Gli open world si stanno finalmente ricordando che il viaggio è il gioco, non un riempitivo

Se crei un mondo di gioco enorme dove gli unici momenti chiave di una traversata sono la partenza e la destinazione, stai scegliendo di riempire l'esperienza di momenti non significativi. Perché?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

I videogiochi sono sempre più grandi. Provate a fare un esperimento: prendete un gioco della vostra infanzia e provate a tornarci oggi. Ci ritroverete le sensazioni e quel senso di familiarità che vi daranno l'idea di un ritorno a casa, ma noterete anche come l'opera-tutta fosse più lineare, più costrittiva, per motivi tecnici e di conseguenza di design.

Oggi i videogiochi permettono di immergersi in enormi mondi aperti, se preferite open world, e in molti casi di avanzare secondo i propri ritmi nella storia principale. Se vuoi cambiare ritmi, puoi concederti una secondaria, o un mini-gioco, e poi tornare alla campagna.

L'approccio è molto più libero e purtroppo alcuni giochi, in questa transizione, si sono dimenticati che viaggiare ed esplorare è il gioco, non un riempitivo tra una missione principale e l'altra.

La grandezza a tutti i costi

Ho citato l'idea del tuffarsi nei mondi videoludici della nostra infanzia perché è quella che esprime meglio di tutte la sensazione che ancora oggi ci accompagna, quando giochiamo: immergerci in un mondo-altro. Ora che le tecnologie rendono possibile, a questo mondo-altro, essere ricco, vario e abbondante, si è andati nella direzione del mondo enorme a tutti i costi. Anche a costo dell'interazione.

In un'industria dei videogiochi che insegue sempre la next big thing, adducendo sulla base del marketing che il nuovo capitolo di un franchise sarebbe sempre non solo più bello, ma soprattutto più grande del precedente, i chilometri quadrati e la vastità sono stati fatti passare per sinonimo di qualità. Cosa che non sono.

Ne parlammo ai tempi delle curiose dichiarazioni relative alla pletorica longevità di Dying Light 2, che borbottava di improbabili camminate da Varsavia a Madrid: il punto è che inseguendo i mondi enormi spesso ci si è dimenticati di renderli significativi. Ambientazioni meravigliose e dall'ampio potenziale possono risultare monotone e prevedibili, perché lo sforzo viene profuso in direzione del renderle imponenti dal punto di vista dell'estensione, non nel renderle dense dal punto di vista dell'interazione.

In questo 2022, tuttavia, mi sono resa conto che l'industria sembra essersi fermata a riflettere sul tema, almeno un po': è come se ci si fosse ricordati dell'importanza della traversata, anche nel panorama degli open world. Se devo giocare per trenta ore e, di queste, almeno la metà mi vedranno spostarmi da un punto di interesse chiave a un altro, devi fare in modo che anche lo spostamento sia ludico e non un intermezzo passivo.

Viaggio e destinazione

A un certo punto, non mi importava più granché del colosso Vah Ruta che sembrava fissarmi dalla lunga distanza. Mentre vivevo The Legend of Zelda: Breath of the Wild (lo trovate ancora su Amazon), ero troppo presa dallo scoprire che villaggio fosse quello nascosto in un punto che non avevo mai notato prima, per dargli attenzioni. Ero presa dallo scalare e guardare dall'alto. Dalla mia ricerca di sacrari e risorse utili. Il gioco è impostato per farti affrontare dei grandi dungeon? È vero, ma anche per fartelo fare a modo tuo. Se proprio vuoi, puoi anche andare direttamente in quello finale. Volevi il gioco a mondo aperto? Questo è aperto, ma bada a te stessa: it's dangerous to go alone.

