Il boom di Elden Ring, la gestione dell'hype, il futuro: una chiacchierata con Bandai Namco

Una chiacchierata con la divisione italiana di Bandai Namco, per scoprire come il publisher di Elden Ring veda il videogioco, le vendite, il suo futuro e in particolare il mercato nostrano.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Qualcuno diceva che ogni videogioco che arriva sul mercato rappresenta, a suo modo, il compimento di un piccolo miracolo. Ci sono tantissimi pianeti da allineare, per fare in modo che quella che nasce come un'idea immateriale possa trasformarsi in un'esperienza che altri vivono controller alla mano.

Basta questo, forse, a capire quanto sia ancora più complesso non solo rendere realtà lo spunto da cui nasce un videogioco, ma soprattutto fare in modo che l'opera finale sia di livello assoluto e si eriga a paradigma del genere che rappresenta. È quello che è successo a Elden Ring, il kolossal di FromSoftware (qui la recensione del nostro Domenico Musicò) che in questo 2022 è, più che mai, il fiore all'occhiello del publisher Bandai Namco.

La compagnia giapponese, nata dalla storica fusione di Namco e Bandai nel 2005, è uno dei più attivi e più prolifici nomi del mercato videoludico odierno: nonostante la sua sede centrale sia ubicata a Minato, Tokyo, il publisher conta anche su un quartier generale tutto italiano.

Abbiamo così avuto la possibilità di sederci a un tavolo (virtuale) in compagnia di Nicola Veneziani, PR ed event manager per Bandai Namco in Italia, e di Luca Visentini, marketing manager e product manager.

Durante la nostra chiacchierata, abbiamo avuto modo di parlare in modo sorprendentemente diretto di come sia vivere, dal nostro Paese, una realtà come quella del publisher nipponico, affrontando spunti di riflessione che vanno dal successo di Elden Ring alla cultura dell'hype, passando per la distribuzione in Europa di Cyberpunk 2077 e per i progetti futuri.

Dal Giappone all'Italia, in una grande realtà

Realtà come quella di Bandai Namco hanno le radici in Giappone, ma si estendono sull'intero pianeta: la holding ha divisioni che permettono di realizzare e distribuire videogiochi (e non solo) destinati a Europa, America, Medio Oriente, Africa, Asia e Oceania.

Nel caso dell'Italia – che sappiamo essere un mercato importante ma non particolarmente popoloso, agli occhi delle etichette più celebri del gaming – il rapporto diretto con il quartier generale giapponese passa, in realtà, prima per Lione, sede centrale di Bandai Namco nel Vecchio Continente.

«Noi ci rapportiamo per il 99% con la sede europea di Lione» mi spiega Visentini, quando introduco il tema del lavorare, dall'Italia, per una grande compagnia giapponese, con tutte le curiosità e le peculiarità che questo può comportare. «Avere contatti molto sporadici con il quartier generale in Giappone è una fortuna e una sfortuna allo stesso tempo».

Quando gli domando come mai, Visentini mi spiega che da un lato la fortuna è dovuta al fatto che rapportarsi direttamente con il modo di lavorare giapponese «non è sempre facile». La sfortuna, ovviamente, risiede nel fatto che «abbiamo un filtro di mezzo che può rallentare un po' le cose».

Si tratta, effettivamente, di un approccio diffuso per le compagnie giapponesi – o con sede remota rispetto al nostro mercato – che operano anche in Italia, e che solitamente hanno un quartier generale continentale che filtra i rapporti con quello centrale sito nel Paese del Sol Levante.

Nonostante la distanza e i filtri, però, «noi percepiamo di essere in un'azienda giapponese, e molto, per una serie di motivi di cultura aziendale, cultura del lavoro, rispetto dei professionisti» racconta invece Veneziani, cercando di darmi una visione più completa dell'assetto italiano di Bandai Namco.

Tutto, apprendo, «è molto incentrato sull'HQ europeo, che è quello che si prende la briga, gli oneri e gli onori di avere a che fare tutti i giorni, per molti dei nostri titoli, direttamente con il Giappone».

