I videogiochi fanno politica ogni volta che precisano di non fare politica

I videogiochi con messaggi politici sono uno spauracchio di chi li annuncia, che precisa: noi non lanciamo messaggi politici. E invece...

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a cura di Stefania Sperandio

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polìtica s. f. [femm. sostantivato dell’agg. politico (sottint. arte); cfr. gr. πολιτική (τέχνη)]. – 1. a. La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica; [...] d. L’attività di chi partecipa direttamente alla vita pubblica, come membro del governo, del parlamento, di un partito, di un sindacato, di un movimento, ecc (Treccani).

Il videogioco come medium ha un problema, ed è un problema che va a braccetto con buona parte della sua community: ha terrore della parola "politica". C'è un motivo: "politica" significa, che lo si voglia o no, prendere posizione. Ogni idea è contraria a una immediatamente opposta. Sostenere qualcosa, essere convinti di qualcosa, significa essere non favorevoli a qualcosa che ne rappresenta l'altra faccia della medaglia.

Per questi motivi, la politica viene spesso vissuta come divisione. Se già nell'ambiente italiano è evidente che il dibattito politico sia spesso tutt'altro che costruttivo, tra lanci di slogan e dichiarazioni di intenti a mezzo social più attente al numero di condivisioni che alle implicazioni che potrebbero radicare, negli Stati Uniti la situazione è probabilmente anche più esasperata di così.

Le recente elezioni presidenziali hanno messo in mostra un clima tutt'altro che sereno tra repubblicani e democratici e i disordini di Capitol Hill dello scorso gennaio hanno portato sotto i riflettori una situazione che già da tempo covava nella culla della non volontà di confrontarsi, mai: si ha ragione, sempre, e tutti gli altri torto.

Questo clima di esasperazione politica con estremi sempre più polarizzati sta coinvolgendo da vicino anche i videogiochi: mentre sono decenni che gli studiosi, gli addetti ai lavori e anche molti appassionati si fanno sentire per evidenziare il potere del videogioco come medium, ossia come veicolo di messaggi, ecco che ci sono sempre più retromarce. Questo tema? Lo abbiamo messo per favorire il gameplay, ma non vogliamo lanciare messaggi. Una distopia con messaggi sociali? Ma no, neanche per idea - insomma, noi facciamo solo videogiochi.

Perché un'industria che ha lottato così tanto per legittimare anche il suo ruolo di mezzo di comunicazione, staccandosi dalla mera interpretazione del videogioco come -gioco, sta tracciando questo solco e continua di annuncio in annuncio a mettere le mani avanti, non accorgendosi nemmeno che già questo significa fare politica?

Videogioco politico a chi, scusa?

Anno 2020. Dalle ceneri viene riesumato, senza che se ne sentisse francamente un eccessivo bisogno (e questa è, ebbene sì, una frase politica e personale, perché la politica è in ogni pensiero ed è dietro alla concessione della libertà di pensiero stessa), Six Days in Fallujah.

Il videogioco in questione vuole raccontare, come vi anticipammo sulle nostre pagine, le vicende della terribile presa di Fallujah durante la Seconda Guerra del Golfo, che portò alla morte di cento soldati americani e, secondo i dati della Croce Rossa, di almeno ottocento civili iracheni.

Il punto è che la vicenda è orribilmente nota per i crimini di guerra documentati dall'inchiesta di Sigfrido Ranucci per RaiNews 24, che nel suo pluripremiato Fallujah. La strage nascosta ha evidenziato l'uso di bombe al fosforo contro i civili. A questo si affianca l'indagine del giornalista George Monbiot del The Guardian, che a sua volta evidenziò anche la pratica dell'utilizzo delle bombe a vuoto. Gli USA, dal canto loro, prima negarono e poi confermarono l'uso di bombe al fosforo (fonte BBC), precisando però di averle utilizzate contro combattenti nemici e non contro i civili.

In tutto questo, per la OPCW (Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons) è possibile usare bombe al fosforo per creare diversivi, come il fumo o la produzione di luce per migliorare la visibilità. Servirsene come arma chimica è invece un crimine di guerra.

