era l’intento originale di Miyamoto.
Aonuma aveva detto che il primo Zelda sarebbe stato fonte di ispirazione. Aveva detto che ci saremmo potuti muovere liberamente, scegliendo noi come affrontare l’avventura. Una tale reinvenzione delle fondamenta della serie era tanto allettante quanto pericolosa. Invece, Aonuma è riuscito ad unire in Breath of the Wild tutto quello che la serie di Zelda ha imparato in questi trent’anni allo spirito del primo Zelda.
Ora come allora, il giocatore si trova in un posto nuovo, con poche indicazioni su dove andare e cosa fare: il mondo lo aspetta, e sta solo a lui decidere come esplorarlo, come vivere la sua avventura. Grazie al salto tecnologico di questi trent’anni, la fiaba adesso è ancora più reale: il mondo di gioco è in tre dimensioni, è vasto più di quanto potessimo immaginare, ed è talmente vivo da sembrare quasi il documentario di un paese lontano, vero quanto quello che ci circonda.
Al contempo, però, Breath of the Wild mantiene la tradizione: niente viene buttato al vento, ed è per questo che il giocatore, così come Link, si trova in un posto che è sì sconosciuto, ma anche conosciuto. Perché nel gioco rivediamo posti familiari, luoghi che abbiamo visitato in passato e che il tempo ha reso quasi irriconoscibili. La loro presenza riesce ad unire il sapore della scoperta a quello del ricordo, una summa perfetta di quelli che sono stati questi (primi) trent’anni di Zelda.
Ed è da qui che vorrei arrivare alla domanda del titolo: Breath of the Wild costituisce un punto fondamentale nella saga di Zelda. Uno di quei momenti in cui si dice “da qui in poi”. Rimane da capire se questo Breath of the Wild sia anche il punto di arrivo, se sia davvero lo Zelda definitivo.
Oltre la leggenda 
Che Zelda non finirà con Breath of the Wild è scontato. Altrettanto ovvio, però, è che Breath of the Wild è un capitolo importante, che non può essere ignorato, ed è lecito chiedersi se Zelda possa dare, in futuro, qualcosa di migliore di Breath of the Wild. Giocando a questo titolo, mi viene difficile immaginare qualcosa come Aonuma possa ulteriormente superare se stesso. Sarebbe quasi scontato pensare che questo sia davvero lo Zelda definitivo, che meglio di così non si possa fare. Eppure, ricordo un me piuttosto piccolo pensare la stessa cosa di A Link to the Past. Ricordo un me adolescente cambiare idea e pensarlo di Ocarina of Time. Infine, ricordo un me più adulto a pensare che niente avrebbe soppiantato Majora’s Mask dalla mia personale prima posizione.
Invece, eccomi qui, anni dopo, a dovermi ricredere per l’ennesima volta. Se c’è una cosa che Nintendo ci ha insegnato, e che Aonuma stesso sembra sapere molto bene, è che lo Zelda definitivo sarà sempre il prossimo. In questa continua ricerca della perfezione, Breath of the Wild segna sicuramente una tappa fondamentale. Ma questa tappa non è un punto di arrivo, affatto: è un punto di partenza, un punto oltre il quale sta una storia ancora da scrivere. E se le cose andranno come in passato, tra anni (chissà quanti) saremo qui a parlare di uno Zelda in grado di superare anche questo Breath of the Wild.
Per adesso, pensiamo a goderci quello che non è solamente il punto di svolta per una delle saghe più importanti di sempre, ma che è anche un punto di non ritorno per tutto il panorama videoludico.

Breath of the Wild rappresenta non solo la summa di una delle saghe più importanti di sempre, ma anche un punto di svolta per il suo intero genere di appartenenza. Parlare dello Zelda definitivo sarebbe al contempo riduttivo ed errato: Breath of the Wild è più di questo, ma al contempo non lo è. Perché Nintendo ci ha insegnato che lo Zelda definitivo sarà sempre il prossimo, quindi quello che ci rimane da fare è goderci Breath of the Wild per quello che è: il titolo che ha gettato nuovi standard per una delle serie con gli standard più alti della storia videoludica. E di certo non è poco.