Videogiochi dall'Oriente e videogiochi dall'Occidente

Chiarito come sia strutturata e ramificata la holding sul suolo europeo, mi viene in mente che parliamo di una compagnia riconoscibilmente giapponese in molte delle sue produzioni. Quando Bandai Namco acquisisce delle licenze, ad esempio, fanno spesso riferimento ai successi dell'animazione giapponese: da NarutoDragon Ball, passando per Captain TsubasaOne Piece, sono numerose le produzioni che sono orgogliosamente nipponiche e che strizzano l'occhio ai videogiocatori amanti della cultura orientale.

Tuttavia, parliamo anche della stessa compagnia che ha dato fiducia a suo tempo a Dark Souls, quando i Souls non erano il tormentone di oggi e il precedente Demon's Souls aveva destato qualche ombra perfino in Sony: un progetto sì giapponese, ma che guarda a un target diverso da quello a cui vuole parlare Tsubasa.

E, ancora, a queste proposte se ne affiancano altre all'apparenza più occidentali, come potrebbero essere l'antologia The Dark Pictures o i due apprezzati Little Nightmares (date un'occhiata alla recensione del secondo per capire la sua unicità).

Il fatto di puntare fortemente sui giochi di stampo nipponico, affiancandoli però sempre più a proposte differenti, non è tanto una questione di pura filosofia, quanto di business: «quanto il nostro business è sostenibile overseas, in Europa e negli Stati Uniti, con i prodotti che arrivano dal Giappone?» riflette Visentini.

«Molte delle nostre produzioni sono pensate per il mercato giapponese – non tutte, ma una parte sì. Considerando che buona parte del fatturato globale di Bandai Namco, come holding, è ancora legato ad attività o business basati in Giappone, noi qui dobbiamo cercare un buon mix per evitare di diventare un po' la provincia dell'impero. Ci sono tanti titoli che funzionano benissimo anche da noi, come Dragon Ball o Tekken, ma non è detto che bastino per raggiungere gli obiettivi di business che ci siamo dati in Europa e USA, che sono ambiziosi».

È qui che, pur rimanendo riconoscibilmente giapponese in buona parte della sua proposta, Bandai Namco apre la porta a produzioni che sembrano più vicine a quelle che, di solito, hanno dalla loro dei distributori occidentali.

«Abbiamo bisogno di allargare il portfolio e di differenziare i prodotti che abbiamo» continua Visentini, con grande trasparenza. «I nostri prodotti non saranno così solo quelli che arrivano dal Giappone ma saranno anche, sempre più, quelli che produrremo in USA ed Europa». 

La mente va, ad esempio, UNKNOWN 9, in sviluppo presso Reflector Entertainment, che ha grandi ambizioni e per cui Bandai Namco ha acquisito l'intero team di sviluppo. «Sarà uno dei nostri progetti più importanti, su cui lavoreremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni» mi assicura Visentini.

Veneziani mi svela che l'idea di Bandai Namco sarebbe quella di «arrivare al 50% del giro di business in Europa con prodotti o in distribuzione o, soprattutto, in publishing europeo. È un obiettivo ambizioso, perché i prodotti in arrivo dal Giappone al momento pesano ancora molto, sono i Dragon Ball, sono gli One Piece, che vendono tanto. E poi ci sono casi come Elden Ring» che, sottolinea non senza una certa soddisfazione, rimescolano le carte delle strategie, perché è difficile concentrarsi sull'idea di potenziare gli arrivi dall'Occidente, se dall'Oriente ti arriva un prodotto come quello di Miyazaki.

C'è però un fattore fondamentale, in Elden Ring, dal punto di vista del publisher: è una proprietà intellettuale di Bandai Namco, mentre molti degli altri suoi grandi successi sono videogiochi su licenza. E questo, mi racconta Veneziani, ha ovviamente un suo peso:

«D'altra parte, Elden Ring è una nostra IP e questo semplifica tanto le cose. Tante produzioni che arrivano dal Giappone sono su licenza, il che è anche uno dei motivi per cui, secondo me, come publisher, quasi il nostro logo non si metteva quando avevamo degli stand alle fiere: tutto era incentrato sulla licenza, magari sul nome di Dragon Ball, che ovviamente aveva una riconoscibilità maggiore del nostro logo».

