The Legend of Zelda e i Musou: tutti li odiano ma tutti li vogliono

Hyrule Warriors L’Era della Calamità: un’occasione per riflettere sul genere dei Mosou e sulla loro controversa natura e percezione da parte del pubblico.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Nel pomeriggio di martedì, Nintendo ha annunciato ufficialmente Hyrule Warriors: L’Era della Calamità. Una sorpresa sì, ma per molti fan sarà stata negativa: parliamo infatti di un Musou, ovvero di uno dei generi più controversi e meno amati di tutti i tempi. Un genere grezzo e quasi senza testa, dove un singolo eroe affronta e vince contro eserciti di nemici ebeti. Un genere nato su sesta generazione con Dynasty Warriors, e apparentemente lì fermatosi per quanto riguarda meccaniche ed evoluzione.

Eppure, nel bene e nel male, in questo genere prima o poi ci cascano tutti. I Cavalieri dello Zodiaco, One Piece, Hokuto no Ken, Fire Emblem, lo sconosciuto La Leggenda di Arslan. E anche The Legend of Zelda, col (sottovalutatissimo?) primo Hyrule Warriors e adesso con questo Hyrule Warriors: L’Era della Calamità. Quest’ultimo con addirittura la “presunzione” di fare da prequel all’inarrivabile Breath of the Wild – una cosa che molti avranno giudicato come impensabile. Ma come mai, di tutti le scelte possibili, proprio il Musou? Davvero il genere non si è mai evoluto? Davvero è così odiato? Vediamo come fare a risalire questa cascata.

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Musou, o “senza rivali”

Letteralmente, Musou (無双) è un termine giapponese che significa “senza rivali” o “senza pari”. È nato tutto nel 1997 con il primo Dynasty Warriors, come opera derivata dei Romance of the Three Kingdoms, la serie di strategici ai tempi di punta per Koei.

Dynasty Warriors vede la luce sulla prima PlayStation come videogioco di combattimento a incontri. Si lottava all’arma bianca come molti suoi contemporanei e futuri (come Soul Blade e Soul Calibur), ma suo tratto distintivo era presentare personaggi tratti dal Romanzo dei Tre Regni. Questo altro non è che uno dei grandi classici della letteratura cinese, che narra in forma romanzata le tumultuose vicende riguardanti l’impero cinese a cavallo tra II e III secolo dopo Cristo. Ne abbiamo parlato qui e qui, ma, semplificando, il Romanzo dei Tre Regni di Luo Guanzhong racconta di come il trono imperiale degli Han sia passato prima agli Cao e successivamente ai Sima (rinominatisi Jin).

Quello che noi conosciamo come Dynasty Warriors in giapponese si chiama Sangoku Musou (三國無双), che letteralmente significa “I Tre Regni senza rivali”. Con l’arrivo di PlayStation 2 la formula del gioco venne stravolta. Si trasformò da picchiaduro a incontri a un action uno contro tutti, dove nei panni di un militare di rango (storico o inventato, a seconda dei casi) si ripercorrevano eventi e battaglie decisive dei Tre Regni. Con l’occasione il gioco venne rinominato Shin Sangoku Musou (真・三國無双, letteralmente “Verità – I Tre Regni senza Rivali”), mentre da noi diventò Dynasty Warriors 2.

Il fascino misterioso… o non voler crescere?

È difficile descrivere a parole quello che si prova giocando a un Musou, così come è difficile persino vedere qualcuno che gioca a un Musou. Parliamo di un genere che è vittima di se stesso e della sua stessa accessibilità: semplice quanto basta ad essere apprezzato da chiunque, assolutamente inappetibile per chi vuole fare manovre un minimo complesse. Eppure la sua forza è proprio in questi due fattori, che subiscono la più inspiegabile delle trasmutazioni. Da noia divengono una granitica ipnosi delle poche ma potenti azioni fatte, che si sposa con storie semplici ma universali.