Interpellato in merito alla scelta di un contesto simile per ambientare un videogioco, dove si vestiranno i panni di soldati USA o loro alleati, ma di civili iracheni, il publisher Victoria, nella persona di Peter Tamte, rispose di non essere intenzionato a rappresentare nessun crimine di guerra. Lo scopo del gioco? Non certo mandare un messaggio, ma rappresenterà la «complessità del combattimento urbano». In parole più semplici? Rappresentare la spettacolarizzazione della presa di Fallujah.

Tamte non ci girò nemmeno troppo intorno e, ai microfoni di Polygon, aggiunse anche di aver scelto di non includere la rappresentazione dei crimini di guerra nel suo gioco perché:

L'uso del fosforo non è parte delle storie che i nostri testimoni ci hanno raccontato, quindi non ho dei fatti concreti e autentici su cui basarne la rappresentazione, il che è importante. Inoltre, non voglio quel tipo di cose sensazionali che distraggano da parte dell'esperienza.

Rappresentare un crimine di guerra come l'uso di bombe al fosforo all'interno di un videogioco che vuole ambientarsi in un evento storico realmente accaduto come la presa di Fallujah, insomma, sarebbe una «cosa sensazionale» che distrarrebbe da parte dell'esperienza.

Sembra lecito domandarsi perché, allora, tra il miliardo di contesti o di distopie immaginabili, si sia andati a parare proprio e precisamente in uno scenario del genere. Scenario che, raccontava anche Alanah Pearce, è osservato speciale della politica in carne e ossa, al punto che criticare Six Days in Fallujah in USA sarebbe molto rischioso.

Veniamo in tempi più recenti. Anno 2021. Ubisoft, casa francese madre di alcuni dei franchise più famosi della storia dei videogiochi, ci porta più vicini a Far Cry 6. Nella nuova iterazione della celebre saga, il giocatore vestirà i panni di un protagonista, personalizzabile nel genere, che cercherà di rovesciare il regime di Yara.

Ai microfoni dei colleghi di The Gamer, il narrative director Navid Khavari spiegò, al di là dell'evidente fonte di ispirazione, di non voler «fare un commento politico specificamente su Cuba».

Questo venne interpretato come la volontà di raccontare una storia di regime, rivoluzione e rivoluzionari senza che passasse alcun tipo di messaggio, ma Ubisoft è tornata sul tema precisando che, sì, Far Cry 6 ha in sé un commento politico. Il punto, sottolinea il publisher nelle nuove dichiarazioni di Khavari diffuse sui canali ufficiali, è che non riguarda specificamente Cuba:

La nostra storia è politica. Una storia che parla di una rivoluzione moderna deve esserlo. Ci sono delle discussioni complicate e rilevanti, in Far Cry 6, sulle condizioni che hanno portato all'insorgere del fascismo in una nazione, al costo dell'imperialismo, ai lavori forzati, alla necessità di elezioni oneste e libere, ai diritti LGBTQ+. E c'è anche di più a Yara, l'isola fittizia dei Caraibi.

Ubisoft non è nuova a inserire, in effetti, messaggi politici nei suoi giochi: il nostro Paolo Sirio vi raccontò della radio in-game in Watch Dogs Legion che rifletteva sui problemi del sovranismo e vi anticipò già dopo le prime prove che, nonostante la casa transalpina avesse attutito i toni durante le presentazioni del gioco, nella distopia britannica erano addirittura presenti campi di prigionia per immigrati, che in alcuni casi venivano orribilmente sezionati.

La riflessione sulla deumanizzazione di quello che viene percepito come diverso e additato per questo è quindi estremizzata all'interno dell'open world uscito lo scorso autunno, con l'evidente intento di lasciar passare un messaggio che porti a farsi delle domande da sé, prima di assimilare qualsiasi risposta pre-confezionata.

