Sono immune all'hype e sono la videogiocatrice più felice del mondo

L'hype nel mondo dei videogiochi è diventato così forte che aspettiamo i videogame più di quanto effettivamente li giochiamo.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Me ne sono accorta già da diversi anni e non so se, come a volte capita, possa essere stato dovuto a un "trauma videoludico" (Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, sto parlando di te): sono completamente immune all'hype e questo mi mette al riparo da un aspetto dell'industria videoludica che è diventato sempre più robusto e trainante -- quello della macchina dell'hype.

La definizione di questo concetto è presto detta: dall'annuncio (o prima) di un gioco, infatti, la community degli appassionati inizia febbrilmente ad aspettarne l'arrivo. Dal primo momento al secondo, c'è un intervallo di durata variabile e più o meno lunga in cui alle informazioni certe sull'opera si affiancano indiscrezioni e immaginazione. Quel momento in cui il giocatore mette insieme i pezzi per configurarsi come sarà giocare un determinato titolo, una volta che sarà disponibile.

Così, l'hype si monta sull'hype: si aspetta il gioco annunciato e si aspetta l'idea di gioco che ci si è costruiti. Il gioco arriva, viene consumato, e via, verso la prossima attesa. In sella sulla prossima macchina dell'hype.

Perché sono felice di non riuscire a farne parte nemmeno impegnandomi? Perché la videogiocatrice che è in me è lenta. E di un approccio da fast food non sa che cosa farsene.

La calma è la virtù dei calmi

Molti dei nostri lettori conoscono la mia attenzione per l'opera di Hideo Kojima (che non vuol dire guardarla acriticamente, ma questo è un altro discorso), motivo per cui a ogni nuovo trailer di Death Stranding mi capitava di ricevere dei messaggi di commenti e di confronto, con giocatori che aspettavano con impazienza il debutto del gioco. Un gioco di cui non abbiamo saputo niente di concreto fino a quando il gameplay non venne svelato nei minimi dettagli... al Tokyo Game Show 2019. In giapponese.

Ricordo che un lettore rimase sorpreso quando gli dissi che per me Death Stranding, e così qualsiasi altro gioco, poteva uscire anche tra cinque anni, "che esca quando è pronto, aspetterò". "Ma non lo stai aspettando?", mi rispose. "Certo che sì. Con calma. Arriverà". Una posizione che probabilmente sembra arrivare da un altro pianeta rispetto a quella frangia della community per cui il rinvio di un gioco è un evento talmente catastrofico che finisce con il cercare i profili personali degli sviluppatori per mostrare il suo disappunto (o inviare insulti, dipende dall'inciviltà).

Valeva lo stesso con le nuove console -- qualcuno di voi ricorderà ancora qualche simpatica battuta social sulla mia mancanza di tripli salti mortali con sorriso carpiato che manifestassero, nella prima foto redazionale fianco a fianco con PS5, la mia gioia per l'attesa insopportabile finalmente conclusa, che non c'erano perché non c'era stata nessuna attesa insopportabile finalmente conclusa, solo tanto sano interesse per il futuro dei videogiochi.

Valeva lo stesso con The Last of Us - Parte II, che ho amato ed è il mio gioco della generazione. Vale lo stesso con il sequel di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, un videogioco che ho adorato a livello ipodermico -- e nonostante questo per me può uscire nel 2021 come può uscire nel 2025. Basta che esca, ma soprattutto che esca nel momento giusto. Chiedete a Shigeru Miyamoto perché.

E, indovinate un po', valeva lo stesso anche per Cyberpunk 2077, per fare un altro esempio illustre. Avrei potuto aspettarlo per altri quattro anni. Quattro anni da cui, probabilmente, avremmo guadagnato tutti.

L'hype, la domanda e il lasciar andare

Seguendo così da vicino e con così costanza il mondo dei videogiochi per ovvi motivi, a volte mi domando se il concetto per cui cominciare a giocare un titolo fin da quando cominciamo ad attenderlo non sia andato un po' oltre. Mi capita di confrontarmi con degli appassionati che passano mesi a contare i giorni che li separano da un debutto, che consumano il gioco nel minor tempo possibile una volta uscito e poi si dedicano al prossimo countdown.

Cosa c'è di male? Assolutamente niente. Anzi, i giocatori più appassionati e più onnivori e voraci sono quelli che hanno reso così forti le gambe su cui l'industria del videogame si regge oggigiorno.

C'è però un nome che mi viene alla mente, ed è quello di Crash Bandicoot 4. Pensate per quanto tempo abbiamo aspettato un nuovo episodio della saga in piena regola. Finalmente è arrivato, e nel giro di due settimane nessuno ne parlava più nella community, perché eravamo tutti impegnati ad aspettare le prossime uscite. Avevamo davanti il nuovo capitolo di un platform che abbiamo amato, peraltro estremamente riuscito, che perfino nel suo titolo ci diceva che era ora che uscisse, e in pochi giorni la sua luce si è spenta, perché c'era qualcos'altro da attendere, in un all you can eat che consuma i videogiochi molto più velocemente di quanto riesca a produrre queste opere sempre più titaniche e i cui sviluppi sono sempre più costosi.