Con la forza di IP come Elden Ring Dark Souls, invece, non ci sono dubbi che anche il nome di Bandai Namco sia via via diventato sempre più riconoscibile, permettendo al publisher di staccarsi dall'idea di essere, semplicemente, quello che pubblica i videogiochi su licenza dei grandi anime e manga giapponesi.

Videogiocare, ma in Italia

È anche vero che il successo di un titolo, in un mercato come quello nostrano, non è mai scontato: il più recente rapporto di IIDEA ci ha parlato di un medium videoludico sempre più capillare, ma le classifiche dei giochi di maggior successo suggeriscono anche che i nomi che attirano maggiormente l'attenzione e l'affetto degli appassionati in Italia siano pochi e molto costanti.

Tuttavia, la figura del videogiocatore è cambiata molto, se guardiamo anche solo a dieci anni fa: oggi si videogioca letteralmente su qualsiasi dispositivo e anche persone che altrimenti non si sarebbero avvicinate al gaming, complice la pandemia, hanno scoperto la bellezza dei mondi virtuali interattivi.

«Considera che ti parlo principalmente per la mia visione» analizza Visentini, quando tocchiamo l'argomento, «ma per me non è cambiato moltissimo. Dal punto di vista del consumatore, quello con cui ci approcciamo negli ultimi due anni è un po' lo stesso con cui ci approcciavamo cinque o sei anni fa. E anche nella visione dei videogiochi in Italia non credo sia cambiato tantissimo».

Analizzando proprio il videogiocatore italiano, Veneziani evidenzia come questo vada a costituire un «mercato abbastanza conservatore, diciamo così, che tende a premiare sempre gli stessi giochi o le stesse tipologie di giochi».

In questo, effettivamente, Elden Ring suona proprio come un'eccezione – forte, di certo, sia della qualità del gioco di per sé, sia del clamore avuto in seguito alle analisi della critica, sia del lavoro svolto proprio da Bandai Namco nel far arrivare il gioco non solo agli hardcore gamer più avvezzi al genere, ma anche a neofiti rimasti affascinati dai suoi scenari e dalla sua anima open world.

Il lavoro svolto da Bandai Namco, che partiva dal non esporre il suo logo in alcune occasioni perché molto meno di richiamo rispetto alle IP di cui deteneva la licenza, ha portato il publisher via via a dominare, invece, le classifiche con produzioni come Elden Ring e contando su successi senza tempo come Tekken.

Viene spontaneo, allora, domandarsi il perché del recente cambio di logo, che tra le altre cose ha lasciato abbastanza perplessi gli appassionati – ormai abituati al vecchio in cui dominavano i toni caldi. A raccontarmi i retroscena di questa decisione è stato proprio Visentini:

«Il nostro logo precedente era nato dalla fusione di Bandai e di Namco e rappresentava bene quel periodo storico, in cui due aziende si erano fuse e una in modo più o meno ancora indipendente perseguiva i suoi obiettivi. È un discorso un po’ complesso per cui bisognerebbe anche parlare di come è organizzata la holding a livello di business unit.

Per farla molto molto breve: il nuovo logo credo voglia riassumere il nuovo corso in cui tutte le business unit dell’azienda cercano di lavorare in modo integrato, in modo più sinergico. Al netto delle business unit come parchi divertimento che per forza di cose e collocazioni geografiche vanno a sé, abbiamo anche divisioni toys, hobby, una parte di giocattoli e figures e così via. In passato c’era molta separazione tra il mondo dei videogiochi e quello dei collectible, la strada che stiamo già perseguendo da diversi anni è quella di unirci in modo sempre più stretto, soprattutto in Italia».

Anche Veneziani concorda sul fatto che il nuovo logo, che racchiude insieme i nomi di Bandai e di Namco, abbia lo scopo di lasciarsi alle spalle l'idea di una compagnia fatta di più parti finite a convergere sotto un'unica etichetta.