Cambiamenti climatici, rifugiati e distopie di Battlefield 2042

Arriviamo così al caso di Battlefield 2042. Il nuovo episodio della celebre saga di sparatutto di casa Electronic Arts vi vedrà al centro di un'esperienza multiplayer in cui il mondo è arrivato letteralmente al collasso. Come Paolo vi ha spiegato nella nostra anteprima dopo l'incontro con DICE, lo scenario di questo futuro prossimo vi vede di fronte a una crisi dei rifugiati che non ha eguali. Perché? Perché l'emergenza climatica è sfuggita di mano, parti della Terra sono diventate inabitabili o inospitali per l'innalzamento dell'acqua o fenomeni catastrofici che vi si generano.

In tutto questo, dopo le crescenti tensioni, le superpotenze egemoni – rappresentate soprattutto da USA e Russia – continuano a litigarsi le risorse ancora a disposizione a colpi di belligeranza e tante persone ormai senza nazione, i "No-Pats", si trovano in mezzo a questa situazione.

Così, un po' come Orwell in 1984 e Huxley in Brave New World avevano tentato di immaginare le future storture della società che vedevano intorno a loro, ecco che DICE mette insieme le derive emergenziali che oggi non riusciamo ad arginare e che, per accumulo, in un futuro tutt'altro che remoto potrebbero tradursi in un tracollo. Giusto? No. O, almeno, non secondo DICE stessa.

Interpellata dai colleghi di IGN USA, la software house ha messo subito le mani avanti e, con il design director Daniel Berlin, ha subito spiegato che il gioco non vuole passare messaggi politici. Rifugiati? Emergenza climatica? Sfruttamento della Terra per ottenerne risorse che porterà alla decadenza? Tensioni sullo scacchiere internazionale? Solo un contesto generico per giustificare il gameplay, nessun messaggio.

Nelle parole di Berlin:

Per noi è assolutamente e semplicemente un gioco multiplayer. Il motivo per cui abbiamo deciso di percorrere questa strada, è che volevamo creare una narrativa in questo mondo, attraverso gli occhi dei No-Pats. Volevamo che ci fosse più spettacolarità, e più eventi massivi. L'ambientazione è perfetta per questo, va bene per quella portata e ci dà motivo di poter girare per tutto il mondo. Si tratta di motivi di gameplay.

Insomma, nessuna volontà di dare peso al contesto in quanto tale, che fa solo da tessuto per giustificare le numerose battaglie che i giocatori affronteranno durante le loro scorribande in Battlefield 2042. Legittimo? Assolutamente sì. Curioso, considerando i precisi punti che questo scenario va a toccare e la loro disarmante attualità? Anche.

Il freno al messaggio

Le recenti precisazioni degli sviluppatori a fronte della riconducibilità politica di alcuni contenuti delle loro produzioni aprono la porta a molteplici riflessioni. La prima è sul genere: Six Days in Fallujah venne accusato di essere un titolo di pura propaganda per i reclutamenti negli Stati Uniti, un Paese dove gli sparatutto sono sempre molto popolari e molto apprezzati, e dove le industrie mediali hanno storicamente proposto storie e racconti dal fronte.

Così, se nel caso di Far Cry 6, che pure è incentrato sulle sue meccaniche di azione e shooting sopra le righe, Ubisoft ha spiegato più precisamente la sua visione, negli shooter di guerra Six Days in FallujahBattlefield 2042 rimane la visione apolitica e disimpegnata. Dove la guerra è spettacolarizzata e trattata in modo ludico, per il puro intrattenimento, insomma, viene svestita da messaggi – almeno a parole.

Un altro aspetto da discutere è probabilmente legato agli investitori che animano i publisher che finanziano questi videogiochi: non è difficile immaginare che soprattutto i publisher statunitensi vogliano tenersi quanto più lontani possibili dalle eventuali divisioni generate dalla politica, ma questo ci porta al cortocircuito per cui il videogioco accetta serenamente di rinunciare alla funzione di medium per fermarsi allo step precedente, quello di puro divertimento disimpegnato.

Un approccio che deve sempre coesistere con quello di opere che tentano vie differenti e magari sono invece sbilanciate proprio sul messaggio, ma che sembra ribadito in modo quasi ansioso, quando poco dopo una presentazione si rimarca l'assenza di riflessioni politiche in un videogioco sulla presa di Fallujah; quando si fa subito altrettanto in un titolo in cui la Terra fa i conti con i cambiamenti climatici e la fine dei dialoghi tra le superpotenze.