Il mio viaggio in Red Dead Redemption 2, invece, è stato il paradiso delle deviazioni. Andare dal punto A al punto B si traduceva molto spesso in una miriade di «un attimo, voglio vedere questa cosa». In orsi che mi aggredivano dal nulla. In dame in pericolo che mi chiedevano di essere accompagnate a casa e altre che facevano solo da esca per farmi rapinare dai loro complici. Il Selvaggio West di Arthur Morgan era pulsante e vivo e, nelle decine di ore che ci ho passato dentro, non ho mai avvertito di aver buttato del tempo a oltrepassare modelli poligonali e texture che arredavano il vuoto pneumatico di molti open world.

È una sensazione che, ad esempio, non mi ha restituito il titanico Assassin's Creed Valhalla (potete comprarlo in sconto su Amazon) – e che, in generale, purtroppo riescono a dare con difficoltà le recenti produzioni Ubisoft, che seguono la stessa scia. Il suo meraviglioso mondo che si muove dalla Norvegia alla Gran Bretagna è sterminato nelle dimensioni e limitato nelle possibilità. Nel corso del prime quattro o cinque ore si sono già appresi tutti gli schemi possibili, che si ripeteranno indistintamente dalla Scandinavia all'Anglia. Non ci sono sorprese strutturali, né sul macro-livello dello scheletro del gioco, né nelle sotto-strutture delle attività che si innestano sul filone principale.

I nemici che ti si fanno di fronte, gli animali che potresti incontrare, i punti di interesse e le attività: tutto è uguale a se stesso, al punto che la traversata è un ponte e nient'altro. Il gioco lo sa e ti invita a premere X per saltarla a pie' pari, per fare in modo che Eivor avanzi da sola con il suo cavallo, come a dirti che «circolare, circolare, non c'è niente da vedere». Ma se non c'è niente da vedere perché questo mondo è così grande?

Se i momenti significativi sono sbilanciati solo verso la destinazione, relegando il viaggio per raggiungerla a momento morto in cui il cavallo potrebbe benissimo seguire la strada da solo, la mia interazione che peso ha? Nessuno. E allora perché questo momento è lì?

Ed ecco che gli open world inutilmente grandi mostrano il loro fianco più vulnerabile: più sono estesi, più lunghe sono le traversate. E più lunghe sono le traversate, più il mio mondo deve essere ricco, per fare in modo che non si appiattiscano diventando monotone camminate tra il niente e il nulla. Se la traversata è così piatta da poter permettere serenamente di usare sempre e solo il viaggio rapido anche per le brevi distanze, perché tanto non ti perderesti nulla, non è una buona traversata. E considerando quanto tempo il giocatore ci passerà sopra, non puoi permetterti di non avere una buona traversata in un mondo enorme.

La traversata è il gioco, non l'intervallo

Sono rimasta nascosta tra i cespugli, nel tentativo di elaborare la mia strategia. Ho deciso di attivare il focus, perché già una volta mi è successo un imprevisto: la macchina che volevo attaccare non era debole all'elemento che pensavo e ho dovuto filarmela e usare un arco che non avevo previsto – e per cui avevo anche poche risorse per creare nuove frecce. Stavolta, però, starò attenta.

O, almeno, pensavo di stare attenta, perché ora ad attirare la mia attenzione è il fatto che dei Tenakth ribelli e dei Tenakth di un altro clan si stiano scontrando per i fatti loro. So che dovrei intervenire per aiutare i secondi e alla fine lo faccio. In tutto questo, in realtà stavo solo andando a parlare con un NPC per una secondaria, ma va bene così. È per questo che è bello, Horizon: Forbidden West.

Non sai che macchina ti può capitare e questo ti porta a essere adattabile: lo stesso schema non va bene con tutte. I biomi si susseguono via via che avanzi e ospitano macchine diverse, dalle peculiarità differenti, con punti deboli tutti loro. Andare dal punto A al punto B non è un mero camminare o cavalcare: hai la sensazione che potresti perderti qualcosa, che sia una rovina, un accampamento o perfino un centro abitato (o abbandonato) che ti racconta qualcosa. Il mondo è vivo ed esiste all'infuori di Aloy. Girovagarci non solo fa parte del gioco, ma è il gioco.