«Il nuovo logo dovrebbe aiutare a rimettere un po’ in ordine il tutto. Per dire, adesso le scatole dei giocattoli avranno il logo di Bandai Namco e il logo vecchio rosso e azzurro di Bandai. Di base però ci sarà il logo della holding, cosa che al momento non succede: succede solo sui prodotti concessi in licenza a Bandai Namco Entertainment» cita, sottolineando a sua volta quanto diversi siano i prodotti che finiscono sotto il cappello della compagnia, che vanno dai videogiochi ai concerti.

E, tra una chiacchierata sul logo e l'altra, c'è spazio anche per una confidenza da parte di Veneziani: «anche noi ci stiamo ancora prendendo la mano, ma me piace molto di più il logo nuovo!».

I motivi del videogiocare e cosa piace a chi lavora con i videogiochi

Se è vero che Bandai Namco conta su business unit impegnate nelle attività più varie, lo è anche che i videogiochi rimangono il suo cuore pulsante, a maggior ragione per il pubblico occidentale. Mi sono chiesta, allora, quale sia il motivo per cui videogiochiamo secondo un publisher: la sua visione, infatti, si lega anche all'ampiezza del portfolio che propone.

«È difficile dare una risposta univoca» ragiona con me Visentini, «ognuno ha le sue motivazioni. Può essere per la competizione. Può essere per il giocare con gli amici, o l'evadere dalla noiosa realtà. Ci sono tante motivazioni per giocare». E l'escapismo, sicuramente, ha sempre un suo peso.

«Io stesso ho motivazioni diverse: quando gioco a FIFA è per la competizione, quando gioco a Elden Ring è per evadere. Quando gioco a un gioco narrativo lo faccio per rilassarmi» aggiunge.

Aperta la porta sui titoli pubblicati da altre compagnie, Veneziani non si risparmia e mi confida con entusiasmo «io gioco molto a Destiny! Lo faccio sia per l'aspetto competitivo, sia perché mi rilassa molto. È un porto sicuro quando devo rilassarmi e devo staccare un attimo il cervello, metto l'autopilota e faccio tutte le mie attività, con il clan di cui faccio parte fin dal day-one».

Quando si tratta, invece, del loro gioco preferito all'interno del catalogo di Bandai Namco, i due rappresentati del publisher non hanno dubbi. Come spiegato da Veneziani:

«Direi Elden Ring. Non sono uno particolarmente legato alle sfide e c'è stato una sovrapposizione di uscite perché è uscito insieme a The Witch Queen [di Destiny 2, ndr], ma ho avuto l'occasione di giocarci prima! Ho fatto le mie venti e rotte ore, per ora, di esplorazione, a curiosare. Ammetto che è un gioco che, se non avessi altro per le mani, probabilmente mi avrebbe portato ad andare parecchio avanti».

Anche Visentini conferma che puoi goderti un gioco anche se hai lavorato al suo lancio per anni, quando mi racconta che con Elden Ring è arrivato a «un'ottantina di ore. Da giocatore che ha platinato i vecchi Dark Souls, in questo momento ti direi proprio che Elden Ring è il mio preferito di Bandai Namco».

C'è anche una sorpresa, però, perché Visentini tira fuori un asso dalla manica, puntando su una IP storica: «voglio citare anche Ace Combat! Sono sempre un po' sotto con Ace Combat».

Elden Ring: un inizio o un traguardo?

L'elefante nella stanza della nostra chiacchierata, che tornava e ritornava di tanto in tanto nella conversazione, fino a questo punto è stato Elden Ring. Nicola Veneziani ne sfoggia orgogliosamente la felpa, perché il lancio del gioco è stato un grande successo e oltre due mesi dopo il titolo di Hidetaka Miyazaki è ancora sotto i riflettori di appassionati e addetti ai lavori.

Mi domando se possiamo considerare questa tappa come un punto di arrivo – che premia gli sforzi di Bandai Namco e l'aver creduto, a suo tempo, in Dark Souls. O, forse, dovremmo parlare di un inizio: poche volte abbiamo assistito a ondate così centralizzanti in una community ricca di diversità come quella dei videogiocatori.