La percezione di cosa sia politico

C'è anche un altro fattore da discutere, non immediatamente legato a etichette o investitori, ed è la percezione che la community ha del contenuto politico. Il caso di The Last of Us - Parte II, a tal proposito, fa scuola: in una storia sulla violenza che innesca violenza, l'americana Naughty Dog racconta le problematiche degli esseri umani e, nel farlo, ne sfiora tante sfaccettature, comprese quelle dell'orientamento di genere e dell'identità di genere, oltre che della religione dogmatica.

A ciò, si sommano rappresentazioni dei personaggi che perdono edulcorazioni a cui i nostri immaginari sono stati abituati dalla dieta proposta dai media, con ad esempio una donna lontanissima dalla damigella in pericolo e, per l'iconografia atavica dell'angelo del focolare, dalla damigella in genere.

Come sappiamo, questo ha scatenato delle reazioni di una violenza fuori scala, con veri e propri gruppi organizzati online che sono arrivati a inviare minacce e insulti alle attrici interpreti del suddetto personaggio – Abby Anderson –, alla scrittrice del gioco e al direttore che ne aveva guidato i lavori. L'accusa, al di là di chi non ha apprezzato e ha spiegato perché alcune decisioni puramente narrative o ludiche dell'opera, era di aver fatto di The Last of Us una «agenda politica».

Si tratta di uno dei casi palesi in cui "politico" è diventato sinonimo di determinate posizioni differenti dall'abituale. Rappresentare una omosessuale in un videogioco significa creare un gioco "politico", ma alcuni membri di quella stessa community lo dicevano invocando il ritorno di giochi non politici. Tra questi, finivano con il citare perfino Spec-Ops: The Line – ed è davvero difficile immaginare un'opera più politica di quella. O Hellblade: Senua's Sacrifice, come se parlare delle problematiche delle patologie psichiche e dello stigma in cui vivono non fosse un messaggio legato alla politica.

Quell'ansia da «la politica stia fuori dai videogiochi», che significherebbe essenzialmente creare videogiochi che non parlano di un bel niente, ha coinvolto di tutto: ogni gioco con una protagonista è accusato di essere politico; anche quando i protagonisti nelle boxart sono parte di una qualsiasi minoranza, ecco che un videogioco si inimica tutta quella parte di pubblico che lo trova «politico».

La stessa identica opera non riceverebbe lo stesso j'accuse se il protagonista fosse uno di quelli standardizzati a cui ci siamo abituati dagli anni Ottanta in poi e che per lungo tempo (vedasi caso Remember Me, solo per scomodarne uno) sono stati ritenuti i soli commercialmente possibili.

Qualche settimana fa, in occasione della festa della mamma, abbiamo riflettuto sui fattori per cui molte narrazioni ludiche si concentrino sui papà, di recente, mentre ancora poche parlino di madri. Alcuni ci hanno rimandato a Cooking Mama e hanno invocato di nuovo il «basta politica nei videogiochi». È stato letto come una sorta di imposizione politica, il riflettere sull'assenza videoludica di mammà.

Va quindi da sé che manchi, ora come ora, una consapevolezza della definizione stessa di "videogioco politico". Si è identificato come politico qualsiasi contenuto che miri alla sensibilizzazione su temi sociali vicini a minoranze che stanno facendo sentire la propria voce. Nel frattempo, si pensa che non sia politico un Metal Gear, che dal 1987 ha indicato con disarmante puntualità il talento degli esseri umani di scavarsi la fossa una conquista alla volta, tra distruzione mutua assicurata e bioetica.

In assenza di donne giocabili, protagonisti di cui vestire i panni che sono dichiaratamente omosessuali o appartenenti ad altre minoranze, nessuno ha insultato Death Stranding per il suo essere politico – solo per il suo gameplay inusuale – nonostante sia uno dei videogiochi più politici, nei messaggi, che siano mai usciti, con tanto di riferimenti dirompenti all'ex Presidente Donald Trump e alle sue intenzioni di costruire mura.