Già questa definizione basterebbe da sola a rendere più comprensibile come mai il Musou non solo non perda di attrattiva, ma anche come mai una volta iniziato a giocare si passi sopra alla rozzezza del sistema di gioco. È l’evoluzione moderna degli arcade, la semplicità della nicchia. Due o tre pulsanti oltre alla levetta, poche mosse concatenabili ma quell’indescrivibile soddisfazione di andare avanti per prevalere su orde sempre più estese e boss sempre più grossi. Da Golden Axe in poi, da Final Fight a King of Dragons e Knights of the Round, fino ai due Dungeons & Dragons e innumerevoli altri – al punto che pure Capcom, ai tempi grande monopolizzatore degli arcade, ha cominciato a dare la sua interpretazione del Musou con i Sengoku Basara.

Tutti generi che finché li vedi e basta annoiano o, peggio, sembrano quasi repellenti. Poi, quando li si prende in mano, è impossibile staccarcisi. Decine di personaggi, di personalizzazioni, di segreti, di relazioni, di dialoghi, di camei. Quasi ogni personaggio con movenze, armi e moveset unici. Grandi storie che si dipanano in dialoghi altisonanti e musiche che mischiano l’orchestrale sintetizzato e il j-metal, o che ripensano in chiave hard rock i temi originali.

Un mix potente e che diventa persino squisito, che quando smetti ti lascia insoddisfatto e affamato. Una concezione che quasi obbedisce a una convenzione sociale: tutti criticano i Musou, ma poi per un motivo o per un altro, tutti ci giocano. Quasi nessuno lo ammette perché dire “a me piacciono i Musou” è una di quelle cose che “non sta bene dire”. Come se fosse un vizio.

Ma il Musou ha invaso… o è stato invaso?

A parte la discrepanza di numerazione tra edizione giapponese e occidentale dei Dynasty Warriors (ancora adesso siamo un numero avanti rispetto all’originale), la formula ebbe così tanto successo che, tra alti e bassi, ancora vive e prospera. Oltre alle ovvie opere derivate come gli Xtreme Legends, i Tactics e gli Empires, la formula semplice ma esaltante dei Musou ha attirato una moltitudine di accoliti e contesti, storici e non. Molti di questi li abbiamo già nominati nell’introduzione: praticamente tutti gli shonen d’azione più celebri hanno ricevuto la loro trasposizione in Musou. Anche la formula per la titolazione è sempre la stessa: al titolo originale bastava aggiungere in fondo la parola Musou, in occidente tradotta come Warriors.

Ed ecco quindi che arriviamo alla questione chiave di martedì, Hyrule Warriors: L’Era della Calamità. Da dove viene la decisione di affidare proprio a un Musou una storia importante come il prequel di Zelda Breath of the Wild? Il punto è che il Musou prima di tutto è proprio questo: epica convertita in arcade. Grandi principi e grandi narrazioni, una guerra da vincere per il bene o per il male. Una scena di massa dove i grandi eroi guidano la loro fazione e vanno incontro al loro destino. Una concezione che passa con naturalezza dal romanzo storico ai tratti semiotici dell’high-fantasy, ovvero esattamente il genere letterario cui appartiene The Legend of Zelda.

E proprio le contaminazioni con altre proprietà intellettuali sono state le occasioni per sperimentare e reinventarsi anche per il Musou. Di nuovo, è qualcosa che suona come una contraddizione in termini, ma il genere in vent’anni ha provato, ha fallito e si è migliorato. Ciò è avvenuto soprattutto grazie alle integrazioni e alle invenzioni fatte per adattare certe situazioni e mosse caratteristiche agli standard dei Musou. Da Nami che va posata su appositi divani nel primo One Piece Pirate Warriors, fino alla contaminazione strategica di Fire Emblem Warriors.

Del resto, anche il primo Hyrule Warriors aveva integrato meccaniche (e goliardie) della serie madre: tra le più evidenti, l’utilizzo degli oggetti e la presenza di mostri giganti. Cambiamenti che però andavano fatti con criterio, e non da tutti – tanto che la maggior parte dei Musou affidati a sviluppatori diversi dai suoi creatori (ovvero il team Omega Force) finivano con l’essere insoddisfacenti. Questo perché si finiva con il confondere l’adattamento con la pigrizia: si pensi al mediocre Ken’s Rage 2.