«È entrambe le cose» mi risponde Visentini. «Sicuramente è una grande soddisfazione, perché è il lancio più grosso a cui abbiamo mai lavorato, forse da sempre. Per ovvi motivi c'era tanta pressione. Non è stato facile, ma tutto questo viene ripagato dalla soddisfazione di vedere da una parte quanto il pubblico abbia apprezzato il gioco, dal punto di vista commerciale e di business, e quanto siamo riusciti a farlo vendere e a coinvolgere le persone nel progetto. Ha grandi potenzialità per il futuro».

Le vendite premiano la qualità?

Il discorso prende ben presto una piega ulteriormente interessante: cosa le vendite rappresentino per il riconoscimento del successo di un'opera. Un publisher, che finanzia i lavori su un videogioco, ha per ovvi motivi bisogno che quel videogioco ottenga i favori del mercato. Tuttavia, sappiamo che spesso innovazione e successo sul mercato non sono due aspetti che vanno a braccetto.

Ecco perché, secondo Veneziani, i risultati di Elden Ring rappresentano anche un modo per «spezzare il dominio di vendite dei soliti prodotti. Spesso il mercato non premia dei prodotti che sono molto belli e che passano assolutamente in sordina, con poco riscontro da parte del pubblico» ammette.

«Non ho niente contro il fatto che i soliti quattro o cinque siano più o meno sempre i più venduti nel corso degli anni, mi dispiace però che alcuni titoli belli che sono usciti non siano in grado di scardinare nemmeno per una settimana o due il dominio di questi prodotti – è questo che mi dispiace. Il giocatore italiano fa un po' fatica, io stesso predico bene e razzolo malissimo».

Il fatto che il pubblico nostrano sia molto abitudinario – pensiamo alle classifiche di vendita settimanali, dove dominano ciclicamente alcune IP, come FIFACall of DutyGrand Theft Auto, a prescindere dal tempo trascorso dal debutto del più recente episodio – potrebbe, secondo Veneziani, portare a un appiattimento delle grandi produzioni.

«Non vorrei che in un futuro le aziende si concentrassero solo ed esclusivamente a fare quattro titoli e tutto il resto rimanesse nella scena indipendente, con la quale ovviamente non c'è nessun problema, ma è ovvio che a quel punto mancherebbe un pezzo al mosaico».

Anche Visentini concorda sul fatto che esista un divario tra la qualità di un gioco e il suo successo commerciale, anche (ovviamente) fuori dall'Italia:

«Così le persone si perdono delle esperienze più che piacevoli, ed è un rischio perché può indirizzare i publisher nel lungo periodo. Chiaro, poi rimarrebbe tutta la scena indie, ma parliamo di produzioni diverse, con obiettivi e scopi differenti, con budget differente.

L'idea che possano venire a mancare AAA di un certo tipo, perché il mercato non si dimostra interessato, sarebbe un vero peccato, dal mio punto di vista – perché sono un giocatore. Purtroppo, così va il mondo».

L'importanza del day-one per un publisher

Parlando di successo commerciale, viene in mente il fatto che diverse etichette – pensiamo a Sony con Days Gone – tengano conto soprattutto del day-one come unità di misura della risposta del pubblico per un gioco. È un discorso che, apprendo, è valido anche all'interno di Bandai Namco.

In merito al successo di Elden Ring, Visentini mi spiega che «il giocatore, dal suo punto di vista anche saggiamente, può scegliere di giocare a titoli non quando sono appena usciti, ma aspettando grossi cali di prezzo. Ovviamente, questo è un beneficio per lui e va bene anche alle aziende, ma il day-one viene penalizzato. Quando noi parliamo di risultati di un prodotto, parliamo soprattutto di quelli del day-one».

Il che non significa che le vendite successive non contino, precisa, ma il peso non è lo stesso di quelle del momento del lancio. Da qui, quindi, la sottolineatura del lancio monstre avuto da Elden Ring.

«Anche se è vero che un buon catalogo aiuta» aggiunge Veneziani, in riferimento ai giochi che, più a coda lunga, vendono nel lungo periodo, continuando a macinare numeri. «Nel nostro caso, abbiamo sempre avuto un buon catalogo che ha venduto bene e ha aiutato ad avere un'ampiezza nell'offerta».