Giù di insulti, invece, nei confronti di Life is Strange 2, del suo narrare di immigrazioni e confini. Fu proprio Dontnod, interpellata in merito, a commentare l'onnipresenza di un messaggio politico, di qualsiasi orientamento sia, all'interno delle narrazioni videoludiche e delle narrazioni in genere.

Il creative director Michael Koch, come vi riferimmo, dichiarò che tutte le opere che raccontano qualcosa sono politiche:

Penso, personalmente, che ogni opera creativa, che si tratti di un film o di un libro o di un videogioco, sia in un certo senso intrinsecamente politica, perché ci sono degli esseri umani dietro alla storia che stai scrivendo. Ovviamente, tutti abbiamo delle nostre opinioni, delle nostre credenze, e non penso potrebbe essere possibile scrivere una storia sincera e genuina se dovessi andare contro a quello in cui credi. [...] Penso che, se una storia o comunque un gioco decidessero di trattare un argomento in modo timido, allora quella sarebbe già una scelta politica – la scelta di non parlarne.

Il suo pensiero è un ottimo punto di partenza per impreziosire il dibattito sul videogioco come veicolo di messaggi, anche quando i messaggi sono socialmente rilevanti – come accade in tutti i media maturi: anche non parlare di qualcosa è una scelta politica, molto semplicemente.

Ci troviamo allora di fronte a una biforcazione, tra videogiochi che si impegnano per sottolineare soprattutto la loro natura di narrazioni mediali e i sottotesti riferibili alla nostra società e altri che, volendo rimanere più nel ludico, cercano di disinnescare da subito le polemiche (di solito violente e tutt'altro che costruttive) di cui di solito l'impegno politico ammanta le discussioni.

Il risultato, però, è la percezione che ogni tanto manchi, semplicemente, del coraggio: quello di citare fonti di ispirazione e riflessioni che portano alla nascita delle proprie opere, una volta che quei mondi virtuali sono concreti e devono misurarsi con chi potrebbe non apprezzarne gli spunti. Un videogioco dal budget importante vuole e deve vendersi a più persone possibili, ma se per farlo deve rinunciare completamente al piano del significato, riducendosi a un significante dalla fruizione usa e getta, allora ci stiamo perdendo una parte di quello che questi creativi, qualsiasi sia il loro credo politico, possono darci creando mondi attraverso il nostro medium preferito.

Abbiamo aspettato per anni che al videogioco venisse riconosciuta la sua giusta dignità di medium e, ora che si prende la libertà di comunicare messaggi che in quanto tali non trovano tutti concordi e sono necessariamente politici, in ciò che scelgono di dire o non dire, vorremmo di nuovo metterlo a tacere. Immaginate pretendere qualcosa del genere da un film, un romanzo, una serie TV, la musica: si cerca di cucire l'espressione di chi crea secondo le proprie misure, il che a quanto pare risulta più facile e naturale in un'industria che con l'autorialità ha ancora un rapporto molto complicato e discontinuo.

E quando è il videogiocatore stesso a invocare i contesti superficiali, perché la politica stia fuori dai videogiochi, ecco che il medium finisce impantanato, rallentato o limitato dagli schiamazzi di chi vuole urlare più forte degli altri pensando che questo renda la sua idea più valida. Ma i serious game (il gioco con uno scopo, prevalentemente sociale, che non mira all'intrattenimento immediato) esistono da tempo e sono diventati sempre più trasversali, incontrando anche il videogioco tradizionale e rendendo sempre più sfumati i loro confini: lo si noterebbe se non ci fosse una distorsione totale nella percezione di cosa sia politico o no che annacqua la prospettiva.

Il videogioco che vuole meramente divertire deve esistere. Il videogioco che vuole passare un messaggio o una riflessione deve esistere. Nessuno dei due è più o meno videogioco dell'altro e il fatto che ci siano compagnie che hanno quasi l'ansia di precisare da subito di appartenere alla prima categoria, come se la seconda fosse "scomoda", ci parla dei passi in avanti che è ancora necessario fare nella percezione globale dell'oggetto videoludico: avere un messaggio non può e non deve essere visto come un limite da chi lo propone. E scegliere di non avere un messaggio è – e rimane – un messaggio.

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