La mia Senzaluce non è esattamente un genio della pianificazione. È coraggiosa, però. Sa benissimo che ogni cosa potrebbe masticarla e sputarla via, ma continua sfrontatamente a girare. Avanzare. Ogni tanto, a battere in ritirata senza troppa vergogna. Il mondo di Elden Ring che ha intorno la investe di un costante senso di scoperta, ma questo va di pari passo con una profonda sensazione di caducità: voglio sapere cosa si nasconde dietro quel monte, ma so di essere piccola e calpestabile in un mondo grande e noncurante della mia insignificanza. Ve lo aveva descritto benissimo Silvio Mazzitelli nella sua riflessione.

Aprire la mappa, consultarla e raggiungere un potenziale punto di interesse non è un mero andare dritti per la propria strada, a meno che non si ignori qualsiasi cosa ci si faccia davanti. Volevo raggiungere quella che pensavo fosse una chiesa di Marika. Era circondata da un villaggio di soldati-scheletro e, dopo essere riuscita a superarli, ho scoperto che la rovina emergeva invece da un lago dove un traghettatore, ben poco amichevole, ha provato senza troppa gentilezza ad aggiungere la mia anima alla sua collezione.

Ho avuto la meglio, ma è stato il viaggio la parte intrigante: mi sono data io la meta e ho vissuto il percorso perché aveva qualcosa da dare. Non sono solo arrivata a un punto di interesse (che nemmeno ero certa ci fosse) che mi era stato imboccato, con una camminata che sarebbe stato possibile sostituire da un "premi X per arrivare alla destinazione".

Interazione itinerante e niente "di più è meglio"

Ci sono, insomma, alcune produzioni videoludiche che si sono accorte che la rincorsa al chilometro quadrato sia un gioco che non vale la candela, perché riempie l'esperienza di tempi morti arbitrari, tanto lunghi quanti più sono i metri da coprire tra un punto vivo del gioco e l'altro.

Questa riscoperta del tragitto nel videogioco aveva effettivamente trovato espressione anche in opere che sono del tutto incentrate sul cammino, vicine alla letteratura di viaggio: pensiamo a giochi come Lake, completamente costruiti proprio sul fatto di dover attraversare la mappa come meccanica cardine.

Pensiamo anche a Death Stranding, che fa lo stesso ragionamento aggiungendo una componente organizzativa alla necessità di affrontare percorsi impervi. Pensiamo a Journey, dove il nome dice già tutto. E pensiamo anche a come, qualche tempo fa, è stato presentato Little Devil Inside, con un trailer interamente concentrato su come sarà gestito lo spostamento lungo il mondo di gioco.

È solo un bene che ci siano sempre più videogiochi che ricordano che un grande mondo non significa necessariamente un bel mondo, ed è anche curioso che sia stata proprio Ubisoft (nella divisione di Stoccolma) a tornare sull'argomento solo pochi giorni fa.

In un'intervista a GamesIndustry, infatti, il managing director Patrick Bach ha ammesso che «nessuna parte di un gioco dovrebbe essere guidata dall’idea che ‘di più è meglio’», aggiungendo anche che «non penso ci sia una vera connessione tra l’essere più grandi come giochi e l’essere migliori o peggiori».

Delle dichiarazioni che accogliamo con piacere, considerando che la tecnologia Ubisoft Scalar, a cui la compagnia francofona sta lavorando, permetterà di creare mondi anche più grandi di quelli visti in ValhallaOdyssey.

Ci guadagnano tutti, di fronte a videogiochi che tengano conto dell'intensità anziché dell'estensione. Se ne sono accorti anche i grandi open world usciti quest'anno e il palato dei videogiocatori, ora che li ha assaggiati, difficilmente sarà disposto a tornare indietro.