Brand come Tekken, o come Tsubasa, o come Dragon Ball, rientrano pienamente in questa logica e il publisher lo sa bene: «Tekken è un prodotto che vendiamo ancora, a distanza di cinque anni» sottolinea Visentini.

Elden Ring e la gestione dell'hype

I videogiocatori conoscono molto bene il concetto di hype, l'attesa spasmodica verso un prodotto in arrivo. Si tratta di una freccia all'arco dei publisher che può essere in favore della produzione quando questa si rivela essere all'altezza delle aspettative – come fu Elden Ring – oppure contro il gioco stesso, quando invece il pubblico rimane deluso: pensiamo al caso Cyberpunk 2077, che era distribuito proprio da Bandai Namco.

Mi sono chiesta come sia stato, allora, il lavoro di trovare un equilibrio tra la creazione della domanda e dell'hype per Elden Ring, con alle spalle lo spettro della possibilità che si ritorcesse contro al gioco stesso. A tal proposito, mi raccontano Veneziani e Visentini, è stato di grande aiuto il closed network test.

«È vero che era solo una fettina del gioco, ma era anche sufficiente a capirne perlomeno le meccaniche, dal punto di vista della qualità» ragiona Visentini. «La vastità ovviamente in quel caso non era misurabile. Lato nostro e lato pubblico, penso che la possibilità di provare il gioco sia stata un buon game changer».

Ad affiancarsi alle certezze maturate dal closed network test, che hanno portato poi a un lancio molto più sereno, anche il curriculum di FromSoftware. Grazie ai suoi successi passati, secondo Veneziani, era davvero difficile immaginare Elden Ring come un possibile passo falso:

«La fortuna di Elden Ring è stata quella di essere sviluppato da un team che aveva comunque un record di produzioni ad altissimo livello. Però, ovviamente, questo aumenta lo stress per produrre una nuova IP. Nessuno, né noi né i fan, poteva immaginare un Elden Ring che potesse uscire come una schifezza. Potevano esserci sfumature di minor eccellenza, magari».

La distribuzione di Cyberpunk 2077

Sviluppato da CD Projekt RED, prodotto da CD Projekt, Cyberpunk 2077 è stato distribuito in Europa, nella sua edizione retail, proprio da Bandai Namco. È un nome che si infila alla perfezione nella nostra chiacchierata sull'hype, considerando quanto le attese fossero alle stelle per l'avventura di V a Night City. Le cose, come sappiamo, soprattutto su console non andarono invece come preventivato.

Al di là delle legittime delusioni dei giocatori che non hanno ritrovato la qualità che speravano quando hanno inserito il gioco nella loro PS4 o nella loro Xbox One, sappiamo che altri – molto meno legittimamente – si sono riversati sui social per insultare o minacciare gli addetti ai lavori che avevano dato vita a Cyberpunk 2077, al punto da costringere alcuni a disattivare temporaneamente i loro profili.

Si tratta di un orrido fenomeno che, per fortuna, non ha coinvolto invece Bandai Namco, che in quanto distributrice delle copie retail non è stata associata più di tanto al gioco. «Il collegamento tra Cyberpunk 2077 e Bandai Namco era comunque abbastanza leggero» ripercorre Visentini. «Il nostro rapporto con il consumatore, da questo punto di vista, era molto limitato: siamo più che altro i distributori del prodotto fisico».

«Diciamo che se Elden Ring fosse stato un nuovo Cyberpunk 2077, ne avremmo risentito un po' di più» aggiunge Veneziani, che non risparmia il suo pensiero sulla cultura dell'hype quando questo sfugge di mano:

«Mi auguro che non ci siano altri giochi schiacciati dall’hype smodato e smisurato come è successo per Cyberpunk, perché poi il rischio di rimanerci male, andare fuori di testa con atteggiamenti sbagliati, è lì. Più grossa è l’attesa, più grossa è la delusione se poi le cose non vanno come dovrebbero andare.

Cyberpunk aveva alcune problematiche, per certi aspetti oggettivamente poco discutibili, ma non penso che sia del tutto giusta la tempesta di critiche che si è abbattuta. Probabilmente con meno hype, creato e alimentato da tutte le parti in causa, il lancio sarebbe stato più tranquillo. Diciamo che il consumatore tende ad avere delle reazioni estreme anche in caso di giochi molto meno controversi, ecco».