Certo, nel caso di Crash Bandicoot 4 proprio in questi giorni abbiamo assistito a un ritorno di fiamma per via della nuova release su PS5, Xbox Series X|S e Switch, ma tra le due uscite quel platform che attendevamo dai tempi di Warped è stato semplicemente attorniato dal silenzio.

Quando perfino le compagnie dicono "abbassate le aspettative"

Il processo per cui l'hype è diventato parte integrante del mondo dei videogiochi (da poco il nostro Valentino ci ha ragionato in una riflessione che trovate qui sul fatto che possa anche essere "distruttivo") è reso ancora più lapalissiano da interventi come quelli di Aaron Greenberg, che alla viglia di un evento Xbox precisa di "abbassare le aspettative", onde evitare sollevamenti degli scontenti a evento terminato. Una lezione imparata la scorsa estate, quando l'evento Microsoft con al centro Halo Infinite portò il gigante di Redmond a fare più di una riflessione sulla gestione dell'hype e delle aspettative: se lanci indizi alle persone, tieni conto che quegli indizi assumeranno forme e proporzioni che magari nemmeno ti aspetteresti, nella loro immaginazione.

Si tratta solo di uno dei casi. Complice la doppietta portata avanti dal 2020 e dal 2021, infatti, la sempre maggior digitalizzazione degli appuntamenti (che era già cominciata prima della pandemia, precisiamo) e la diluizione delle uscite in virtù di un'industria costretta allo smart working hanno generato un incastro di scontentezze: all'annuncio di ogni nuovo avvenimento -- un nuovo Nintendo Direct, un nuovo State of Play, l'evento Square Enix, l'appuntamento con Epic Games -- la fantasia degli appassionati parte nella speranza di avere novità importanti sui giochi che stanno aspettando particolarmente.

Aspettative, insomma, che capita spesso vengano disilluse. Non solamente perché l'industria è un po' in un punto di stallo in cui siamo in bilico tra una generazione finita e la successiva che, per tutta una serie di motivi pandemici e non pandemici, non è ancora cominciata, ma anche perché vivere il videogioco è diventato anche e soprattutto attenderlo. Poi divorarlo. E poi via, con la prossima attesa.

"Dì la verità, te lo eri immaginato così?"

Non ho ancora ben capito se sia una questione di inclinazione personale o di deformazione professionale. Qualche tempo fa, parlando di The Last of Us - Parte II, un lettore mi chiese "dì la verità, Stefania, tu te lo eri immaginato così?", e mi sono ritrovata a rispondere in assoluta sincerità che io non me lo ero immaginato affatto. Che non avevo passato i mesi in attesa della release, di rinvio in rinvio, a configurare nella mia mente cosa avrei potuto fare nel gioco, dove sarebbe andata Ellie, dove sarebbe andato Joel, che ruolo avrebbe avuto Dina. Ho immagazzinato quelle informazioni e l'unica cosa che mi ero immaginata, con cui lo avevo etichettato, era stata "da Naughty Dog mi aspetto tanto".

All'infuori dei discorsi beceri che hanno preso a circolare sul web ancora prima dell'uscita di questo gioco, ho letto alcuni appassionati sinceramente delusi che spiegavano "The Last of Us - Parte II non è affatto il gioco che avevo immaginato". Ed è questo che mi ha dato di che riflettere, e vale per l'opera con protagonista Ellie così come per qualsiasi altra: ci siamo abituati così tanto, come pubblico videoludico, a comporre i pezzi del puzzle nell'attesa del gioco, con un marketing così fortemente incentrato sulla creazione della domanda, che quando ci rendiamo conto che l'immagine che avevamo ottenuto non è quella reale -- che avevamo incastrato i tasselli tutt'in un altro modo – scatta addirittura la delusione.

In conclusione

Mi è capitato di frequente di provare le sensazioni che dicevo in apertura nell'articolo, quell'effetto Crash Bandicoot 4. Pensate a quanto si sia aspettato The Medium. A quanti appassionati fossero impazienti di mettere le mani su Little Nightmares 2. Interagendo tutti i giorni con i videogiocatori, rimane addosso la sensazione che ci sia abituati a vivere il videogioco come un fast food, e che sia quasi "strano" limitarsi a... giocare, senza stare a contare i giorni o a vivere nello scoramento ogni rinvio.

E non c'è niente di male in nessuno dei due approcci, come dicevo. Rimane solo da capire se e come questo causerà un cortocircuito in un momento storico come quello che stiamo vivendo, dove non ci sono straordinari catalizzatori di attenzione come sono state, nel 2020, release come quelle di Cyberpunk 2077, di The Last of Us - Parte II, delle nuove console.

I videogiocatori sono sempre in attesa di qualcosa e non vedono l'ora di spolparla per poi concentrarsi sull'attenderne un'altra. Ma quest'anno, invece, come coniugheremo l'aver interiorizzato la cultura dell'hype a un calendario fatto di rinvii, diluizioni e TBA?

Se volete mettere le mani su alcuni dei videogiochi citati nel nostro articolo, date un'occhiata alla vetrina videoludica del rivenditore Amazon.