Evoluzione: possibilità o miraggio?

Certo, possiamo giustificarlo in tutti i modi che vogliamo, ma così com’è il Musou comunque rimane un genere ancorato al passato, anche se c’è da aggiungere che le possibilità non mancano – tanto che fin dalla settima generazione vi sono stati altri sviluppatori che, sempre provando il filone delle grandi battaglie di massa, hanno proposto più di uno spunto.

Viking Battle for Asgard per esempio imponeva fasi di esplorazione e raccolta di uomini e risorse prima di ogni battaglia, ma soprattutto rendeva più tangibile il fatto di essere alla guida di un esercito. Lo faceva non esagerando la differenza di potenza tra personaggio e alleati, dando quindi la decisa idea di stare conquistando il campo un metro alla volta insieme ai propri uomini virtuali.

Ugualmente, gli sbocchi strategici sarebbero una strada ugualmente percorribile, magari incrociando sia l’esperienza degli Empires (che appunto hanno parti di politica e strategia semplificate) che quanto contaminato con il già citato e ben accolto Fire Emblem Warriors.

Il compromesso quindi sarebbe trovare il giusto mezzo tra il far percepire al giocatore la potenza del proprio personaggio e dare una consistenza ai colpi inferti. Fermo rimanendo che si dovrebbe anche “convincere” il pubblico giapponese a questo cambio. Ci avevano già provato con Warriors: Legends of Troy, ricevendo però una fredda accoglienza.

Il Musou ha nella sua testardaggine la sua più grande forza e la sua più grande debolezza – perché finora i Musou hanno avuto grandi risultati soprattutto in Giappone, ma il mondo intero è unanime nel dire che il genere non ha ancora un esponente inequivocabilmente definibile come capolavoro. Finora, ci sono andati molto vicini nel periodo 2011-2012, ovvero con Dynasty Warriors 7 e il terzo Warriors Orochi.

Anche qui però il tema sta nel pubblico: così come il Romanzo dei Tre Regni è conosciutissimo in Giappone, è praticamente sconosciuto in Occidente. Immaginiamo qualcosa a parti invertite: un ipotetico King Arthur Warriors probabilmente avrebbe potenziale tra Europa e America, ma sarebbe un enorme rischio per il Giappone, ovvero nel Paese dove il genere ancora registra i migliori risultati.

E a conti fatti, il modo più diretto per sperare di raggiungere tutte queste cose è continuare con la contaminazione. Tanto che, a parte i sequel discutibili e fatti solo per spingere un successo inaspettato, qualcosa di buono nei Musou comunque c’è. Altrimenti non si spiegherebbe il perché della decisione di Nintendo di rivolgersi nuovamente a Koei per l'Era della Calamità. Del resto non è Nintendo ad avere bisogno di Koei, ma il contrario: se volesse, Nintendo potrebbe creare qualunque cosa a tema Zelda – e lo venderebbe comunque.

In conclusione

Il Musou è un genere videoludico che vive di contraddizioni insanabili. Da un lato non cresce (o ha paura di crescere) da un punto di vista strutturale, dall’altro si reinventa. Sembra realizzabile da chiunque, eppure appena viene affidato a qualcuno di diverso dai suoi creatori, ecco che perde di consistenza e attrattiva. In Occidente è snobbato da tutti, eppure ecco che vende anche senza la “stampella” di una proprietà intellettuale di successo. Come mai? Perché alla fine, per citare in parte Boris – Il film, il gameplay semplificato o semplicistico dei Musou è solo “un caffè”. Il Musou vende e nel suo piccolo vince perché è sì qualcosa di intimamente giapponese, ma anche un genere che nella sua rozzezza è in grado di raccontare storie epiche in modo epico – ed epicamente esagerato. E se c’è una cosa che Koei ha capito, è che non ci stancheremo mai dell’epica, perché siamo umani.

Volete comprendere meglio le radici di questa collaborazione bizzarra ma non troppo? Allora qui trovate sia il primo Hyrule Warriors che il grandissimo Zelda Breath of the Wild!