La speranza è che, ovviamente, il mercato non debba assistere ad altri casi spinosi come quello del gioco di CD Projekt, ma anche e soprattutto che non si debbano più vedere sedicenti giocatori andare a cercare i profili personali degli sviluppatori o degli addetti ai lavori.

«Andare a cercare queste persone, proprio dal punto di vista personale, perché magari il gioco non ti è piaciuto... è una roba al limite dello stalking» chiosa Visentini.

Dai film e l'animazione ai videogiochi – e viceversa

Stiamo vivendo un periodo storico in cui, complice la grande popolarità dei videogiochi, sono sempre di più le IP che tentano il grande salto su altri media: pensiamo a quanto sono i titoli che sono stati adattati a film, oppure a serie TV.

Il lato curioso è che, per Bandai Namco, spesso le cose sono andate al contrario: tantissime delle IP con cui il publisher lavora arrivano dall'animazione (o dal fumetto) e trovano poi il suo adattamento a videogioco. Tuttavia, da poco abbiamo visto l'annuncio di una nuova serie TV dedicata a Tekken – che in passato aveva visto anche l'arrivo di un (discutibile) film.

Perché vengono pianificate queste strategie cross-mediali e quali frutti potrebbero portare, dal punto di vista di Bandai Namco?

«Ogni prodotto su licenza è un entry-point a 360°, è un modo di coinvolgere nuovi utenti che possono conoscere un franchise attraverso la serie televisiva e poi passare al videogioco» mi spiega Visentini, quando metto sul tavolo proprio la serie dedicata a Tekken.

«Dall'altro punto di vista, è anche un modo per tenere coinvolti i giocatori che già hanno giocato il gioco e hanno voglia di contenuti nuovi, che magari sono in attesa di un nuovo videogioco».

L'idea, insomma, è sia tenere viva la passione dei fan di lungo corso, sia far avvicinare nuovi appassionati al franchise. Questo, almeno, quando la cosa funziona.

«Si tratta di una opportunità enorme» aggiunge Veneziani, in merito agli adattamenti cross-mediali. «La cosa importante è che poi le cose vengano fatte bene, parlo in generale e non specificamente su Tekken. Quando i videogiochi escono dall'ambito dei videogiochi e del merchandise, al di là dei libri perché alcuni sono scritti oggettivamente bene – ecco, quando arrivi a un contenuto fruibile da chiunque come è un video, diciamo che serve che questi prodotti mantengano degli alti standard produttivi e di narrazione».

Concorda anche Visentini, aggiungendo che «se deve essere un entry-point e poi è un entry-point brutto, difficilmente poi c'è un seguito alla cosa». Un po' come a dire: se lo vogliamo fare, cerchiamo di farlo bene.

Comunicare i videogiochi nel 2022: critica e content creator

Chi segue da tanto tempo l'industria del gaming (o, meglio ancora, ci lavora) sa bene quanto la comunicazione dei videogiochi sia una parte fondamentale di questa realtà. Rispetto ai tempi della carta stampata e delle grandi fiere, il giocatore è ora molto più attivo e molto più coinvolto: gli approcci con la stampa sono diretti, l'informazione avanza 24/7 e sono tantissimi anche i content creator che permettono agli appassionati di sviscerare i loro titoli preferiti.

«I rapporti con i media sono sempre molto centrali per noi: lo sono sempre stati e sempre lo saranno» mi racconta a tal proposito Veneziani, che quotidianamente lavora proprio per le pubbliche relazioni di Bandai Namco in Italia:

«Ogni campagna marketing, ovviamente, ormai prevede un mix tra stampa specializzata classica e content creator. Noi abbiamo un approccio abbastanza democratico ai content creator, nel senso che li accettiamo tutti fintanto che cadono sotto una serie di condizioni minime che sono fondamentalmente di essere delle persone ben educate nei loro approcci, durante le loro dirette o i loro contenuti. La nostra azienda ha delle regole abbastanza stringenti su tutta una serie di cose – anche lato contenuti di videogiochi, come è giusto che sia».

Una importante differenza, dal suo punto di vista e nella sua esperienza, è la continuità della stampa specializzata, rispetto al creatore di contenuti, che in alcuni casi si avvicina al gioco nel momento della sua uscita, quando insomma il trend è al suo livello massimo.

Di contro, facendo informazione e critica, la stampa è molto più continuativa nell'analizzare o informare:

«Sono tutti e due molto importanti: ovviamente la stampa specializzata ha ancora un approccio critico e una continuità nel seguire i titoli che è fondamentale, in questo senso. Il content creator spessa arriva all’ultimo momento, il che va benissimo. È ovvio che la stampa specializzata segua il gioco lungo il suo ciclo di vita, dall’annuncio fino all’uscita e a volte anche oltre l’uscita – al di là di casi eclatanti come Elden Ring, dove poi escono tantissime guide per guidare i giocatori in ogni aspetto.

È ovvio che c'è una continuità di lavoro su un titolo, da parte della stampa specializzata, che per noi è fondamentale e che io sono ben felice di gestire, spero con reciproca stima da parte degli addetti ai lavori».

Cosa bisogna fare per il futuro?

C'è una domanda di rito che, puntualmente, mette in difficoltà un intervistato: è quella che chiede di parlare del futuro, di prospettive, di cosa stia venendo pianificato – a patto che si possa dire, certo.

Un punto focale per il futuro di Bandai Namco, apprendo da Visentini e Veneziani, è riuscire ad assicurarsi che il giocatore si senta ascoltato. La compagnia giapponese ha varato una strategia che tiene conto dei feedback, nei limiti del possibile, per provare a raggiungere uno standard qualitativo minimo, che vada a crescere rispetto a quanto è stato fatto in passato.

«Non sempre ci si riesce e non da tutti i giocatori: soprattutto negli anni passati abbiamo avuto un po’ un problema di qualità altalenante e penso che negli ultimi anni, grazie ai tanti sforzi fatti dai diversi Studios, abbiamo migliorato sensibilmente, nel senso che la gran parte dei nostri giochi ormai si assesta su una media di voti piuttosto alta. Anche tralasciando Elden Ring che è un caso con una media fuori scala, c’è molta più attenzione ai prodotti che immettiamo sul mercato e c’è molta attenzione ad essere consumer-centrici, o almeno ci proviamo» mi racconta Veneziani, con particolare franchezza.

Proprio quando gli faccio notare l'inusuale trasparenza, perché è raro che un publisher ammetta produzioni non sempre all'altezza davanti a un microfono, Veneziani aggiunge:

«Se parlassi di cultura della qualità di cui siamo stati forieri e interpreti da sempre, e poi uno andasse a vedere il Metacritic di alcuni dei nostri giochi, saremmo subito smentiti.

In un mondo come quello in cui viviamo, è molto difficile andare in giro a dire delle bugie. Il giocatore è molto smaliziato e ci mette dieci secondi, in un commento, ad andare a prendersi il Metacritic di alcuni nostri giochi usciti nel 2017, o nel 2018, o magari 2016, e dirci 'ma di cosa state parlando?'».

A quel punto, Visentini sorride e aggiunge, tra il serio e il faceto, «anche nel 2020, ma quello non lo citiamo». Sorrido: il riferimento al disastroso adattamento videoludico di Fast & Furious mi sembra più che palese.

«Ci sono alcuni titoli che sfuggono un po' al nostro controllo» precisa Veneziani, sottolineando come l'intento sia quello di aumentare la qualità delle proprie produzioni, come si è tentato di fare con operazioni come Scarlet NexusTales of. «Tutto quello che è tecnicamente pubblicato da Bandai Namco – non distribuito, ma pubblicato – ormai deve sottostare a questi standard di range minimo qualitativo, anche al costo di posticipi e slittamenti».

Se, infatti, si produce un gioco bello che non viene apprezzato, è più semplice confrontarsi per capire cosa non abbia funzionato. «Se gli dai un gioco qualitativamente basso» chiude Veneziani, in merito ai piani futuri di Bandai Namco, «allora stai cominciando con il piede sbagliato».

E come dargli torto?